Saggio
La disciplina dei gruppi di imprese nel nuovo codice della crisi*
Alessandro Farolfi, Giudice nel Tribunale di Ravenna
1 Aprile 2019
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Sommario:
Peraltro, alcuni riferimenti indiretti alla comunanza degli interessi perseguiti attraverso una pluralità di imprese fra loro collegate o partecipate era comunque possibile trovare. Ad es. l’art. 124 L. fall., sia pure in tema di concordato fallimentare, estende le limitazioni temporali alla facoltà del debitore di avanzare una proposta concordataria alle “società cui egli partecipi o … sottoposte a comune controllo”, mentre il successivo art. 127 co. 6 L. fall. estende le esclusioni dal voto previste per i parenti, coniugi e d affini del fallito “ai crediti delle società controllanti o controllate o sottoposte a comune controllo”. Del pari, lo stesso art. 160 co. 1 lett. a), nella parte in cui specifica la natura del tutto atipica della proposta di concordato preventivo, attraverso la possibilità di utilizzo di operazioni straordinarie, poteva rappresentare un utile spunto alla ricostruzione dottrinale e per via giurisprudenziale della rilevanza concorsuale di forme di aggregazione fra imprese.
Tuttavia, si è dovuto attendere una normativa di rango sovranazionale come il Regolamento (UE) 2015/848, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale UE n. 141 del 5 giugno 2015, in tema di insolvenza transfrontaliera, per individuare una spinta definitiva verso la necessità di introdurre una disciplina organica della crisi dei gruppi di imprese (vds. in particolare il Capo V, agli artt. 56-77, ove pur rinunciando ad introdurre una competenza unitaria davanti ad un solo giudice nazionale, quando le imprese aderenti al gruppo siano collocate in stati membri diversi, le nuove norme hanno comunque previsto un obbligo di cooperazione e di comunicazione fra giudici ed amministratori della diverse procedure; del pari, il precedente art. 2 par. 13 afferma che per gruppo deve intendersi “un’impresa madre e tutte le sue imprese figlie”, intendendosi per impresa madre “l’impresa che controlla, direttamente o indirettamente, una o più imprese figlie”, aggiungendo ulteriormente che “un’impresa che redige il bilancio consolidato conformemente alla direttiva 2013/34/UE del Parlamento europeo e del Consiglio è considerata quale impresa madre”).
Anche per tale motivo, quindi, la fondamentale legge di riforma c.d. Rordorf (dal nome del Presidente della relativa commissione di studio), L. 19/10/2017, n. 155, pubblicata sulla G.U. serie gen. N. 254 del 30/10/2017, contiene un art. 3 specificamente dedicato ai gruppi di imprese.
La legge delega si propone, in primo luogo, di delineare alcuni principi, per così dire strumentali e funzionali, rispetto alla regolamentazione della crisi di gruppo, volti ad agevolare la gestione unitaria o comunque coordinata della stessa:
a) il concetto di gruppo, in primis, per il quale vengono richiamati gli artt. 2497 e 2545 septies c.c., introducendo altresì una presunzione semplice di assoggettamento a direzione e coordinamento in presenza di un rapporto di controllo di cui all'art. 2359 c.c. (che come è noto lo prevede nei seguenti casi: 1) società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria; 2) società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria; 3) società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa);
1) le imprese in crisi od insolventi del gruppo, purché tutte sottoposte a giurisdizione italiana, possano presentare un unico ricorso contenente domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, o di ammissione al concordato preventivo oppure alla liquidazione giudiziale, favorendo la concentrazione di fronte ad una sola autorità giudiziaria della gestione della procedura, prevedendo invece forme di coordinamento quando le diverse società siano sottoposte a diversa giurisdizione;
Per il concordato preventivo si prevede, in particolare:
a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico commissario giudiziale e il deposito di un unico fondo per le spese di giustizia;
b) la contemporanea e separata votazione dei creditori di ciascuna impresa;
c) l’esigenza di disciplinare gli effetti dell'eventuale annullamento o risoluzione della proposta unitaria omologata;
d) l'esclusione dal voto delle imprese del gruppo che siano titolari di crediti nei confronti delle altre imprese assoggettate alla procedura;
e) i criteri per la formulazione del piano unitario di risoluzione della crisi del gruppo, eventualmente attraverso operazioni contrattuali e riorganizzative infragruppo, purché funzionali alla continuità aziendale ed al migliore soddisfacimento dei creditori, fatta salva la tutela in sede concorsuale per i soci e per i creditori delle singole imprese, nonché per ogni altro controinteressato.
