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Saggio

Il giudizio di omologazione nei concordati liquidatori e in continuità aziendale*

Giuseppe Fichera, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione

1 Novembre 2022

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
*Lo scritto è destinato, con eventuali variazioni, allo Speciale di Diritto della crisi, di prossima pubblicazione, dal titolo “Studi sull’avvio del Codice della crisi” a cura di Laura De Simone, Massimo Fabiani e Salvo Leuzzi.
Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza riserva al giudizio di omologa nell’ambito del concordato preventivo una disciplina assai più complessa, rispetto al modello unitario offerto dall’abrogata legge fallimentare del 1942. Prendendo le mosse dalla netta distinzione, apparentemente sempre più marcata dopo il decreto di recepimento della direttiva insolvency, tra concordati liquidatori e concordati in continuità aziendale, lo scritto esamina le diverse regole del nuovo giudizio di omologa, compresa la fase del c.d. cram down, soffermandosi poi sulle ulteriori differenze esistenti rispetto al concordato semplificato e a quello minore. 
Riproduzione riservata
1 . Introduzione
La legge 19 ottobre 2017, n. 155, recante la delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, all’art. 6, comma 1, lett. f), nell’individuare, tra i criteri direttivi in tema di concordato preventivo, i poteri che il tribunale poteva esercitare nella fase di omologazione, si limitava genericamente a richiamare la valutazione della fattibilità del piano, con l’attribuzione all’organo giudicante di «poteri di verifica in ordine alla fattibilità anche economica dello stesso».
Così il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, nel testo originario del ’19, introdotto con la prima stesura del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14[1], senza porre alcuna distinzione tra concordati liquidatori e concordati in continuità aziendale, da un lato, in sede di ammissione alla procedura, stabiliva seccamente che al tribunale competeva di verificare «l'ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano» (art. 47, comma 1, CCII), mentre, dall’altro, occupandosi del procedimento di omologazione, ribadiva che il medesimo tribunale doveva semplicemente verificare «la regolarità della procedura, l'esito della votazione, l'ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano» (art. 48, comma 3, CCII).
L’unica disposizione dedicata al “giudizio di omologazione” (art. 112 CCII), poi, riproduceva sostanzialmente l’art. 180, comma quarto, L. fall. [2] – anch’esso intestato al “giudizio di omologazione” –, richiamando esclusivamente la regola del c.d. cram down, in forza della quale, in presenza di un concordato in cui i creditori fossero stati suddivisi in classi, il creditore dissenziente appartenente ad una classe dissenziente potesse contestare la convenienza della proposta davanti al tribunale, mentre nell’ipotesi di mancata formazione delle classi, il giudizio di convenienza poteva essere sollecitato soltanto dai creditori dissenzienti, che rappresentassero almeno il venti per cento dei crediti ammessi al voto.
In entrambi i casi il tribunale poteva omologare il concordato, nonostante la contestazione dei creditori dissenzienti, all’unica condizione di potere formulare la prognosi che il credito dell’opponente comunque sarebbe stato «soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale».
2 . Il nuovo giudizio di omologa del concordato preventivo
La necessità di recepire nel nostro ordinamento la direttiva UE n. 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, sui quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione (la c.d. direttiva Insolvency), ha giustificato un intervento particolarmente sostenuto sul giudizio di omologazione, risultando l’art. 112 CCII completamente stravolto a seguito del D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, con il quale il legislatore delegato si è appunto assunto l’onere di recepimento della detta direttiva.
Da un primo approssimativo sguardo alla norma in commento emerge subito la crescita esponenziale delle regole dedicate appunto al “giudizio di omologazione”; invero, dagli originari due commi di cui si componeva il testo dell’art. 112 CCII[3], si è passati a ben sei, tutti dedicati ad una minuziosa e direi a tratti davvero ridondante elencazione delle verifiche spettanti al tribunale al fine di addivenire alla formulazione del detto giudizio, mentre ogni riferimento ai poteri del decidente è stato espunto dal testo dell’art. 48 CCII, oggi rimasto a dettare soltanto le regole del relativo procedimento.
La vera novità del decreto di recepimento è costituita dalla scissione netta tra la disciplina dell’omologa del concordato liquidatorio e quella del concordato in continuità aziendale, i quali oggi sembrano assoggettati a controlli, sia in fase di ammissione che di omologa, in buona misura diversificati.
In realtà, il comma 1 dell’art. 112 CCII detta una serie di condizioni comuni a tutte le procedure di regolazione della crisi, che il tribunale deve sempre verificare per procedere alla omologa della proposta di concordato preventivo.
Stabilisce infatti la norma in esame che il collegio è, in ogni caso, chiamato ad accertare: a) la regolarità della procedura; b) l'esito della votazione; c) l'ammissibilità della proposta; d) la corretta formazione delle classi; e) la parità di trattamento dei creditori all’interno di ciascuna classe.
Si tratta di presupposti all’evidenza estensibili a tutti i tipi di concordato, che francamente non sembra neppure necessitassero di una espressa loro codificazione, non potendosi dubitare – anche nel testo originario dell’art. 48 CCII, come pubblicato nella stesura risalente al 2019 – che fosse compito del tribunale, pure in difetto di opposizioni di sorta, accertare il rispetto di talune disposizioni procedimentali del giudizio omologa e, tra queste, in primo luogo di verificare l’effettività di quel contraddittorio che la legge vuole si instauri tra il proponente e i creditori dissenzienti[4].
Quanto all’esito della votazione, nessuno dubita che quando il commissario giudiziale redige la relazione ex art. 110 CCII, nel seno della quale assume che siano state raggiunte le maggioranze prescritte, il tribunale, investito del successivo giudizio di omologa, comunque, sarà chiamato a verificare d’ufficio l’esattezza dei calcoli operati dall’ausiliario, risolvendo le eventuali contestazioni sollevate dal debitore circa l’esito delle operazioni di voto.
Più articolato appare il discorso con riferimento al prescritto requisito della “ammissibilità” della proposta.
