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Saggio

Il ruolo del giudice nella ristrutturazione delle imprese in crisi*

Renato Rordorf, Magistrato, Presidente Commissione ministeriale di riforma delle procedure concorsuali

8 Marzo 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Lo scritto riprende i contenuti della relazione svolta dall’A. il 5 luglio 2022 nell’ambito del seminario su “La ristrutturazione nell’ordinamento europeo armonizzato – Osservazioni italo-tedesche”, tenutosi nella Villa Vigoni di Loveno di Menaggio per iniziativa congiunta delle Università di Bergamo e di Heidelberg.
Se nelle procedure concorsuali di carattere strettamente liquidatorio il giudice è chiamato in prevalenza ad esercitare una forma di giurisdizione esecutiva, in cui lo stato mette in campo la propria forza per rendere effettiva la tutela dei diritti, quando si tratta di strumenti giuridici volti invece al superamento della crisi d’impresa mediante la sua ristrutturazione, il ruolo del giudice subisce un significativo mutamento. Si tratta, infatti, di procedure o strumenti nei quali è dominante l’elemento negoziale ed il giudice cessa di esserne il motore per svolgere soprattutto una funzione di garante del rispetto dei limiti entro i quali legittimamente si esplica l’autonomia negoziale delle parti interessate. Nondimeno, anche in questo caso l’intervento del giudice si rivela quasi sempre d’importanza decisiva, come lo scritto che qui viene pubblicato mette in luce esaminandone i principali momenti di emersione ed evidenziando come, se è vero che la ristrutturazione di imprese in crisi è in teoria ipotizzabile anche senza l’intervento del giudice, senza quell’intervento essa il più delle volte non sarebbe realizzabile.
Riproduzione riservata
1 . Il ruolo del giudice tra processo e negozio
Il tema della relazione assegnatami pone un interrogativo al quale non è agevole dare una risposta univoca, anche perché sullo sfondo si agitano delicate questioni di portata più generale: il rapporto tra diritto ed economia e quello tra autonomia privata e ruolo del giudice nelle vicende economiche. Questioni ciascuna delle quali, ovviamente, meriterebbe una trattazione ben più ampia ed approfondita di quanto in questa sede non sia possibile, ma cui mi pare indispensabile almeno far cenno. 
Quale debba essere il ruolo del giudice nel campo specifico delle procedure concorsuali in Italia è un tema da lungo tempo al centro di vivaci dibattiti. Nell’originaria impostazione della legge fallimentare del 1942 si può dire che il giudice fosse il dominus assoluto di ogni procedura concorsuale. Quella legge, d’altronde, da principio era essenzialmente focalizzata sul fallimento, considerato come strumento necessario per eliminare dal mercato imprese ormai divenute inefficienti. Solo assai modeste aperture venivano fatte all’ipotesi di un possibile salvataggio di imprese in difficoltà finanziarie, economiche o patrimoniali. Gli istituti dell’amministrazione controllata e del concordato preventivo per garanzia, che non casualmente si solevano definire procedure concorsuali minori, nella realtà avevano finito per essere alquanto marginali o, non di rado, per fungere solo da passaggi preliminari al fallimento, utili a diluirne gli effetti nel tempo. E si parlava infatti spesso, a tal riguardo, di un uso alternativo di queste procedure concorsuali minori, finalizzate non tanto a favorire il superamento della crisi d’impresa quanto a servire come ammortizzatore sociale per attenuare l’impatto negativo sui livelli occupazionali del prossimo fallimento e della conseguente liquidazione dell’azienda. Erano però pur sempre la liquidazione dei beni aziendali e la ripartizione del ricavato tra i creditori secondo ben definite regole concorsuali a costituire l’oggetto principale della disciplina, la quale perciò poteva in larga parte esser considerata come una particolare forma di esecuzione forzata, con speciali connotazioni dovute al suo oggetto ed alla già accennata esigenza di assicurare la par condicio creditorum. Ma l’esecuzione forzata si colloca a pieno titolo nell’ambito della giurisdizione – giurisdizione esecutiva, che affianca quella di cognizione – giacché essa è strumento di tutela e realizzazione effettiva dei diritti, cui naturalmente è preposto un giudice per garantire che nell’esercizio della forza di cui lo Stato dispone ci si mantenga entro il rigoroso confine tracciato dalla legge. Donde, in tal genere di procedure, la preminenza del ruolo del giudice, la cui funzione in ambito fallimentare finiva però per estendersi anche ad una serie di attività di carattere prettamente gestorio, rese sovente inevitabili dall’essere la liquidazione il più delle volte riferita non a singoli beni ma ad intere aziende o rami di esse. 