Mentre nel caso di gestione unitaria della procedura di liquidazione giudiziale di gruppo la delega prevede:
a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico curatore, ma di distinti comitati dei creditori per ciascuna impresa del gruppo;
b) un criterio di ripartizione proporzionale dei costi della procedura tra le singole imprese del gruppo;
c) l'attribuzione al curatore, anche nei confronti di imprese non insolventi del gruppo, del potere di:
- azionare rimedi contro operazioni antecedenti l'accertamento dello stato di insolvenza e dirette a spostare risorse a un'altra impresa del gruppo, in danno dei creditori;
- esercitare le azioni di responsabilità di cui all'art. 2497 c.c.;
- promuovere la denuncia di gravi irregolarità gestionali nei confronti degli organi di amministrazione delle società del gruppo non assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale;
- nel caso in cui ravvisi l'insolvenza di imprese del gruppo non ancora assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale, segnalare tale circostanza agli organi di amministrazione e di controllo ovvero promuovere direttamente l'accertamento dello stato di insolvenza di dette imprese;
- la disciplina di eventuali proposte di concordato liquidatorio giudiziale, in conformità alla disposizione dell'articolo 7, comma 10, lettera d) (che come è noto prevede una direttiva volta ad incentivare l’utilizzo di questo istituto, al fine di pervenire alla chiusura anticipata della liquidazione giudiziale, favorendo le proposte di creditori e di terzi, nonché dello stesso debitore, ove quest’ultimo apporti risorse che incrementino in modo apprezzabile l'attivo).
Tali direttive sono state recepite, come subito si vedrà, nel testo del Codice della Crisi e dell’Insolvenza (d’ora innanzi CCI), approvato dal Consiglio dei Ministri dello scorso 10 gennaio 2019, trasfuso nel D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, pubblicato nella G.U. n. 38 del 14 febbraio 2019, che corona oltre un anno di lavori di redazione dei testi attuativi, proponendosi un’ambiziosa reductio ad unitatem e disciplina più organica delle diverse misure di regolazione della crisi (così ad es. sono ricondotte all’interno del nuovo codice anche le procedure di sovraindebitamento, precedentemente collocate al di fuori della legge fallimentare e disciplinate dalla L. n. 3/2012 e ss. modd.).
a) se relativi ad imprese in amministrazione straordinaria o gruppi di imprese di rilevante dimensione, la competenza viene attribuita al tribunale sede della sezione specializzata in materia di imprese nel cui distretto si colloca il centro degli interessi principali del debitore;
La norma compie un sostanziale riferimento al c.d. COMI (centre of main interests), concetto già conosciuto in ambito comunitario. Infatti, già il Reg. CE 1346/2000 sulle procedure di insolvenza transfrontaliere si preoccupava di dettare le disposizioni sul potenziale conflitto di giurisdizione e sulla individuazione della legge applicabile facendo riferimento al criterio del COMI, generalmente inteso dalla giurisprudenza, ai fini della individuazione della competenza del giudice, come il luogo in cui il debitore esercita in modo abituale e riconoscibile dai terzi la gestione dei suoi interessi (in questo senso, nella giurisprudenza sovranazionale, possono citarsi la causa C 241/04 - Eurofood, causa C 396/09 - Interedil, causa C 191/10 - Rastelli). Tale nozione è stata espressamente ribadita e definita dal successivo Reg. UE 848/2015, il cui art. 3.1 afferma che "sono competenti ad aprire la procedura d'insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore (procedura principale di insolvenza). Il centro degli interessi principali è il luogo in cui il debitore esercita la gestione dei suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi”. In detto regolamento si prevede, altresì che per le società e le persone giuridiche vale la presunzione (già applicata nella precedente formulazione della norma) per cui il COMI coincide con il luogo in cui si trova la sede legale dell’impresa, precisandosi che, ove detta sede sia stata spostata in un altro Stato membro nei tre mesi antecedenti la domanda di apertura della procedura di insolvenza, l’originaria presunzione non opera e la verifica andrà effettuata in concreto.