Invero, mentre la legge fallimentare del ’42, per stabilire se una proposta concordataria fosse ammissibile o meno, demandava al tribunale genericamente una verifica circa l’esistenza dei «presupposti di cui agli articoli 160, commi primo e secondo, e 161», oggi l’art. 47, comma 1, CCII, nel testo novellato dal D.Lgs. n. 83 del 2022, stabilisce espressamente che la “ammissibilità” della proposta di concordato è valutata, al momento dell’apertura della procedura, esclusivamente con riguardo al concordato liquidatorio (lett. a), mentre per il concordato in continuità la medesima disposizione (lett. b) discorre di mera «ritualità della proposta», soggiungendo peraltro – in maniera apparentemente contraddittoria – che la domanda di concordato è comunque inammissibile «se il piano è manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali», formula questa che all’evidenza evoca il concetto della c.d. “fattibilità economica”, di origine esclusivamente giurisprudenziale[5] e di cui si dirà in prosieguo.
Tuttavia, occorre tenere conto che l’art. 112, comma 1, lett. c), CCII nel disciplinare appunto il giudizio di omologazione ribadisce che il tribunale, per qualunque tipo di concordato, deve sempre verificare «l’ammissibilità della proposta».
Non sembra allora che possano residuare dubbi sull’identità del controllo affidato all’organo giurisdizionale nelle due fasi (quella iniziale e quella di omologa), tenuto conto del consolidato orientamento della S.C. a tenore del quale, nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, il controllo della regolarità della procedura impone al tribunale la verifica della persistenza, sino a quel momento, delle stesse condizioni di ammissibilità già scrutinate nella fase iniziale[6].
La verità è che, al di là della disputa nominalistica, sia per il concordato liquidatorio che per quello in continuità, alla luce del dettato del Codice, resta ferma la necessità di un giudizio circa l’ammissibilità della proposta, principalmente agganciato a quella che la giurisprudenza di legittimità ha sempre inquadrato come la c.d. “fattibilità giuridica”, cioè la non incompatibilità del piano con norme inderogabili[7]; si pensi al controllo – imposto oggi per i soli concordati liquidatori dall’art. 84, comma 4, CCII – in ordine al pagamento della soglia minima di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari[8], nonché all’effettivo apporto di risorse esterne, oppure al controllo nel concordato con continuità aziendale sulla soddisfazione dei creditori, anche in misura non prevalente[9], con il ricavato dell’attività in continuità (art. 84, comma 3, CCII).
Dunque, in entrambi i tipi di procedura l’inammissibilità della proposta potrà essere dichiarata, oltre naturalmente che nell’ipotesi tipica della scoperta di atti di frode ex art. 106 CCII, quando la stessa non sia “giuridicamente fattibile”, risulti cioè contraria, nel suo contenuto, ad una qualsivoglia norma di legge che imponga un preciso perimetro alle scelte del debitore. 
Quanto al controllo sulla formazione delle classi, è noto che esse devono essere costituite, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. o), CCII, tra i creditori «che hanno posizione giuridica e interessi economici omogenei»; sarà allora compito del tribunale – d’ufficio anche in difetto di opposizione da parte dei creditori – accertare che, al momento della formazione di ciascuna delle classi, il proponente abbia inteso rispettare il criterio generale sopra descritto.
Va soggiunto che, per effetto del disposto dell’art. 85, comma 2, CCII, le classi vanno sempre formate quando si tratti di: i) crediti tributari o previdenziali falcidiati; ii) creditori titolari di garanzie prestate da terzi; iii) crediti anche in parte soddisfatti non con denaro; iv) creditori che propongano il concordato e parti ad esse correlate.
In ogni caso, poi, in forza dell’art. 85, comma 3, CCII, nel concordato in continuità aziendale, la formazione delle classi è divenuta oggi obbligatoria[10], sicché, non restando margini di manovra al debitore, il tribunale dovrà sempre verificare la corretta formazione delle medesime all’interno della proposta concordataria.
Infine, com’è noto, da un lato, deve essere assicurata la parità di trattamento tra i creditori all’interno della medesima classe e, dall’altro, il trattamento stabilito per ciascuna classe – salva la deroga prevista per il concordato in continuità dall’art. 87 CCII – non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause di prelazione; e pure queste risultano indagini affidate ex officio al tribunale.
3 . L’omologa nel concordato liquidatorio
Se ciascuno dei requisiti sopra descritti deve essere vagliato dal tribunale in ogni tipo di concordato, sia esso liquidatorio che in continuità aziendale, l’art. 112, comma 1, lett. g), CCII ci ricorda che nei concordati diversi da quelli in continuità – id est quello liquidatorio, ovvero con assuntore – in fase di omologa occorre altresì vagliare «la fattibilità del piano», «intesa come non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati».
Questa formula, che ha una chiara matrice giurisprudenziale, risultando niente di più che la codificazione delle massime più recenti della S.C.[11], in effetti la ritroviamo già nel citato art. 47, comma 1, lett. a), CCII, come novellato dal D.Lgs. n. 83 del 2022, laddove in sede di ammissione alla procedura, nel valutare pur sempre la fattibilità del piano liquidatorio, si discorre ancora una volta «di non manifesta inattitudine del medesimo a raggiungere gli obiettivi prefissati».
Ma ancora prima, nell’enunciare i principi processuali di carattere generale che contrassegnano la materia concorsuale, l’art. 7, comma 2, CCII come novellato dal D.Lgs. n. 83 del 2022, impone al tribunale di accertare – quale che sia il tipo di concordato proposto dal debitore – che il piano «non sia manifestamente inadeguato a raggiungere gli obiettivi prefissati»[12].
Dunque, al di là delle trascurabili differenze lessicali, deve ritenersi che nel concordato liquidatorio il tribunale sia chiamato sempre – sia nella fase di ammissione che in quella di omologa – a valutare il piano sotto il profilo della fattibilità (non più espressamente definita come “economica” a seguito dell’epurazione di questo termine, imposta dal decreto delegato di recepimento del ‘22), con un sindacato che tuttavia si ferma alla manifesta inattitudine, senza ulteriori indagini che, stando alla lettera della norma, non sono autorizzate, se non sulla base di precisi motivi di opposizione all’omologa.
4 . (Segue). Nel concordato semplificato
Il concordato semplificato con cessione dei beni ha fatto il suo esordio nell’ordinamento concorsuale italiano con l’art. 18 del D.L. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla legge 21 ottobre 2021, n. 147; l’istituto è stato poi innestato nel Codice della crisi, occupando l’art. 25 sexies CCII, con un testo che – sostanzialmente – riproduce quello dell’ormai abrogato D.L. n. 118 del 2021[13].
Ora, il comma 5 dell’art. 25 sexies CCII stabilisce che il tribunale omologa il concordato semplificato quando, «verificata la regolarità del contraddittorio e del procedimento, nonché il rispetto dell’ordine delle cause di prelazione e la fattibilità del piano di liquidazione, rileva che la proposta non arreca pregiudizio ai creditori rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale e comunque assicura un’utilità a ciascun creditore».