Il quadro appena descritto ha cominciato a modificarsi già a partire dalla riforma inaugurata dal D.L. n. 35 del 2005, convertito con la legge n. 80 dello stesso anno (cui ha fatto poi seguito una nutrita serie di ulteriori provvedimenti normativi all’insegna dell’urgenza, non sempre coerenti l’un con l’altro, che hanno interessato la legge fallimentare del 1942 sin quasi alla vigilia della sua abrogazione). In un contesto generale più incline a favorire una visione liberista, in ambito economico, ed a dare maggior spazio all’autoregolamentazione degli interessi privati, in ambito giuridico, si è andata vieppiù affermando l’idea che fosse necessario ridimensionare in qualche misura il ruolo del giudice, considerato talvolta più come un intralcio ed un fattore d’inefficienza nelle dinamiche del mercato che come una garanzia del loro corretto funzionamento. Nello specifico settore delle procedure concorsuali, poi, si è cominciato a dubitare dell’opportunità di attribuire al giudice competenze gestorie e si è diffusa l’opinione che sarebbe stato preferibile sopprimerle, quelle competenze, o almeno maggiormente circoscriverle, giacché in questo campo si richiede una professionalità manageriale di cui normalmente il giudice non dispone. Meglio, perciò, riservargli una mera funzione di garanzia e di risoluzione dei conflitti eventualmente insorgenti nell’ambito delle diverse procedure concorsuali.
Il passaggio dall’una all’altra impostazione non è stato, tuttavia, né semplice né lineare ed ha presentato non poche criticità, anche perché, nel medesimo tempo, i connotati prevalentemente liquidatori del diritto concorsuale si sono andati nettamente attenuando in favore di una visione volta a privilegiare procedure la cui principale finalità non è più la liquidazione bensì la ristrutturazione aziendale delle imprese in crisi. L’importanza di questa mutata prospettiva, che ha caratterizzato l’evoluzione del diritto europeo prima ancora di quello nazionale, è sin troppo evidente da dover essere sottolineata. Basterà rimarcare, quanto all’ordinamento italiano, che nell’originaria versione della legge fallimentare si rinveniva una ben specifica definizione dello stato d’insolvenza ma la parola “crisi” non era mai neppure menzionata (il termine “crisi” fa la sua comparsa nella disciplina del concordato preventivo solo a seguito delle modifiche apportate dal citato D.L. n. 35 del 2005). Ed oggi, invece, quella parola figura addirittura nello stesso titolo del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d’ora innanzi designato, per brevità, semplicemente come il Codice), entrato integralmente in vigore nel luglio del 2022. La crisi, che è oggetto della prima delle definizioni contenute nell’art. 2 di tale codice, si colloca in una fase logicamente e cronologicamente antecedente rispetto all’eventuale insolvenza, ed il legislatore ha spostato su questa fase la sua prevalente attenzione allo scopo di fornire agli operatori strumenti giuridici volti il più possibile ad impedire che la crisi degeneri in insolvenza (nonché, ove tuttavia l’insolvenza si manifesti, a cercare di evitare che essa divenga irreversibile).
