Il semplificato è un concordato preventivo, almeno in thesi, esclusivamente liquidatorio; la formula della rubrica dell’art. 18 non lascia apparentemente margini di dubbio[2], mentre il primo comma del ridetto art. 18 chiarisce ulteriormente che l’imprenditore può avanzare «una proposta di concordato per cessione dei beni»: dunque, dopo ottant’anni ecco tornare in auge la vecchia formula dell’originario art. 160, comma secondo, n. 2), l.fall. – abbandonata con la novella del 2005 – incentrata sulla proposta di concordato che prevede la «cessione di tutti i beni esistenti nel suo patrimonio».
Sembrerebbe esclusa, quindi, qualsiasi forma diversa di regolazione della crisi e, soprattutto, parrebbe sottratta all’imprenditore la possibilità di proporre un piano in continuità aziendale, ex art. 186-bis l.fall.
Così non è, invece, almeno per il concordato con continuità c.d. indiretta, secondo la ricostruzione accolta dalla giurisprudenza della S.C.[3], perché esso risulta di fatto espressamente ammesso dall’art. 19 del decreto, ove si prevede che il piano possa comprendere l’offerta di un compratore – con efficacia immediata, prima ancora dell’omologa – riferita all’intera azienda o ad uno o più dei suoi rami.
Il semplificato non è poi una diversa tipologia del concordato preventivo disciplinato dalla vigente legge fallimentare[4]; a prescindere dalla circostanza che la norma in commento omette accuratamente di definire il nostro concordato come “preventivo”[5], va evidenziato che solo talune tra le disposizioni della legge fallimentare, espressamente richiamate dal decreto, si applicano al nuovo istituto[6].
E infatti, mentre il comma 2 dell’art. 18 rinvia senz’altro ai soli artt. 111, 167, 168 e 169 l.fall., il successivo comma 8 richiama – e, peraltro pure con la clausola di compatibilità – gli artt. 173, 184, 185, 186, 271-bis e 236 l.fall.; il che significa, a contrario, che tutte le restanti norme dedicate alla disciplina del vecchio concordato non potranno essere invocate in via generale anche per regolare il nuovo, salva ovviamente la necessità di una applicazione analogica della legge del ’42, laddove si riscontri un vuoto nella novella normativa non colmabile se non facendo ricorso appunto alla analogia legis.
Come anticipato sopra, sotto il profilo soggettivo la nuova procedura – a differenza del concordato tradizionale, riservato all’imprenditore commerciale fallibile, cioè munito delle soglie rilevanti ex art. 1, comma secondo, l.fall. – risulta estesa a qualsiasi attività d’impresa, sia essa commerciale che agricola, pure se c.d. “sottosoglia” e, dunque, di regola sottratta alle procedure concorsuali.
Questa scelta del legislatore del ’21 appare particolarmente apprezzabile, in quanto sembra finalmente protesa al superamento di quella discriminazione – davvero anacronistica – tra imprenditore commerciale ed agricolo, che la legge delega sulla riforma delle procedure concorsuali si riprometteva di superare[7], e che, invece, inopinatamente il Codice della crisi ha continuato a preservare. Naturalmente, nella logica del superamento di qualsiasi distinzione nel trattamento dell’imprenditore agricolo rispetto a quello commerciale, sarebbe necessario prevedere, con una opportuna novella della vigente legge concorsuale (o di quella che, alfine, verrà l’anno prossimo), che anche l’agricolo sia finalmente assoggettabile al fallimento o alla liquidazione giudiziale, con le conseguenti significative responsabilità anche sul piano penale.
Appare infatti fortemente distonico che l’imprenditore agricolo possa ancora oggi godere del beneficio del concordato semplificato, ma non soggiacere ad una procedura concorsuale, se non su base esclusivamente volontaria (attraverso il ricorso all’attuale liquidazione del patrimonio prevista dall’art. 14-ter della legge 27 gennaio 2012, n. 3), ovvero, ma solo nella futura liquidazione controllata di matrice codicistica, anche su istanza dei creditori e del pubblico ministero[8], restando comunque sempre sottratto ai reati di bancarotta sia semplice che fraudolenta[9].
Per quanto concerne invece l’elemento oggettivo richiesto per accedere al concordato semplificato, nulla è detto dall’art. 18 del decreto, mentre il suo art. 2, comma 1, a proposito dei diversi presupposti per l’accesso alla composizione negoziata della crisi, discorre di imprenditore «che si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza».
In mancanza, allora, di diverse disposizioni speciali dettate per l’accesso al concordato, deve ammettersi che il debitore – almeno in linea puramente teorica – potrà proporre il semplificato, al termine del lavoro risultato infruttuoso dell’esperto indipendente, anche qualora persista solo uno stato di probabile crisi o di insolvenza.
In realtà, la sicura circostanza che per avviare il nuovo procedimento sia comunque richiesto l’accertamento – da parte dell’esperto indipendente – in ordine all’impossibilità di individuare «una soluzione idonea al superamento della situazione di cui all’articolo 2, comma 1», induce a ritenere che il debitore presenterà la proposta di concordato, sempre e soltanto quando si trovi in una situazione conclamata di crisi o di insolvenza, nella medesima accezione comunemente accettata dall’attuale art. 160, ultimo comma, l.fall., che com’è noto, a tutti gli effetti, equipara l’una all’altra.
La grande differenza rispetto al concordato preventivo tradizionale, come disciplinato dagli artt. 160 e segg. l.fall., risiede poi nella circostanza che il semplificato può essere utilizzato soltanto dall’imprenditore che abbia in precedenza avviato il procedimento di composizione negoziata per la soluzione dalla crisi, come disciplinato dagli artt. 2 e segg. del decreto.
In particolare, secondo il comma 1 dell’art. 18 del decreto, come novellato in sede di conversione in legge, è necessario che l’esperto indipendente nominato dall’apposita commissione istituita presso la camera di commercio del capoluogo di regione, nella relazione finale che è sempre chiamato a redigere al termine del procedimento teso alla composizione negoziata, dichiari «che le trattative si sono svolte secondo correttezza e buona fede, che non hanno avuto esito positivo e che le soluzioni individuate ai sensi dell’articolo 11, commi 1 e 2, non sono praticabili».
Questa dichiarazione, che in sé contiene sia profili di natura squisitamente valutativa (la correttezza e buona fede serbata dal debitore nel corso delle trattative), sia di mero accertamento (la non praticabilità di alcuna tra le molteplici soluzioni negoziali previste dalla legge e, quindi, in sostanza il fallimento di ogni trattativa intavolata), costituisce un “lasciapassare” indispensabile perché l’imprenditore possa presentare una proposta di concordato con cessione dei beni ai suoi creditori.
Insomma, quando per qualsivoglia ragione difetta la relazione dell’esperto indipendente, ovvero se il suo scritto abbia censurato, sotto il profilo della correttezza e buona fede, la condotta mantenuta dall’imprenditore durante le trattative, la strada del semplificato appare irrimediabilmente preclusa, restando al debitore in stato di crisi, che intenda sottrarsi al fallimento, solo la possibilità di ricorrere al concordato preventivo tradizionale.