Dunque, è possibile senz’altro affermare che taluni presupposti per l’omologa del semplificato coincidono con quelli propri di qualunque concordato, mentre altri sembrano mostrare chiari segni di diversità.
Invero, nessuno potrebbe dubitare che la «regolarità del contraddittorio e del procedimento» di cui all’art. 25 sexies CCII equivale alla «regolarità della procedura» di cui all’art. 112 CCII, mentre la violazione delle cause legittime di prelazione si inserisce – all’evidenza – tra i casi di inammissibilità del concordato, per contrarietà ad una norma che detta le regole comuni di ogni proposta.
Quanto alla “fattibilità” del piano di liquidazione, non sembrano consentite perplessità in ordine alla assoluta equivalenza della valutazione riservata al tribunale nel concordato semplificato e in quello liquidatorio; anche in questo caso, quindi, deve ritenersi che la fattibilità del piano vada intesa come non manifesta inadeguatezza dello stesso rispetto al raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Discorso diverso si impone per le ulteriori indagini, che risultano riservate al tribunale soltanto nel concordato semplificato e non invece in quello liquidatorio.
La norma in commento è chiara nel prevedere che in sede di omologa – a prescindere da qualsivoglia opposizione proveniente dal ceto creditorio – è necessario accertare che la proposta non arrechi un pregiudizio ai creditori rispetto all’alternativa liquidatoria e che, comunque, assicuri una specifica utilità a ciascun creditore.
Può affermarsi allora che il D.L. n. 118 del 2021 prima ed oggi il Codice della crisi, nel momento in cui hanno imposto, con il concordato semplificato di cui si tratta, una fortissima riduzione del ruolo del ceto creditorio – privato del potere di voto e costretto a subire offerte da parte del debitore che non prevedono alcuna soglia minima di soddisfacimento –, contestualmente hanno inteso consegnare al tribunale il compito di sostituirsi ai creditori nella valutazione di convenienza – rectius mancanza di pregiudizio – della procedura concordataria rispetto alla liquidazione giudiziale.
Assistiamo, quindi, ad un curioso ritorno all’impostazione della legge del ’42, dove era il giudice che decideva se omologare o meno il concordato, valutando letteralmente – ai sensi del soppresso art. 181, n. 1), L. fall. – «la convenienza economica del concordato per i creditori», apparendo davvero arduo tracciare la differenza tra le due ridette formule legislative, visto che in entrambe l’organo giurisdizionale è chiamato a valutare, in sostanza, se i creditori siano stati trattati in seno alla proposta in modo deteriore rispetto all’alternativa costituita dalla liquidazione giudiziale[14].
5 . L’omologa nel concordato in continuità aziendale
Come anticipato in precedenza, la disciplina del Codice della crisi, su cui il D.Lgs. n. 83 del 2022 ha inciso nella maniera più marcata in sede di recepimento della direttiva Insolvency, è certamente quella dell’omologa del concordato preventivo in continuità aziendale.
In sostanza, l’esigenza di dare esecuzione nel nostro ordinamento agli artt. 9, 10 e 11 della cennata direttiva UE ha spinto il legislatore delegato a disegnare un giudizio di omologa nuovissimo, contrassegnato dalla necessaria unanimità delle classi, regola alla quale è tuttavia consentito derogare in presenza di talune precise condizioni.
Così l’art. 112, comma 1, lett. f), CCII, per l’ipotesi del solo concordato in continuità, stabilisce che il tribunale debba verificare che tutte le classi abbiano votato favorevolmente, in ottemperanza al disposto dell’art. 109, comma 5, CCII.
Inoltre, da un lato, scompare letteralmente il giudizio di fattibilità del piano, sostituito da una valutazione meno rigorosa, ancorata alle «ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza», dall’altro si punta l’attenzione sugli eventuali nuovi finanziamenti ricevuti dall’imprenditore, che devono essere assolutamente necessari per l’attuazione del piano e tali da non pregiudicare gli interessi dei creditori.
Quest’ultimo presupposto trova fondamento direttamente nella direttiva Insolvency, che all’art. 10, par. 2, lett. e) impone di vagliare se «qualsiasi nuovo finanziamento sia necessario per attuare il piano di ristrutturazione e non pregiudichi ingiustamente gli interessi dei creditori».
Ora, può pure convenirsi che nell’impostazione della direttiva UE il vaglio del tribunale sui quadri di ristrutturazione preventiva si palesa meno stringente[15] e, dunque, in sede di recepimento della medesima direttiva, occorreva differenziare il sindacato del tribunale nell’ambito del liquidatorio rispetto al concordato in continuità, abbassando per quest’ultimo l’asticella della severità del pronostico[16].
Ed è sempre vero che nel concordato in continuità non ritroviamo – in nessuna disposizione ad esso specificatamente dedicata – un riferimento espresso al requisito della “fattibilità”[17].
Tuttavia, pare lecito nutrire fondati dubbi sulla concreta configurabilità di differenti valutazioni circa la fattibilità del piano riservate all’organo giudicante nel concordato in continuità, alla luce del decreto legislativo di recepimento del ‘22.
Anzitutto, va segnalato che non è agevole individuare la corretta distinzione da operare, quando si tratta di valutare un piano concordatario che presenti «ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza» (così nel concordato in continuità), rispetto ad un piano concordatario che «non sia manifestamente inadeguato a raggiungere gli obiettivi prefissati» (così nel liquidatorio).
Va soggiunto che, come anticipato sopra, l’art. 47, comma 1, lett. b), CCII, stabilisce che è inammissibile la domanda di accesso al concordato con continuità aziendale «se il piano è manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali».
E a questo punto davvero appare arduo capire come impostare il giudizio del tribunale su un piano concordatario in continuità aziendale, in termini dissimili rispetto al concordato liquidatorio, visto che in entrambi i tipi di procedura – sia pure in fasi diverse, vale a dire in quella di ammissione e in quella di omologa – si parla di “manifesta inidoneità”, riferita nell’un caso “alla soddisfazione dei creditori” e nell’altro “agli obiettivi prefissati”.
Gli obiettivi prefissati nel concordato con continuità, del resto, si colgono abbastanza facilmente dalla lettura del combinato disposto degli artt. 47 e 87 CCII, laddove è prescritto che il piano deve essere non manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori e alla conservazione dei valori aziendali,  mentre il professionista indipendente deve attestare che il piano in continuità sia idoneo ad impedire o superare l’insolvenza del debitore, a garantire la sostenibilità economica dell’impresa e a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale.