Tutto ciò provoca un radicale mutamento nella connotazione delle procedure concorsuali e nelle fasi ad esse prodromiche della vita delle imprese. Un mutamento che sarei tentato di riassumere nella formula: meno processo e più negozio. Se la liquidazione forzata del patrimonio dell’insolvente appartiene, come già detto, al mondo dei processi esecutivi, gli strumenti attraverso cui si cerca invece di risanare un’impresa in crisi, preservando o recuperando la continuità aziendale, si collocano piuttosto nell’area negoziale, perché alla realizzazione di un tale risultato concorrono di regola le convergenti volontà dei soggetti a vario titolo interessati. Più che i principi propri del diritto processuale, o comunque accanto ad essi, vengono perciò in primo piano i criteri ispiratori del diritto civile dei contratti. È facile allora intendere come il maggior rilievo assunto in questo campo dai profili negoziali si rifletta anche sul ruolo del giudice. Se è al giudice che compete la guida del processo, nel negozio sono invece le parti ad essere le principali protagoniste.
È dunque in questo quadro d’insieme, così profondamene mutato e per molti aspetti anche assai più complesso, che si deve collocare l’interrogativo espresso all’inizio di questa relazione: quale sia oggi il ruolo del giudice nelle procedure di ristrutturazione delle imprese in crisi ed in relazione agli strumenti che a tale scopo il legislatore predispone. 
Per tentare di rispondere in modo esauriente ad un tale interrogativo occorrerebbe procedere ad un’analisi minuta di un’ampia serie di disposizioni previste nel Codice, che in molti diversi contesti prevedono varie forme di intervento giudiziale. Una simile impresa mi appare però troppo impegnativa e credo che rischierebbe di eccedere ampiamente il tempo a mia disposizione. Concentrerò quindi l’attenzione solo su alcuni aspetti più significativi del ruolo del giudice, in particolare nella procedura di concordato preventivo in continuità, che tra le diverse procedure concorsuali è forse quella nella quale in modo più emblematico si manifesta lo scopo di recuperare la funzionalità di un’impresa in crisi evitandone la liquidazione, e nel percorso della composizione negoziata della crisi, che indubbiamente rappresenta una delle innovazioni di maggior rilievo nel rinnovato panorama normativo qui in esame.
2 . Il ruolo del giudice nel concordato preventivo in continuità
La contrapposizione tra una visione essenzialmente negoziale di alcune procedure concorsuali – mi riferisco in particolare al concordato preventivo –, tesa a valorizzare principalmente il ruolo dell’autonomia privata, ed una concezione che ne privilegia invece gli aspetti processuali e sottolinea l’indispensabilità di strumenti di eterotutela, come tali dotati di una maggiore coloratura pubblicistica, non è del tutto nuova. Emblematici sono i contrasti da tempo verificatisi in giurisprudenza in ordine al potere-dovere del giudice non solo di controllare che la procedura si svolga nel rispetto delle regole per essa stabilite, ma anche di sindacare la fattibilità dei piani di concordato, ossia la loro idoneità a realizzare gli scopi per cui li si predispone. Quei contrasti non furono del tutto sopiti neppure con l’intervento delle Sezioni unite della Cassazione (sentenza 1521/2013), che escluse la possibilità del giudice di sindacare la convenienza della proposta concordataria, riconoscendogli però il compito di vagliare se questa fosse in concreto priva della sua causa negoziale, consistente nella regolazione e nel superamento della crisi dell'imprenditore mediante almeno un minimo soddisfacimento delle ragioni dei creditori. 
