Il tempo della pandemia e lo spazio del diritto
Luciano Panzani, già Presidente della Corte d’Appello di Roma
1 Aprile 2021
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Vorrei tornare su questo tema.
I recenti risultati della rilevazione effettuata da una task force costituita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, dal Ministero dello Sviluppo economico, dalla Banca d’Italia, dall’ABI, dal Mediocredito centrale e da SACE evidenziano che a gennaio 2021 le domande di adesione alle moratorie su prestiti sono state oltre 2,7 milioni per un valore di circa 300 miliardi. Le richieste di garanzia per nuovi finanziamenti bancari per le micro, piccole e medie imprese presentate al Fondo di Garanzia per le PMI nel periodo compreso tra il 17 marzo 2020 e il 26 gennaio 2021 sono state 1.669.752 per un importo complessivo di 133,6 miliardi. Al 23 dicembre sono state accolte 1.656.254 operazioni. Le garanzie concesse attraverso SACE ammontano a 20,9 miliardi di euro per un totale di 1.449 operazioni.
La sottocapitalizzazione delle imprese costituisce un fattore che caratterizza il tessuto produttivo italiano. Secondo recenti dati di Banca d’Italia in media ogni anno dal 2010 al 2018 l’8,5% di un campione di 662.000 imprese riporta un patrimonio netto negativo, che secondo gli indici elaborati dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti sarebbe sufficiente per l’avvio della segnalazione di allerta. A distanza di un anno dal verificarsi di perdite rilevanti che riducono il capitale al di sotto del minimo legale, il 36% delle imprese cessa l’attività (il 4% con un fallimento). A distanza di tre anni il 61% chiude l’attività (il 13% con un fallimento). La restante parte rimane in genere sottocapitalizzata e continua l’attività anche dopo i tre anni. La sottocapitalizzazione è più frequente al Sud e riguarda in larga misura i settori oggi più colpiti dalla pandemia.
Secondo il modello della Banca d’Italia per la valutazione del merito creditizio delle società, la probabilità di insolvenza a 12 mesi per un campione di circa 255.000 imprese salirebbe rispetto allo scorso febbraio tra il 3 e il 4,4%, attestandosi su livelli inferiori a quelli della precedente crisi dei debiti sovrani (5,4% in media nel 2015).
Una recente indagine di Banca d’Italia stima che sommando il numero dei fallimenti dovuti al calo del PIL (2.800) al numero dei fallimenti non dichiarati nel 2020 per effetto delle misure governative (-3.700), nel biennio 2021-2022 ci si dovrebbe attendere un aumento di circa 6.500 unità rispetto al 2019, di cui la maggior parte nel 2021. La crescita economica prevista per il 2021 e 2022 dovrebbe, tuttavia, compensare questo aumento per quasi un quinto. Il dato è in linea con quanto rilevato per la Francia dalla Banca di Francia che ha misurato un calo dei fallimenti nel 2020 rispetto al 2019 del 24%, che sale al 43% per le PMI. Sulla base di questi dati per l’Italia ci si potrebbe aspettare un ritorno del livello dei fallimenti vicino al picco massimo raggiunto nel 2014 quando il sistema giudiziario risultava in sofferenza. Se a ciò si aggiunge la ridotta operatività dei Tribunali dovuta alle restrizioni imposte dal coronavirus, il rischio di un ulteriore allungamento dei tempi delle procedure è elevato, con importanti ricadute sulla efficienza del sistema concorsuale e sull’accumulo degli NPL nei bilanci delle banche.
Le misure adottate per ridurre l’impatto della pandemia sulla governance delle società, in particolare la deroga al principio capitalizza o liquida in caso di perdita del capitale sociale e la possibilità per le società che non adottano i principi contabili internazionali di non effettuare fino al 100% dell’ammortamento delle immobilizzazioni materiali e immateriali, in un con la valutazione delle poste di bilancio secondo il principio della continuità aziendale se tale requisito risultava esistente nell’esercizio anteriore alla pandemia, hanno sensibilmente aumentato la possibilità che rimangano operative società con patrimonio netto negativo.
La circostanza che i dati contabili consentano una rappresentazione difforme dalle reali condizioni dell’impresa non esclude ovviamente che l’imprenditore debba ugualmente attivarsi per garantire la prosecuzione dell’attività e per tutelare gli interessi dei creditori e degli altri stakeholders, in particolare dei lavoratori.