E tutto ciò senza considerare la clausola generale dell’art. 7, comma 2, CCII, sopra ricordata, che, in relazione a qualsivoglia tipo di soluzione concordataria (sia liquidatoria che in continuità), impone al giudice di valutare sempre la non manifesta inadeguatezza del piano rispetto agli obiettivi prefissati[18].
La conclusione, ineluttabile, è che ancora una volta, pure al di là delle intenzioni del legislatore codicistico, bisognerà prendere atto che anche nel concordato in continuità aziendale – come nel liquidatorio – al tribunale è sempre riservato, sia in fase di ammissione che di omologa, un sindacato circa la “fattibilità” del piano concordatario, in termini di controllo circa la non manifesta inidoneità al raggiungimento degli obiettivi prefissati; in perfetta corrispondenza, del resto, con la formula adottata dalla più recente giurisprudenza di legittimità[19].
6 . (Segue). La ristrutturazione trasversale
Mentre nel concordato liquidatorio per l’approvazione della proposta è necessaria la maggioranza dei creditori ammessi al voto, ovvero delle classi che siano stato formate dal debitore e, in difetto, la proposta si intende bocciata, nel concordato in continuità aziendale, aderendo all’impostazione della direttiva UE del 2019, il legislatore del decreto di recepimento del 2022 ha stabilito che l’omologa può intervenire anche nel caso in cui non sia stato raggiunto il quorum prescritto – id est la totalità delle classi partecipanti al voto –, potendo invocarsi in aiuto anche la sola maggioranza delle classi, purché sussistano una serie di condizioni analiticamente indicate nel comma 2 dell’art. 112 CCII. 
Si tratta della c.d. ristrutturazione trasversale, disciplinata dall’art. 11 della cennata direttiva, che prevede, anzitutto, la richiesta del debitore – ovvero il suo consenso nel caso di proposte concorrenti –, alla quale devono accompagnarsi una serie di requisiti, analiticamente descritti dall’art. 112, comma 2, CCII.
Anzitutto, le lett. a) e b) del comma 2 dell’art. 112 precisano che il “valore di liquidazione” deve essere distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione e si tratta dell’applicazione della regola della c.d. “priorità assoluta”, in forza del quale nessun creditore può ricevere soddisfazione anche solo parziale, se non è stato integralmente soddisfatto il creditore di grado superiore. Il valore “eccedente quello di liquidazione”, invece, può essere distribuito in modo tale che i crediti inclusi nelle classi dissenzienti ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore: si tratta della regola della c.d. “priorità relativa”, in forza della quale è sufficiente un trattamento migliore rispetto al privilegiato di grado inferiore, perché si possano ritenere rispettate le cause legittime di prelazione.
In ogni caso, la norma in commento ricorda che va rispettato il disposto dell’art. 84, comma 7, CCII, a tenore del quale i lavoratori subordinati – in applicazione della clausola c.d. di non regresso – devono essere soddisfatti secondo la regola della priorità assoluta, sia sul valore di liquidazione sia su quello eccedente la liquidazione.
E si tratta della trasposizione del dettato dell’art. 11, comma 1, lett. d) della direttiva, che espressamente prevede che il piano deve assicurare che «le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori».
Soggiunge la norma in commento (lett. c) che nessun creditore deve ricevere più dell’importo del proprio credito, e, ancora una volta, assistiamo alla pedissequa trasposizione della direttiva (art. 11, comma 1, lett. d), che forse, per l’ovvietà di quanto disposto, non meritava una espressa menzione nel Codice.
Quanto alla maggioranza necessaria per l’approvazione della ristrutturazione trasversale, con la riforma del 2022 è ora sufficiente quella per classi, purché almeno una delle classi che abbia votato favorevolmente sia stata formata da creditori titolari di diritti di prelazione.
Se non vi sono classi formate da creditori privilegiati, invece, la proposta deve essere approvata da almeno una classe di creditori, per la quale si preveda il soddisfacimento – anche solo parziale – rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione (quindi la regola della priorità assoluta), anche sul valore eccedente quello di liquidazione.
7 . Il giudizio di convenienza
La direttiva UE n. 2019/1023 all’art. 10 impone che «nel caso vi siano creditori dissenzienti, il piano di ristrutturazione superi la verifica del migliore soddisfacimento dei creditori». 
Tuttavia, la verifica del miglior soddisfacimento, nelle intenzioni del legislatore comunitario è sempre subordinata ad una contestazione «per tale motivo» proveniente dal creditore dissenziente.
Dunque, secondo la direttiva comunitaria in parola è possibile procedere da parte del tribunale al c.d. cram down, solo alla condizione che vi sia un creditore dissenziente e che quest’ultimo abbia formulato opposizione in sede di omologa davanti al collegio.
L’art. 112, comma 5, CCII nel testo da ultimo riformato stabilisce, allora, che nel concordato che prevede la liquidazione del patrimonio oppure l’attribuzione delle attività a un assuntore o in qualsiasi altra forma, in presenza di classi, quando un creditore dissenziente, che sia appartenente a una classe dissenziente, contesta la convenienza della proposta[20], il tribunale può omologare il concordato a condizione di ritenere che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato «in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale».
Se, invece, il concordato non prevede la formazione di classi, perché possa trovare ingresso il giudizio di convenienza, è necessario che la contestazione sia sollevata da creditori dissenzienti che rappresentino almeno il 20 per cento dei crediti ammessi al voto. 
A sua volta nel concordato in continuità aziendale, in cui, come visto in precedenza, la formazione delle classi è obbligatoria, è sufficiente che un creditore dissenziente eccepisca il difetto di convenienza della proposta; a differenza che nel concordato liquidatorio con classi, in questa ipotesi, non è prescritto espressamente che il creditore dissenziente faccia parte di una classe che abbia votato contro l’approvazione del concordato e ciò in quanto la direttiva Insolvency parla genericamente di «creditori dissenzienti», senza precisare se gli stessi debbano o meno fare parte di una classe dissenziente.
Soltanto nel caso in cui il creditore opponente abbia contestato la convenienza della proposta, come pure in tutte le ipotesi in cui sia messa in dubbio l’esistenza di una delle condizioni prescritte per la ristrutturazione trasversale, il comma 4 dell’art. 112 CCII consente al tribunale di disporre «la stima del complesso aziendale del debitore».