Anche nei lunghi e tormentati lavori che hanno preceduto l’entrata in vigore dell’odierno Codice si sono registrate oscillazioni e dissensi a questo proposito. Il progetto di legge elaborato dalla prima commissione ministeriale incaricata di questo compito al principio del 2015 aveva inteso seguire l’indirizzo tracciato dalle Sezioni unite, poi però disatteso dal Parlamento con la legge delega n. 155/2017, sulla scorta della quale gli artt. 47, comma 1, e 48, comma 3, del Codice, emanato col d. lgs. n. 14 del 2019, inizialmente stabilirono che il tribunale dovesse anche vagliare la fattibilità economica del piano di concordato. Nella versione definitiva dello stesso Codice, rielaborato dal D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, per recepire la direttiva 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 (c.d. direttiva Insolvency), l’art. 47, comma 1, demanda ora invece al tribunale di verificare, in fase di apertura del procedimento, quando si tratta di concordato liquidatorio, la “ammissibilità della proposta” e la “fattibilità del piano”, non più però in chiave economica bensì intesa come “non manifesta inattitudine del medesimo a raggiungere gli obiettivi prefissati”. In caso di concordato in continuità aziendale, il vaglio preventivo del tribunale deve invece investire la “ritualità della proposta” e che il piano non sia “manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali”. Si torna così, se non m’inganno, ad un’impostazione molto simile a quella cui si erano ispirate le Sezioni unite nella citata sentenza del 2013. La ritualità di una proposta di concordato dipende dalla sua conformità alle regole con cui il legislatore ne ha delineato i caratteri fondamentali ed i requisiti indispensabili di forma. La manifesta inidoneità del piano a realizzare le sue funzioni essenziali non implica una valutazione di maggiore o minore probabilità di successo, che saranno i creditori a stimare, bensì un giudizio di assoluta (manifesta) inesistenza di qualsiasi possibilità di successo, che rende perciò in concreto impossibile l’oggetto stesso della proposta concordataria. In sintesi, dunque, il giudice conserva il suo ruolo naturale di controllore della correttezza dello svolgimento del processo, che si riferisce anche alla regolare formazione del consenso dei creditori, espresso sulla base di un’adeguata informazione ed esente da possibili elementi di frode. Gli è però preclusa, in questa fase, una valutazione del merito della proposta concordataria, che compete unicamente ai creditori in ossequio all’autonomia negoziale, sia pure incanalata entro precise regole procedurali il cui rispetto dev’essere dal giudice garantito, salvo che la macroscopica inattuabilità del piano su cui la proposta si regge non renda quest’ultima prima facie inammissibile.
Quando però la procedura abbia avuto corso, la proposta sia stata approvata dai creditori con le prescritte maggioranze e si passi alla fase dell’omologazione, i poteri d’ingerenza del giudice nelle dinamiche della ristrutturazione aziendale prevista da un concordato in continuità possono assumere assai maggior rilievo. Ai controlli di carattere ancora essenzialmente procedimentale elencati dall’art. 112, comma 1, lett. a), b), c), d) ed e), si accompagna, con specifico riguardo al concordato in continuità aziendale, la verifica del complesso sistema di distribuzione tra i creditori dell’eventuale valore di liquidazione e di quello che si prevede deriverà dal protrarsi dell’attività dell’impresa (art. cit. comma 2). Su queste regole di distribuzione non posso qui soffermarmi, ma vorrei piuttosto richiamare l’attenzione su quanto stabilito dalla successiva lett. f) del primo comma dell’articolo citato, secondo la quale il tribunale deve anche verificare che “il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza e che eventuali nuovi finanziamenti siano necessari per l’attuazione del piano e non pregiudichino ingiustamente gli interessi dei creditori”. Una formula, questa, che per il concordato in continuità aziendale sembra implicare una valutazione più estesa e penetrante sulla fattibilità del piano, rispetto a quella consistente nel giudizio di “non manifesta inattitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati”, di cui prima s’è detto, la quale viene poi richiamata dalla successiva lett. g) del medesimo comma con riferimento ad ogni tipo di concordato. 
Solo nella pratica applicazione di questa nuova normativa si comprenderà però davvero quale sia la portata di tale valutazione e l’ampiezza dei poteri che il giudice eserciterà nel compierla. Resta però comunque fermo che neppure in sede di omologazione il giudice è chiamato d’ufficio a valutare la convenienza della proposta e del piano di concordato, rimessa al giudizio dei creditori. Tuttavia, se la convenienza è contestata da un creditore opponente, al tribunale tocca un delicato giudizio di comparazione, dovendosi stabilire se il credito dell’opponente risulterà comunque soddisfatto in misura non inferiore di quel che accadrebbe in caso di liquidazione giudiziale (art. cit. comma, 3). Non mi sentirei di escludere che questo giudizio comparativo, in parte controfattuale, in molti casi finisca per comportare un ampliamento della sfera di valutazione rimessa al giudice, sino a comprendervi anche profili attinenti alla convenienza della proposta concordataria, per poterla commisurare ai presumibili risultati dell’alternativa liquidatoria.  
