La necessità di recepire nel nostro ordinamento la direttiva UE n. 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, sui quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione (la c.d. direttiva Insolvency), ha giustificato un intervento particolarmente sostenuto sul giudizio di omologazione, risultando l’art. 112 CCII completamente stravolto a seguito del D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, con il quale il legislatore delegato si è appunto assunto l’onere di recepimento della detta direttiva.
Da un primo approssimativo sguardo alla norma in commento emerge subito la crescita esponenziale delle regole dedicate appunto al “giudizio di omologazione”; invero, dagli originari due commi di cui si componeva il testo dell’art. 112 CCII[3], si è passati a ben sei, tutti dedicati ad una minuziosa e direi a tratti davvero ridondante elencazione delle verifiche spettanti al tribunale al fine di addivenire alla formulazione del detto giudizio, mentre ogni riferimento ai poteri del decidente è stato espunto dal testo dell’art. 48 CCII, oggi rimasto a dettare soltanto le regole del relativo procedimento.
La vera novità del decreto di recepimento è costituita dalla scissione netta tra la disciplina dell’omologa del concordato liquidatorio e quella del concordato in continuità aziendale, i quali oggi sembrano assoggettati a controlli, sia in fase di ammissione che di omologa, in buona misura diversificati.
In realtà, il comma 1 dell’art. 112 CCII detta una serie di condizioni comuni a tutte le procedure di regolazione della crisi, che il tribunale deve sempre verificare per procedere alla omologa della proposta di concordato preventivo.
Stabilisce infatti la norma in esame che il collegio è, in ogni caso, chiamato ad accertare: a) la regolarità della procedura; b) l'esito della votazione; c) l'ammissibilità della proposta; d) la corretta formazione delle classi; e) la parità di trattamento dei creditori all’interno di ciascuna classe.
Si tratta di presupposti all’evidenza estensibili a tutti i tipi di concordato, che francamente non sembra neppure necessitassero di una espressa loro codificazione, non potendosi dubitare – anche nel testo originario dell’art. 48 CCII, come pubblicato nella stesura risalente al 2019 – che fosse compito del tribunale, pure in difetto di opposizioni di sorta, accertare il rispetto di talune disposizioni procedimentali del giudizio omologa e, tra queste, in primo luogo di verificare l’effettività di quel contraddittorio che la legge vuole si instauri tra il proponente e i creditori dissenzienti[4].
Quanto all’esito della votazione, nessuno dubita che quando il commissario giudiziale redige la relazione ex art. 110 CCII, nel seno della quale assume che siano state raggiunte le maggioranze prescritte, il tribunale, investito del successivo giudizio di omologa, comunque, sarà chiamato a verificare d’ufficio l’esattezza dei calcoli operati dall’ausiliario, risolvendo le eventuali contestazioni sollevate dal debitore circa l’esito delle operazioni di voto.
Più articolato appare il discorso con riferimento al prescritto requisito della “ammissibilità” della proposta.
Invero, mentre la legge fallimentare del ’42, per stabilire se una proposta concordataria fosse ammissibile o meno, demandava al tribunale genericamente una verifica circa l’esistenza dei «presupposti di cui agli articoli 160, commi primo e secondo, e 161», oggi l’art. 47, comma 1, CCII, nel testo novellato dal D.Lgs. n. 83 del 2022, stabilisce espressamente che la “ammissibilità” della proposta di concordato è valutata, al momento dell’apertura della procedura, esclusivamente con riguardo al concordato liquidatorio (lett. a), mentre per il concordato in continuità la medesima disposizione (lett. b) discorre di mera «ritualità della proposta», soggiungendo peraltro – in maniera apparentemente contraddittoria – che la domanda di concordato è comunque inammissibile «se il piano è manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali», formula questa che all’evidenza evoca il concetto della c.d. “fattibilità economica”, di origine esclusivamente giurisprudenziale[5] e di cui si dirà in prosieguo.
Tuttavia, occorre tenere conto che l’art. 112, comma 1, lett. c), CCII nel disciplinare appunto il giudizio di omologazione ribadisce che il tribunale, per qualunque tipo di concordato, deve sempre verificare «l’ammissibilità della proposta».
Non sembra allora che possano residuare dubbi sull’identità del controllo affidato all’organo giurisdizionale nelle due fasi (quella iniziale e quella di omologa), tenuto conto del consolidato orientamento della S.C. a tenore del quale, nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, il controllo della regolarità della procedura impone al tribunale la verifica della persistenza, sino a quel momento, delle stesse condizioni di ammissibilità già scrutinate nella fase iniziale[6].
La verità è che, al di là della disputa nominalistica, sia per il concordato liquidatorio che per quello in continuità, alla luce del dettato del Codice, resta ferma la necessità di un giudizio circa l’ammissibilità della proposta, principalmente agganciato a quella che la giurisprudenza di legittimità ha sempre inquadrato come la c.d. “fattibilità giuridica”, cioè la non incompatibilità del piano con norme inderogabili[7]; si pensi al controllo – imposto oggi per i soli concordati liquidatori dall’art. 84, comma 4, CCII – in ordine al pagamento della soglia minima di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari[8], nonché all’effettivo apporto di risorse esterne, oppure al controllo nel concordato con continuità aziendale sulla soddisfazione dei creditori, anche in misura non prevalente[9], con il ricavato dell’attività in continuità (art. 84, comma 3, CCII).
Dunque, in entrambi i tipi di procedura l’inammissibilità della proposta potrà essere dichiarata, oltre naturalmente che nell’ipotesi tipica della scoperta di atti di frode ex art. 106 CCII, quando la stessa non sia “giuridicamente fattibile”, risulti cioè contraria, nel suo contenuto, ad una qualsivoglia norma di legge che imponga un preciso perimetro alle scelte del debitore.
Quanto al controllo sulla formazione delle classi, è noto che esse devono essere costituite, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. o), CCII, tra i creditori «che hanno posizione giuridica e interessi economici omogenei»; sarà allora compito del tribunale – d’ufficio anche in difetto di opposizione da parte dei creditori – accertare che, al momento della formazione di ciascuna delle classi, il proponente abbia inteso rispettare il criterio generale sopra descritto.
Va soggiunto che, per effetto del disposto dell’art. 85, comma 2, CCII, le classi vanno sempre formate quando si tratti di: i) crediti tributari o previdenziali falcidiati; ii) creditori titolari di garanzie prestate da terzi; iii) crediti anche in parte soddisfatti non con denaro; iv) creditori che propongano il concordato e parti ad esse correlate.
In ogni caso, poi, in forza dell’art. 85, comma 3, CCII, nel concordato in continuità aziendale, la formazione delle classi è divenuta oggi obbligatoria[10], sicché, non restando margini di manovra al debitore, il tribunale dovrà sempre verificare la corretta formazione delle medesime all’interno della proposta concordataria.
Infine, com’è noto, da un lato, deve essere assicurata la parità di trattamento tra i creditori all’interno della medesima classe e, dall’altro, il trattamento stabilito per ciascuna classe – salva la deroga prevista per il concordato in continuità dall’art. 87 CCII – non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause di prelazione; e pure queste risultano indagini affidate ex officio al tribunale.