La norma, assai singolare, trova il suo addentellato nell’art. 14 della direttiva UE del 2019, che sembra imporre all’autorità giudiziaria una «valutazione dell'impresa del debitore» soltanto qualora il piano di ristrutturazione sia contestato dall’opponente per mancanza di convenienza, ovvero per carenza dei presupposti della ristrutturazione trasversale.
In sostanza, alla luce del dettato normativo, al tribunale è ex lege sottratto il potere istruttorio di disporre una consulenza d’ufficio tesa ad una valutazione del valore dell’azienda, se non in presenza di una opposizione da parte dei creditori dissenzienti; e può dubitarsi della ragionevolezza di una siffatta disposizione, che in definitiva preclude al giudice in maniera rigida la possibilità di indagini, che normalmente il codice di rito accorda sempre all’organo giudicante, quando è necessario ricorrere a cognizioni che richiedono una competenza tecnica (art. 61 c.p.c.).
8 . (Segue). Il cram down fiscale
L’originaria disciplina del c.d. cram down fiscale era contenuta nell’art. 48, comma 5, CCII, dedicato interamente al giudizio di omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Con la riforma introdotta dal decreto legislativo di recepimento del 2022, l’art. 48 CCII disciplina oggi solo il “procedimento” di omologazione del concordato preventivo, mentre il giudizio di omologazione, come visto in precedenza, è stato interamente collocato nell’art. 112 CCII; sicché, anche il meccanismo che prevede l’intervento del tribunale quando l’amministrazione finanziaria, ovvero gli enti gestori delle forme di previdenza obbligatorie non abbiano aderito al concordato è stato disciplinato altrove.
In particolare, l’art. 88 CCII, destinato alla disciplina del trattamento dei crediti fiscali e contributivi, prevede oggi un novello comma 2 bis, a tenore del quale il tribunale omologa il concordato preventivo «anche in mancanza di adesione»[21] da parte dell'amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie, quando la detta adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all'articolo 109, comma 1, CCII, id est della maggioranza dei crediti ammessi al voto.
Perché il tribunale possa procedere all’omologa, dunque, è necessario che il non voto, ovvero il voto contrario, delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali sia risultato tale da sovvertire l’esito finale della votazione.
In questo caso e, quindi, solo a condizione della decisività del voto delle amministrazioni, tenendo conto delle risultanze della relazione del professionista indipendente, il tribunale deve valutare se la proposta di soddisfacimento delle amministrazioni sia «conveniente o non deteriore rispetto all'alternativa liquidatoria».
E infatti il comma 3 dell’art. 88 CCII stabilisce espressamente che l'attestazione del professionista indipendente, relativamente ai crediti tributari e contributivi, «ha ad oggetto anche la convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale e, nel concordato in continuità aziendale, la sussistenza di un trattamento non deteriore».
Dunque, non sembra il caso di coltivare soverchi dubbi sulla circostanza che anche nel concordato liquidatorio il tribunale possa attivare – come nella pregressa disciplina – il giudizio di convenienza coattivo, superando anche il voto dichiaratamente contrario espresso dall’amministrazione.
Il discorso si complica – e di molto – per il concordato in continuità, atteso che il D.Lgs. n. 83 del 2022 ha seccamente disposto nel primo comma dell’art. 88 CCII «fermo restando quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dall’articolo 112, comma 2».
Il tenore della norma, infatti, potrebbe indurre a ritenere che il cram down fiscale non abbia più spazio di applicazione nell’ambito del concordato con continuità aziendale, dovendo trovare applicazione le regole della ristrutturazione trasversale imposte dall’art. 11 della direttiva UE del 2019, che stabiliscono la possibilità, in caso di mancanza di unanimità delle classi, di procedere all’omologa in presenza di talune condizioni disciplinate appunto nell’art. 112, comma 2, CCII e di cui si è detto in precedenza.
Ancora, il comma 2 bis dell’art. 88 CCII, nel descrivere i requisiti perché possa procedersi al cram down fiscale, parla dell’adesione determinante dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria  «ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all’articolo 109, comma 1»; e in quest’ultima disposizione si parla solo delle maggioranze prescritte nel concordato liquidatorio e non in quello in continuità, che sono invece disciplinate nel comma 5 del medesimo art. 109 CCII.
Del resto, alla conclusione che il giudizio di convenienza coatto resti escluso nel concordato con continuità aziendale perviene anche la relazione illustrativa al decreto legislativo di recepimento che, per rispondere ai rilievi formulati in sede di prescritto parere consultivo sullo schema di decreto, sia dal Consiglio di Stato che dalla Commissione giustizia della Camera[22], afferma testualmente che «Il possibile contrasto sottolineato non sussiste in quanto l’incipit del comma 1 dell’articolo 88 chiarisce che la norma in questione contiene disposizioni applicabili ai concordati diversi da quello in continuità aziendale, per il quale valgono le regole di voto e, di omologazione che possono sfociare nella ristrutturazione trasversale e nel giudizio di convenienza su domanda del creditore».
In realtà, nonostante il parere autorevole della relazione illustrativa, è lecito affermare che l’art. 88, comma 2 bis, CCII troverà applicazione anche nel concordato con continuità aziendale[23].
È vero che il ricordato incipit della cennata norma sembra indurre a ritenere esclusa l’applicazione dell’intera disciplina sul trattamento dei crediti fiscali e contributivi; tuttavia, appaiono scarsamente comprensibili le ragioni che suggeriscono una differenziazione tra concordato liquidatorio e in continuità aziendale – e perdipiù in peius per quest’ultimo – soltanto in relazione al trattamento dei crediti fiscali o previdenziali.
In sostanza, se il legislatore – già con la novella dell’art. 180, comma quarto, L. fall. introdotta sul finire del 2020[24] – ha inteso attribuire al tribunale, in ogni tipo di concordato, il potere di formulare un giudizio di convenienza forzato, pure in «mancanza di adesione» al concordato da parte di talune pubbliche amministrazioni, non è comprensibile ai più perché nel 2022, il medesimo legislatore abbia inteso escludere l’esercizio di siffatto potere nel solo concordato con continuità.