Merita poi di essere richiamata, a tal proposito, anche un’ulteriore disposizione, inserita in extremis nel testo del Codice. Mi riferisco all’ art. 53, comma 5 bis (introdotto esercitando un’opzione consentita al legislatore nazionale dall’art. 16, par. 4, comma 2, della direttiva Insolvency), ove è previsto che, in caso di reclamo contro la sentenza di omologazione di un concordato preventivo in continuità aziendale, il giudice d’appello, pur accogliendo il reclamo, potrebbe nondimeno confermare l’omologazione se valuti che l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori sia prevalente rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno. Si chiede qui al giudice di compiere un delicato bilanciamento di interessi contrapposti, tra i quali viene in rilievo anche l’interesse dei lavoratori al mantenimento in attività dell’azienda; e mi pare si tratti di una valutazione che va ben oltre il giudizio di convenienza di cui prima si parlava, perché qui la convenienza dev’esser considerata da una pluralità di punti di vista, corrispondenti ai diversi interessi in gioco: l’interesse dei lavoratori, che potrebbe in questo caso prevalere su quello del singolo creditore opponente, pur restando subvalente rispetto all’interesse generale della massa dei creditori, perché l’art. 84, comma 2, afferma che il concordato in continuità aziendale “tutela l’interesse dei creditori” e solo “nella misura del possibile” preserva anche i posti di lavoro; l’interesse, appunto, dei creditori in quanto comunità organizzata, retta al proprio interno dal principio maggioritario, pur con l’adattamento derivante dalla suddivisione in classi, la quale però qui non sembra venire in rilievo dal momento che è solo l’interesse comune all’intera massa a poter prevalere su quello del singolo creditore che si sia fondatamente opposto all’omologazione; ed, infine, l’interesse personale di quest’ultimo, cui si appresta una tutela risarcitoria, in luogo della tutela reale, ma ovviamente in misura non eccedente quella che gli sarebbe spettata in caso di mancata omologazione del concordato ed apertura di una procedura di liquidazione giudiziale. 
Si tratta, nel complesso, di valutazioni pur sempre affidate a criteri piuttosto elastici e non è escluso che anche in futuro l’intervento del giudice in questa materia si manifesterà con intensità variabile, a seconda della maggiore o minore propensione dei singoli tribunali ad estendere la portata del loro sindacato.
Non va poi sottovalutata l’importanza dell’intervento del giudice nella concessione di misure cautelari e protettive di cui agli artt. 54 e segg. del Codice, spesso decisive per la realizzazione del piano, nell’accordare le quali non è indicato che il giudice debba vagliare la fattibilità (e tanto meno la convenienza per i creditori) del piano di concordato, ma è presumibile che egli tenga conto delle maggiori o minori probabilità di successo di detto piano. Anche sotto questo profilo, dunque, non mi sembra affatto che il giudice sia davvero chiamato a giocare un ruolo secondario, potendo egli invece, in realtà, condizionare fortemente l’esito della prospettata ristrutturazione aziendale con valutazioni che sarebbe davvero riduttivo considerare di natura meramente formale.