Il fatto poi che la pandemia sia tutt’altro che sconfitta e che i tempi ed i risultati della vaccinazione non siano ancora certi, impone a maggior ragione questo impegno.
Non va trascurato che se il complesso sistema dell’allerta è stato rinviato, insieme a tutto il codice della crisi, a settembre 2021 e che sia probabile un ulteriore rinvio, se non di tutto il codice, quantomeno della disciplina dell’allerta, all’evidenza incompatibile con le conseguenze della crisi pandemica, l’art. 2086 c.c. novellato è in vigore e che esso già impone agli imprenditori, soprattutto società ed imprese collettive, di attivarsi in caso di crisi ed agli organi di controllo di vigilare, organi di controllo che hanno già a loro disposizione, in caso di inerzia degli amministratori, la potente arma della denuncia al tribunale delle gravi irregolarità ai sensi dell’art. 2409 c.c., potere dovere al cui mancato esercizio segue il rischio di responsabilità per danni.
E’ poi appena il caso di osservare che la crisi delle imprese è destinata a dar vita ad un nuovo incremento degli NPL e degli UTP delle banche, dopo che la loro percentuale negli ultimi anni era calata, soprattutto per effetto delle cessioni imposte dalla vigilanza europea. Il problema è più rilevante per le banche di minori dimensioni, che già presentano livelli di ROE insoddisfacenti.
Questo quadro complessivo porta a domandarci se il nostro Paese sia in questo momento attrezzato per far fronte alla crisi pandemica. Se gli aiuti alle imprese in termini di finanziamenti e contributi a fondo perduto, i c.d. ristori, non sono stati complessivamente inadeguati, il rinvio del codice della crisi e la richiesta alla Commissione UE di un rinvio di un anno per l’adeguamento della disciplina alla Direttiva 1023/2019, lascia l’Italia pericolosamente priva di strumenti sufficienti con cui far fronte alle tante situazioni di crisi.
Non interessano tanto i fallimenti in più che saranno dichiarati, quanto le imprese ancora vitali per le quali non si approntano strumenti di intervento per la composizione della crisi. A livello europeo Olanda e Germania hanno emanato sin dal 1 gennaio leggi di adeguamento della legislazione alla Direttiva 1023/2019 e la Francia lo sta per fare. La Spagna ha varato da poco una riforma della ley concursal.
L’Italia è caratterizzata da sempre da un’estrema lentezza delle negoziazioni tra debitore e creditori per la composizione della crisi, lentezza che riguarda anche il sistema bancario. Le procedure di ristrutturazione, concordati preventivi e accordi di ristrutturazione, non contengono misure idonee ad accelerare il negoziato, in qualche modo lo presuppongono, ma non lo agevolano.
Il codice della crisi, sulla scorta della Direttiva 1023/2019, ha previsto che la sospensione delle azioni esecutive che può seguire all’accesso al concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione non possa avere durata superiore ai dodici mesi, anche considerando le proroghe del termine originariamente concesso. Molti hanno manifestato forti (e fondati) dubbi che questo termine sia sufficiente alla luce del tempo normalmente necessario per la conclusione del procedimento con l’omologazione. Le leggi recentemente emanate dall’Olanda e dalla Germania di recepimento della disciplina dettata dalla Direttiva (l’Italia ha chiesto la proroga di un anno insieme ad altri dieci Paesi UE) prevedono un termine massimo di otto mesi. La norma della Direttiva che prevede il termine è stata oggetto di discussioni nel corso dei lavori preparatori, come del resto tutto il testo del provvedimento. Ma sulla lunghezza del termine gli unici a sollevare perplessità sono stati gli italiani.
È la riprova evidente che è il nostro Paese ad avere serie difficoltà a contenere i tempi della negoziazione tra debitore e creditori ed i tempi di svolgimento delle procedure sino alla loro approvazione (l’esecuzione è altra cosa).