Inoltre, è difficile sostenere che l’art. 88 CCII – nella sua interezza, compreso quindi il comma 2 bis – non si applichi al concordato con continuità, atteso che il suo comma 2 stabilisce espressamente, con riferimento al contenuto necessario dell’attestazione del professionista indipendente sui crediti tributari e contributi, che «nel concordato con continuità aziendale» essa attestazione ha per oggetto «la sussistenza di un trattamento non deteriore» e a sua volta, proprio il cennato comma 2 bis, si incarica di precisare che il giudizio del tribunale sul trattamento dei crediti tributari e previdenziali rispetto all’alternativa liquidatoria deve valutare se esso «è conveniente» (per il concordato liquidatorio), oppure «non deteriore», utilizzando esattamente la stessa formula utilizzata dal Codice con riguardo al concordato con continuità aziendale[25]. 
Né appare decisivo il rinvio che il comma 2 bis dell’art. 88 CCII fa alle maggioranze previste nel solo comma 1 dell’art. 109 CCII per il concordato liquidatorio, avuto riguardo alla sicura circostanza che in seno alla detta disposizione, comunque, si fa espresso richiamo «a quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dal comma 5», le cui maggioranze quindi, sia pure per relationem, devono ritenersi menzionate anche nel comma in parola.
Forse la soluzione dell’intricato problema passa per il riconoscimento che la direttiva UE del 2019 non è incompatibile con il cram down fiscale perché, – a differenza di quanto ritenuto nei pareri resi dai cennati organi consultivi – essa osta ad un giudizio di convenienza svolto d’ufficio dal tribunale pure in assenza di opposizioni formulate dai creditori, ma certamente non si occupa di regolamentare la potestà – riconosciuta dal legislatore interno all’autorità giudiziaria italiana per la prima volta nel 2020 – di superare o meno l’inerzia o il voto contrario manifestato da uno o più creditori pubblici, in presenza di talune precise condizioni. 
9 . L’omologa nel concordato minore
La disciplina del concordato minore, previsto per gli imprenditori c.d. “sottosoglia” e per i professionisti di cui all’art. 2, comma 1, lett. c), CCII, è contenuta nella sezione III del capo II del titolo IV del Codice della crisi.
In relazione al giudizio di omologa del detto concordato, per quanto non previsto espressamente dalla sezione, l’art. 74, comma 4, CCII rinvia senz’altro alle disposizioni del capo III del titolo IV dedicate alla disciplina del concordato preventivo liquidatorio e in continuità aziendale.
Va subito osservato come, ancorché il concordato minore rispecchi l’ormai bipartizione classica tra concordato in continuità (art. 74, comma 1, CCII) e concordato liquidatorio (art. 74, comma 2, CCII), l’art. 80 CCII, espressamente dedicato al giudizio di omologa, non ponga apparentemente differenze di sorta tra le due forme di regolazione della crisi.
Stabilisce, infatti, il comma 1 dell’art. 80 CCII che nella fase di omologa il giudice (che qui è monocratico) debba anzitutto verificare la «ammissibilità giuridica e la fattibilità del piano»; scompare nella versione definitiva, per effetto della cennata rimozione disposta dal D.Lgs. n. 83 del 2022, il riferimento alla fattibilità “economica” e, quindi, deve ritenersi che – al pari degli altri concordati non minori – qui il sindacato del tribunale si arresti alla «non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati».
Naturalmente si può affermare che anche nell’omologa del minore occorra accertare d’ufficio, pure in mancanza di opposizioni di sorta, «la regolarità della procedura», come previsto in linea generale dall’art. 112, comma 1, CCII.
Nell’assoluto silenzio serbato dal legislatore sul punto, poi, spetta certamente al tribunale verificare, sempre d’ufficio, il raggiungimento delle maggioranze prescritte per l’approvazione del concordato, la regolarità delle classi che siano state formate e la corretta instaurazione del contraddittorio tra il debitore e gli eventuali creditori dissenzienti.
Giunti a questo punto, se non vi sono opposizioni dei creditori, il tribunale può procedere senz’altro all’omologazione del concordato con sentenza.
Se, invece, uno dei creditori – di norma dissenziente, ma non necessariamente, visto che manca nella norma una espressa limitazione a siffatta categoria[26] – o qualunque altro interessato formula opposizione, contestando la convenienza del concordato, si apre la fase del giudizio di cram down, in cui il tribunale deve valutare se omologare ugualmente la proposta di regolazione della crisi, quando ritenga «che il credito dell’opponente possa essere soddisfatto dall'esecuzione del piano in misura non inferiore all'alternativa liquidatoria». 
Ancora, in continuità con la disciplina già introdotta in tema di accordo di composizione della crisi dall’art. 12, comma 3 quater, dell’abrogata legge 27 gennaio 2012, n. 3 sul sovraindebitamento[27], è prevista espressamente la possibilità per il tribunale di ricorrere al cram down fiscale, in mancanza di adesione alla proposta concordataria da parte dell’amministrazione finanziaria e degli enti gestori di forme di previdenza obbligatorie[28], quando la stessa è comunque conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.
In tutti i casi di opposizione all’omologa è stabilito che sia acquisito il parere dell’organismo di composizione della crisi (OCC) che assiste il debitore nel procedimento; e tuttavia, nel concordato in continuità aziendale, quando è previsto che l’omologa debba essere pronunciata «ai sensi dell’articolo 112, comma 2», secondo l’art. 78, comma 2 bis, lett. b), CCII, come introdotto dal D.Lgs. n. 83 del 2022 in sede di recepimento della direttiva Insolvency[29], è sempre necessaria la nomina del commissario giudiziale in sostituzione dell’OCC, sicché è chiaro che in questo caso il parere sarà reso dal commissario, come del resto in tutti gli altri concordati in cui in sede di ammissione sia stato comunque nominato il commissario giudiziale per svolgere le funzioni dell’OCC[30].
Va ricordato che la già citata disposizione si riferisce al solo concordato in continuità aziendale e sempre che si debba procedere alla ristrutturazione trasversale in mancanza dell’unanimità delle classi. Tuttavia, poiché pare arduo immaginare come sia possibile ipotizzare, già al momento dell’apertura della procedura, che un concordato in continuità verrà approvato dall’unanimità delle classi piuttosto che dalla sua maggioranza, deve ritenersi che la nomina del commissario – al momento dell’apertura della procedura sia sempre necessaria –, ogni volta che il debitore abbia proposto una tale soluzione della crisi.