3 . Il ruolo del giudice nella composizione negoziata della crisi
S’è detto dell’impegno del moderno legislatore nel forgiare strumenti atti a prevenire l’insolvenza. È ovvio che tali strumenti possono risultare davvero efficaci solo a condizione che siano posti in opera tempestivamente. Donde l’estrema importanza di un precoce rilevamento dei sintomi di crisi che, se non immediatamente fronteggiati, potrebbero compromettere ogni reale possibilità di ristrutturazione finalizzata al mantenimento o al recupero della continuità aziendale. La necessità di adottare tecniche di early warning era ben avvertita già nella Raccomandazione 2014/135/UE della Commissione su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all'insolvenza ed è stata poi ancor più fortemente ribadita nella già citata Direttiva Insolvency. Il legislatore italiano, con la pure già citata legge delega n.155 del 2017, ha inteso recepire queste sollecitazioni prefigurando un apposito sistema di allerta, volto appunto a far emergere tempestivamente gli eventuali sintomi di crisi dell’impresa, accompagnato da uno strumento di composizione assistita per favorire la ricerca della via più adatta ad impedire la sopraveniente insolvenza. Nella versione finale del Codice gli strumenti di early warning sono stati per diversi aspetti modificati, rispetto alla previsione iniziale, ed alla composizione assistita si è sostituita la composizione negoziata della crisi, con l’intento di tracciare un precorso di risanamento aziendale più agevolmente percorribile per l’imprenditore in crisi e di eliminare alcuni aspetti che avrebbero potuto intimorirlo inducendolo a non intraprendere tempestivamente quel precorso. Non è qui il caso di soffermarsi in dettaglio sulle caratteristiche di questi nuovi istituti, né di discutere sull’opportunità delle modifiche da ultimo ricordate. Quel che invece mette conto notare è che, sin da principio, si è (almeno apparentemente) imposta l’idea che questa fase precoce di analisi e di contrasto alla crisi dovesse avere carattere non solo riservato, ma anche stragiudiziale. Questo carattere è oggi rafforzato dal fatto che la segnalazione dei sintomi di crisi da parte degli organi di vigilanza dell’impresa e di alcuni creditori qualificati è destinata ad innestare un dialogo che si svolge unicamente tra i segnalanti ed i gestori dell’impresa stessa, e sono solo questi ultimi poi a decidere se avvalersi o meno della composizione negoziata, ove ricorrano le condizioni previste dall’art. 12 del Codice, senza che il giudice debba essere chiamato in causa. E’ prevista invece una nuova figura, quella dell’esperto, ed è lui che si presenta, sotto molti aspetti, come il vero dominus della composizione negoziata, nel cui ambito svolge al tempo stesso la funzione di facilitatore di possibili accordi tra debitore e creditori e di vigile controllore della correttezza dei comportamenti delle parti interessate. Ma l’esperto non è di nomina giudiziale (al presidente della sezione del tribunale specializzata in materia di imprese spetta solo la designazione di uno dei tre componenti la commissione, istituita presso la camera di commercio, cui tocca la nomina dell’esperto), egli non opera sotto il controllo di un giudice e non può considerarsi un suo ausiliario.
Sin dal nome la composizione negoziata denuncia l’intento di affidare la possibile risoluzione della crisi all’autonomia negoziale dei soggetti interessati, anziché al giudice. Anche in questo ambito, però, il ruolo del giudice potrebbe risultare – e nella maggior parte dei casi presumibilmente risulterà – per nulla marginale. 
Al giudice, come già s’è detto, non spetta decidere se vi siano o meno le concrete possibilità di risanamento dell’impresa, che costituiscono il necessario presupposto della composizione negoziata, ma è pur sempre a lui che occorre rivolgersi se si vogliono ottenere misure protettive o cautelari, che si rivelano quasi sempre indispensabili per il buon esito dell’iniziativa; e restano pure affidate al giudice le eventuali decisioni di conferma, revoca o riduzione della durata di tali misure (artt. 18 e 19 del Codice). Non solo: è ancora al tribunale che tocca, se richiesto, autorizzare il debitore sia a contrarre finanziamenti prededucibili sia a trasferire a terzi l’azienda o rami di essa (art. 22). Inoltre, il tribunale interviene anche nell’eventuale rinegoziazione dei contratti di durata resi eccessivamente onerosi a causa dell’epidemia da Covid-19 (art. 10, comma 2, del D.L. n. 118 del 2021), quando l’esperto abbia in vano sollecitato le parti a rivedere secondo buona fede il contenuto del contratto in corso, rideterminandolo d’autorità secondo criteri equitativi.  