Ciò dipende dalla riottosità di molte imprese, prevalentemente a conduzione familiare, a prendere atto della crisi che si delinea all’orizzonte, ma anche dai tempi delle trattative con il sistema bancario che sono eccezionalmente lunghi. Tali trattative spesso vedono qualche istituto bancario, in genere banche minori, convocare organi collegiali, talvolta lo stesso consiglio di amministrazione, prima di decidere. Si aggiungono le difficoltà connesse alle dismissioni di NPL ed UTP che spesso rendono difficoltoso al debitore trovare un valido contraddittore sulle proposte che sta avanzando. Infine le nostre procedure, a differenza di quanto spesso avviene in altri Paesi, non sono sovente il luogo in cui un accordo già raggiunto in sede extragiudiziale viene formalmente approvato nel rispetto del contraddittorio e dei diritti delle minoranze, ma il luogo in cui si cerca la soluzione alla crisi. Il risultato di questi fenomeni concomitanti è che la crisi si aggrava, si incrementa l’onere delle spese in prededuzione e delle perdite di gestione, prima di arrivare ad una soluzione.
Il diritto speciale dell’emergenza non ha offerto soluzioni idonee a risolvere il problema. L’art. 9 ult. comma, del D.L. liquidità, introdotto dalla legge di conversione, ha previsto il c.d. piano attestato rafforzato che consiste fondamentalmente nell’accesso al concordato con riserva di presentazione del piano e nella successiva rinuncia, dopo aver beneficiato della sospensione delle azioni esecutive, in vista del perfezionamento di un piano attestato sull’evidente presupposto del raggiungimento di un accordo con una parte del ceto creditorio sufficiente a porre rimedio allo stato di crisi.
Non pare che questo strumento ad oggi abbia avuto risultati particolarmente positivi. La ragione, come le difficoltà cui accennavo, sta nel fatto che il sistema non prevede un luogo di negoziazione con i creditori e strutture adeguate di sostegno della negoziazione.
Il rinvio del codice della crisi è dipeso essenzialmente dalle difficoltà a far entrare in vigore il sistema dell’allerta che è parso, ed è, inadeguato a far fronte alle difficoltà di moltissime imprese, quali risultano dai dati che ho elencato. Vi è una seria probabilità che il codice possa subire ulteriori rinvii e la ragionevole certezza che, almeno quest’anno, il sistema dell’allerta non possa entrare in vigore. Occorre però che si individuino meccanismi idonei a supportare la negoziazione tra debitore e creditori, nel rispetto di quei principi di collaborazione secondo buona fede tra debitore e creditori e di riservatezza di questi ultimi sulle condizioni dell’impresa sanciti dagli artt. 3 e 4 del codice della crisi.
Da questo punto di vista la creazione della rete degli OCRI presso le Camere di commercio e l’avvio, su base volontaria non coattiva, della procedura di composizione assistita della crisi (artt. 19-21 CCII) potrebbero essere preziosi.
La soluzione della crisi d’impresa, là dove è possibile, richiede tempestività, attenzione alla continuità aziendale soprattutto con riferimento alla liquidità e quindi ai canali di finanziamento, riorganizzazione dell’attività produttiva e commerciale, riduzione del debito attraverso la negoziazione con i creditori, in primo luogo quelli strategici. Occorre quindi una rete, ben distribuita sul territorio nazionale, che possa fornire con competenza e riservatezza assistenza alle imprese nella redazione del piano di ristrutturazione e nel raggiungimento di accordi con i creditori al primo comparire della situazione di crisi. La rete degli OCRI e le Camere di Commercio, che possono fornire servizi aggiuntivi, può svolgere un ruolo prezioso, soprattutto se liberata dai profili più burocratici e formali della riforma, tanto nella nomina degli esperti che nella consulenza e nella negoziazione, e capace di dotarsi di soluzioni operative snelle ed elastiche. In alternativa si può pensare a strutture create presso le associazioni di categoria o presso gli ordini professionali.
Occorre però di più. Intendo prima di tutto l’avvio di buone prassi, anche all’interno del sistema bancario, per accelerare i tempi di negoziazione, buone prassi che vanno estese ai soggetti che si sono resi cessionari dei crediti da parte delle banche. Manca inoltre una procedura soft, prevalentemente non giudiziale, che assicuri per un periodo di tempo limitato la tutela dell’integrità dell’impresa e della continuità in pendenza di trattative, limitando i controlli al minimo indispensabile, in modo da evitare il sovraccarico dei tribunali ed assicurare la massima snellezza ed efficienza.
Nei mesi scorsi le proposte in questo senso non sono mancate, ma non hanno avuto seguito alcuno [1]. Occorre intervenire.
Il come ed il dove deve essere oggetto di dibattito. Ed è urgente.
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