È chiaro, inoltre, che se il concordato in continuità risulta approvato da tutte le classi, senz’altro si seguirà il procedimento semplificato descritto dal comma 1 dell’art. 80 CCII, senza neppure necessità di acquisire il parere del nominato commissario giudiziale, mentre in tutti i casi in cui risulta almeno una classe di creditori dissenziente, si procederà ai sensi del richiamato art. 112, comma 2, CCII, applicando le regole già esaminate nei paragrafi precedenti sulla ristrutturazione trasversale, restando sul punto necessariamente superato l’art. 79, comma 1, CCII che consente sempre l’omologa del concordato per classi, purché abbia votato a favore la maggioranza delle stesse.
È interessante ricordare, infine, che nel solo concordato minore l’opposizione per ragioni di convenienza avanzata da un creditore, anche se si tratta di uno fra quelli dissenzienti, ai sensi dell’art. 80, comma 4, CCII, è inammissibile quando il medesimo abbia colpevolmente determinato, oppure anche solo aggravato, la situazione di indebitamento del proponente, secondo la formula introdotta dal D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147 (il c.d. primo decreto correttivo).
In sostanza, il testo attualmente vigente ha eliminato l’inammissibilità dell’opposizione generalizzata, prevista dal testo originario del D.Lgs. n. 14 del 2019 a carico del creditore “colpevole”, il quale si vedeva privato della possibilità di proporre opposizione anche per fare valere vizi che riguardassero la mera ammissibilità giuridica della proposta[31].
10 . Conclusioni
L’analisi puntuale della complessiva disciplina del giudizio di omologa nel concordato preventivo consente di addivenire alla sicura conclusione che il testo del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, come rimaneggiato dal D.Lgs. n. 147 del 2020 e, soprattutto, dal D.Lgs. n. 83 del 2022, pure destando nell’interprete l’immediata sensazione di una certa volontà del codificatore di differenziare il vaglio riservato del tribunale, a seconda del tipo di concordato – liquidatorio ovvero in continuità – selezionato dal debitore, non pare avere raggiunto un siffatto obbiettivo.
Invero, una lettura attenta del combinato disposto degli artt. 47 e 112 CCII, dedicati rispettivamente alla fase di ammissione e a quella di omologa del concordato preventivo, consente di addivenire alla conclusione che sia nel liquidatorio che in quello in continuità restano fermi i poteri del tribunale di verifica circa l’ammissibilità della proposta, intesa come non incompatibilità della stessa con le disposizioni di legge inderogabili (quella che gli interpreti della vecchia legge fallimentare chiamavano la c.d. “fattibilità giuridica”), come pure in ordine alla fattibilità del piano concordatario, inteso come non manifesta inattitudine del medesimo a raggiungere gli obiettivi prefissati (la ben nota c.d. “fattibilità economica”).
Il risultato è che, al di là di certe differenze marginali che si riscontrano nelle nuove norme, devono ritenersi ancora attuali gli insegnamenti più recenti della S.C., in ordine ai limiti del sindacato del tribunale sia in sede di ammissione che di omologa del concordato, quale che esso sia, liquidatorio, con assuntoria oppure in continuità aziendale.
Siffatta conclusione, all’evidenza, va confermata anche nel giudizio di omologa del concordato minore, quello riservato alle imprese sottosoglia e ai professionisti, dove nulla sembra giustificare un diverso approccio ermeneutico in ordine ai poteri effettivamente riconosciuti all’organo chiamato a decidere sulla domanda di omologa.
Discorso diverso, di necessità, si impone per il nuovo concordato semplificato, previsto dall’art. 25 sexies CCII; qui il legislatore ha previsto controlli penetranti in capo al tribunale, che non hanno eguali nelle altre forme concordatarie, spingendosi fino a riconoscere in capo al collegio il potere di esprimere un giudizio di convenienza per i creditori, sostanzialmente giustificato dalla sottrazione del voto al ceto creditorio e dall’assenza di soglie minime di soddisfacimento per il medesimo.
Rimane fermo, tuttavia, che anche nel concordato semplificato il tribunale – almeno al momento dell’omologa, se si vuole esclude la configurabilità di una fase dedicata all’ammissione della domanda[32] – dovrà valutare l’ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità del piano di liquidazione, utilizzando i medesimi parametri previsti in linea generale dall’art. 112 CCII per il concordato preventivo.

Note:

[1] 
Si tratta del testo pubblicato nella G.U. n. 38 del 14 febbraio 2019, mai entrato in vigore – se non con riguardo ad alcune modifiche del codice civile – a seguito dei ripetuti rinvii disposti dalla decretazione d’urgenza, e destinato ad essere rimaneggiato prima dal D.Lgs. 20 ottobre 2020, n. 147 (il c.d. primo correttivo) e poi dal D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83 (il c.d. decreto di recepimento della direttiva UE n. 2019/1023).
[2] 
Come novellato prima dal D.L. 15 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla legge 15 maggio 2005, n. 80 e poi dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (il c.d. correttivo).
[3] 
Mentre il primo comma dell’art. 112 CCII era dedicato al giudizio di omologa, il secondo comma si occupava della tradizionale disciplina delle somme spettanti ai creditori contestati condizionali o irreperibili, già contenuta nell’art. 180, sesto comma, L. fall.
[4] 
Ai sensi dell’art. 48, comma 1, CCII il decreto con il quale il tribunale fissa l’udienza camerale per l’omologa deve essere notificato, a cura del proponente, «agli eventuali creditori che hanno manifestato il loro dissenso».
[5] 
A partire da Cass., Sez. 1, 6 novembre 2013, n. 24970, in Giur. comm., 2015, II, p. 53, con nota di G. Ciervo, Ancora sul giudizio di fattibilità del piano di concordato preventivo. Detta pronuncia teorizza espressamente che il sindacato del giudice sulla fattibilità, intesa come prognosi di concreta realizzabilità del piano concordatario, quale presupposto di ammissibilità, consiste nella verifica diretta del presupposto stesso, sia sotto il profilo della “fattibilità giuridica”, intesa come non incompatibilità del piano con norme inderogabili, sia sotto il profilo della “fattibilità economica”, intesa come realizzabilità nei fatti del piano medesimo.
[6] 
Cass., Sez. 1, 30 gennaio 2017, n. 2234.
[7] 
Tra le tante, Cass., Sez. 1, 15 giugno 2020, n. 11522.
[8] 
Vedi Cass., Sez. 1, 17 maggio 2021, n. 13224, con riferimento al vecchio art. 160, comma quarto, L. fall.