Nell’emettere tali provvedimenti è inevitabile che il giudice si interroghi anche sulle concrete possibilità di risanamento dell’impresa e sull’idoneità dei mezzi prescelti per realizzarla. Ciò appare evidente per le autorizzazioni del tribunale a contrarre finanziamenti ed a trasferire l’azienda, che il citato art. 22 subordina alla verifica della “funzionalità degli atti rispetto alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori”. Verifica, questa, riferita ai singoli atti per i quali è chiesta l’autorizzazione ma che inevitabilmente comporta anche una più generale valutazione dell’esistenza di quelle ragionevoli prospettive di risanamento dell’impresa da cui l’utilità stessa della negoziazione assistita dipende e la cui eventuale mancanza non potrebbe non riflettersi sulla “funzionalità” degli atti di cui è richiesta l’autorizzazione. Anche nelle altre situazioni sopra descritte, nelle quali è previsto l’intervento del giudice nella fase di composizione negoziata della crisi, è difficile immaginare che possa davvero prescindersi da una preliminare valutazione dell’effettiva sussistenza dei requisiti occorrenti per intraprendere e svolgere quel tipo di percorso negoziale. Non è pensabile che un tribunale si decida ad emettere provvedimenti cautelari o protettivi, capaci di incidere significativamente su diritti ed interessi dei soggetti coinvolti, senza essersi interrogato sull’esistenza delle condizioni preliminari indispensabili per il raggiungimento del fine ultimo cui tendono la composizione negoziata ed i provvedimenti ad essa strumentali. Ed è significativo al riguardo che l’art. 19, comma 4, del Codice non soltanto prescriva che in questi casi l’esperto sia chiamato ad “esprimere il proprio parere sulla funzionalità delle misure richieste”, ma preveda altresì la possibilità per il giudice di avvalersi di un ausiliario (ovviamente da non confondere con l’esperto appena menzionato) soprattutto per supportarlo in valutazioni di tipo aziendalistico. 
Insomma, mi pare che neppure il carattere stragiudiziale che si è inteso assegnare alla composizione negoziata della crisi debba essere troppo enfatizzato, o almeno occorrerebbe precisare che si tratta di un carattere non certo assoluto, ma destinato non di rado a coniugarsi con la possibilità di interventi giudiziali tutt’altro che marginali e, probabilmente, per nulla rari.
4 . Conclusione
In conclusione, provando a rispondere all’interrogativo iniziale, direi che l’evoluzione dell’ordinamento italiano è sì orientata, in via di principio, anche sulla scorta di sollecitazioni derivanti dalla normativa sovranazionale europea, a consentire la ristrutturazione di imprese in crisi, almeno a certe condizioni, senza l’intervento del giudice, ma che, senza quell’intervento, la ristrutturazione spesso non sarebbe realisticamente ipotizzabile.
L’effettiva incidenza della presenza attiva del giudice in tal genere di vicende è ovviamente variabile, come variabili sono le fattispecie normative e le situazioni concrete in cui essa può manifestarsi. Da molte parti si auspica che essa sia il più possibile contenuta, alla luce del generale maggior favore mostrato dai legislatori europeo e nazionale per gli strumenti di ristrutturazione, che si vorrebbero rimessi al libero gioco della volontà negoziale delle parti e rispetto ai quali il giudice dovrebbe fungere solo da garante della legalità. Almeno entro certi limiti, l’intervento giuidiziale continua però a rivelarsi indispensabile in situazioni di questo tipo, per due ragioni di fondo: perché non può farsi a meno di un controllo di legalità, che però quasi mai è svincolato dalla necessità di bilanciare interessi diversi, talora concomitanti ma più spesso conflittuali, ed è in ultima analisi al giudice, per la sua naturale e particolarmente spiccata caratteristica di imparzialità, che quel bilanciamento finisce per esser affidato; ed, inoltre, perché tra i diversi interessi di cui occorre tener conto ve ne sono anche di quelli che fanno capo a soggetti terzi, o comunque non dotati di adeguati strumenti di autotutela, per i quali quindi è imprescindibile la garanzia di un controllo giudiziale che non sia di mera legittimità formale.    
Perché ciò avvenga in modo fisiologico, evitando che l’intervento del giudice si risolva in un fattore d’imprevedibilità e, quindi, d’inefficienza degli strumenti volti a favorire la ristrutturazione aziendale ed a scongiurare la dispersione dei valori dell’impresa, o che quell’intervento sia comunque avvertito come tale, sarebbe però indispensabile assicurare un più elevato grado di specializzazione dei magistrati chiamati ad occuparsi di questa materia. L’impulso che anche a tal riguardo proviene dal diritto sovranazionale europeo e dal confronto con la realtà di altri Paesi comparabili al nostro avrebbe dovuto spingere ad interventi normativi in questa direzione. Lo si era infatti previsto nel corso dei lavori da cui è scaturito il Codice e nella citata legge delega del 2017, ma non se ne è fatto poi praticamente nulla. 
Questo tema porterebbe però troppo lontano e richiederebbe un discorso troppo ampio per essere affrontato qui. Mi limito ad auspicare che si diano altre occasioni per poterne riparlare approfonditamente.

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Modalità del trattamento - Ai sensi e per gli effetti degli artt. 12 e ss. del GDPR, i dati personali degli interessati saranno registrati, trattati e conservati presso gli archivi elettronici delle Società, adottando misure tecniche e organizzative volte alla tutela dei dati stessi. Il trattamento dei dati personali degli interessati può consistere in qualunque operazione o complesso di operazioni tra quelle indicate all' art. 4, comma 1, punto 2 del GDPR.

Comunicazione e diffusione - I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati, intendendosi con tale termine il darne conoscenza ad uno o più soggetti determinati, dalla Società a terzi per dare attuazione a tutti i necessari adempimenti di legge. In particolare i dati personali dell’interessato potranno essere comunicati a Enti o Uffici Pubblici o autorità di controllo in funzione degli obblighi di legge.

I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati nei seguenti termini:

  • - a soggetti che possono accedere ai dati in forza di disposizione di legge, di regolamento o di normativa comunitaria, nei limiti previsti da tali norme;
  • - a soggetti che hanno necessità di accedere ai dati per finalità ausiliare al rapporto che intercorre tra l’interessato e la Società, nei limiti strettamente necessari per svolgere i compiti ausiliari.

Diritti dell’interessato - Ai sensi degli artt. 15 e ss GDPR, l’interessato potrà esercitare i seguenti diritti:

  • 1. accesso: conferma o meno che sia in corso un trattamento dei dati personali dell’interessato e diritto di accesso agli stessi; non è possibile rispondere a richieste manifestamente infondate, eccessive o ripetitive;
  • 2. rettifica: correggere/ottenere la correzione dei dati personali se errati o obsoleti e di completarli, se incompleti;
  • 3. cancellazione/oblio: ottenere, in alcuni casi, la cancellazione dei dati personali forniti; questo non è un diritto assoluto, in quanto le Società potrebbero avere motivi legittimi o legali per conservarli;
  • 4. limitazione: i dati saranno archiviati, ma non potranno essere né trattati, né elaborati ulteriormente, nei casi previsti dalla normativa;
  • 5. portabilità: spostare, copiare o trasferire i dati dai database delle Società a terzi. Questo vale solo per i dati forniti dall’interessato per l’esecuzione di un contratto o per i quali è stato fornito consenso e espresso e il trattamento viene eseguito con mezzi automatizzati;
  • 6. opposizione al marketing diretto;
  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

Dati di contatto - Società per lo studio del diritto della crisi con sede in via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN); email: ssdirittodellacrisi@gmail.com.

Responsabile della protezione dei dati - Il Responsabile della protezione dei dati non è stato nominato perché non ricorrono i presupposti di cui all’art 37 del Regolamento (UE) 2016/679.

Il TITOLARE

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Società per lo studio del diritto della crisi

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