[9] 
In effetti il testo originario dell’art. 84, comma 3, CCII, stabiliva che nel concordato in continuità aziendale i creditori dovessero essere soddisfatti «in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale»; e ciò in precisa ottemperanza alla direttiva contenuta nell’art. 6, comma 1, lett. l, n. 2), della legge delega n. 155 del 2017, che imponeva l’ammissibilità del concordato in continuità aziendale solo quando fosse stato possibile pronosticare che «i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale». Inopinatamente il D.Lgs. n. 83 del 2022, di recepimento della direttiva Insolvency, ha novellato la norma in questione consentendo, in plateale violazione della direttiva contenuta nella legge delega, la continuità aziendale anche nei casi di ricavato “non prevalente”.
[10] 
L’art. 85, comma 3, CCII precisa che i creditori privilegiati falcidiati devono essere sempre suddivisi in classi separate e lo stesso vale per i chirografari, che siano imprese minori titolari di crediti da rapporti di fornitura di beni o servizi.
[11] 
Cass., Sez. 1, 28 aprile 2021, n. 11216; Cass., Sez. 1, 8 febbraio 2019, n. 3863.
[12] 
Sui principi generali del codice della crisi R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in AA.VV., Le crisi d’impresa e del consumatore dopo il d.l. 118/2021. Liber amicorum per Alberto Jorio, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2021, pp. 45 ss. 
[13] 
L’art. 18 del D.L. n. 118 del 2021 risulta espressamente abrogato dall’art. 46, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 83 del 2022.
[14] 
Si vis G. Fichera, Sul nuovo concordato semplificato: ovvero tutto il potere ai giudici, su Dirittodellacrisi.it, 11 novembre 2022.
[15] 
La relazione illustrativa al D.Lgs. n. 83 del 2022, ricorda che nell’ambito del giudizio di ammissibilità del concordato sono stati introdotti «limiti più stringenti rispetto al concordato in continuità aziendale».
[16] 
S. Leuzzi, Appunti sul Concordato Preventivo ridisegnato, su Dirittodellacrisi.it, 5 maggio 2022.
[17] 
S. Ambrosini, Brevi appunti sulla nuova “sintassi” del concordato preventivo, in Ristrutturazioni aziendali.it, 9 giugno 2022.
[18] 
Lo evidenzia pure S. Ambrosini, Brevi appunti sulla nuova “sintassi” del concordato preventivo, cit.
[19] 
Cass. n. 11216 del 2021, cit.
[20] 
Si tratta della stessa formula prevista dall’art. 180, comma quarto, L. fall., che imponeva l’appartenenza del creditore opponente ad una classe dissenziente.
[21] 
Il testo originario dell’art. 180, comma quarto, L. fall., come novellato dall'art. 3 del D.L. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito con modificazioni dalla legge 27 novembre 2020, n. 248, prevedeva il giudizio di convenienza coatto «anche in mancanza di voto»; successivamente l'art. 20 del D.L. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla legge 21 ottobre 2021, n. 147, ha sostituito la detta frase con la frase «anche in mancanza di adesione». Sembra così sopito il dibattito, soprattutto dottrinario, sulla possibilità di attivare il cram down fiscale nel concordato preventivo anche in presenza di un voto contrario espresso dall’amministrazione finanziaria o dagli enti previdenziali. G. D’Attorre, La ristrutturazione “coattiva” dei debiti fiscali e contributivi negli adr e nel concordato preventivo, in Fall., 2021, 2, p. 153.
[22] 
Sia il parere del Consiglio di stato che quello della Camera dei deputati dubitavano del contrasto della norma sul cram down fiscale con le disposizioni della direttiva UE sulla ristrutturazione trasversale, che consentono l’opposizione solo per difetto di convenienza a determinate condizioni, escludendo comunque il sindacato del giudice in assenza di domanda del creditore interessato.
[23] 
Per la tesi dell’applicabilità del cram down fiscale al concordato in continuità si veda, tra i primissimi, G. Andreani, Il cram down fiscale nel concordato, su Dirittodellacrisi.it, 2022.
[24] 
In forza dell'art. 3 del D.L. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito con modificazioni dalla legge 27 novembre 2020, n. 248.
[25] 
L’art. 87, comma 3, CCII stabilisce in linea generale che nel concordato con continuità aziendale il professionista indipendente deve attestare sempre che il piano è atto a riconoscere a ciascun creditore «un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale».
[26] 
L’art. 12, comma 2, della legge 27 gennaio 2012, n. 3, invece, con riguardo all’omologa dell’accordo di composizione della crisi, stabiliva chiaramente che «Quando uno dei creditori che non ha aderito o che risulta escluso o qualunque altro interessato contesta la convenienza dell'accordo».
[27] 
Come novellato dall’art. 4 ter del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.
[28] 
Considerato che l’art. 79, comma 3, CCII stabilisce che in mancanza di comunicazione all’OCC nel termine assegnato, si intende che i creditori abbiano prestato consenso alla proposta, deve ritenersi che solo il dissenso manifestato espressamente dalle amministrazioni, giustificherà il ricorso al giudizio di convenienza coatto.
[29] 
La relazione illustrativa al D.Lgs. n. 83 del 2022 chiarisce che la nomina del commissario giudiziale in luogo dell’OCC, si è imposta per dare attuazione all’art. 5, par. 3, lett. b), della direttiva n. 2019/1023 che prescrive sempre la nomina del professionista nel campo della ristrutturazione da parte dell’autorità giudiziaria o amministrativa «quando il piano di ristrutturazione deve essere omologato dall'autorità giudiziaria o amministrativa mediante ristrutturazione trasversale dei debiti conformemente all'articolo 11».
[30] 
Il comma 2 bis dell’art. 78 CCII, come introdotto dal D.Lgs. n. 83 del 2022, ha previsto la facoltà di nominare il commissario giudiziale in sede di apertura del concordato minore, anche quando sia stata disposta la sospensione generalizzata delle azioni esecutive e quando la nomina è richiesta dal medesimo debitore.
[31] 
Il testo dell’art. 12, comma 3 ter della legge n. 3 del 2012, in tema di accordo di composizione della crisi, invece, stabiliva seccamente che il creditore “colpevole” non potesse presentare opposizione in sede di omologa, «né far valere cause di inammissibilità che non derivino da comportamenti dolosi del debitore».
[32] 
Per la necessità di un vaglio iniziale di ammissibilità anche nel concordato semplificato, si vis G. Fichera, Sul nuovo concordato semplificato: ovvero tutto il potere ai giudici, su Dirittodellacrisi.it cit.

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Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

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