Il concetto di COMI ha certamente influenzato anche il legislatore della riforma, posto che il co. 3 del già citato art. 27 CCI precisa che il centro degli interessi principali del debitore si presume – salvo prova contraria - coincidente:
- per la persona fisica esercente l’attività di impresa con la sede legale risultante dal registro delle imprese o, in mancanza, con la sede effettiva dell’attività abituale;
L’art. 286 CCI, con specifico riferimento ai gruppi di imprese, ci dice poi che se le imprese appartenenti al gruppo hanno il proprio centro degli interessi principali in circoscrizioni giudiziarie diverse, allora si farà riferimento al COMI della società o ente o persona fisica che esercita l’attività di direzione e coordinamento, oppure, in mancanza, a quello dell’impresa che in base all’ultimo bilancio approvato presenta la maggiore esposizione debitoria.
L’art. 286 deve naturalmente essere combinato con l’art. 27 già citato, non soltanto per quanto riguarda la definizione di COMI, ma anche nel senso che quando si tratti di un gruppo di imprese di rilevante dimensione prima si individuerà la località in cui la prima norma porterebbe la competenza territoriale, quindi, in base alla seconda, si individuerà nell’ufficio giudiziario ove sorge la sezione specializzata per le imprese competente su detta località, tale essendo l’A.G. destinata a trattare il procedimento concorsuale unitario.
Tali disposizioni hanno il pregio di superare molte delle incertezze e delle problematiche che si ponevano in assenza di una disciplina positiva, posto che ignorare o ritenere inammissibile un unico procedimento concorsuale per le stesse imprese di un unico gruppo significava non soltanto imporre de facto ricorsi formalmente distinti per ciascuna di esse, ma demandare il deposito degli stessi – se relativi ad imprese con sede non coincidente - avanti a diversi tribunali, così impedendo in radice di perseguire obiettivi di coordinamento e maggiore efficienza reciproca.
Si ricorda, al riguardo, che Cass. civ., sez. I, 19 luglio 2012, n. 12557 (in Guida diritto 2012, 41, 57) aveva affermato che la competenza territoriale per la dichiarazione di fallimento della società si radica, ai sensi dell’art. 9 L. fall., presso la sede legale della società medesima, dovendosi presumere che essa sia anche la sede effettiva, salva prova contraria ad onere della parte che afferma la competenza di un diverso foro; inoltre, tale decisione aveva aggiunto, ai fini della prova contraria, che non è sufficiente allegare che la sede effettiva della società fallenda si trovi nel luogo in cui è il centro direttivo del gruppo del quale la società medesima fa parte, atteso che il collegamento societario, se non mette capo a una direzione unitaria delle singole imprese, non sposta l’attività direttiva, amministrativa e organizzativa di ciascuna impresa partecipante.
Con le nuove disposizioni l’incertezza in ordine alla prova volta a superare la presunzione di coincidenza della sede legale con la sede effettiva viene meno: l’appartenenza al gruppo e – deve aggiungersi – il fatto che la procedura concorsuale riguardi più imprese del gruppo è sufficiente a radicare il procedimento avanti al tribunale competente in relazione al COMI della capogruppo. Non sembra invece che il nuovo criterio di radicamento della competenza possa operare quando la procedura riguardi una sola impresa appartenente al gruppo, proprio perché in questo caso tale appartenenza resta per così dire “sullo sfondo”, non rilevando in modo diretto dal punto di vista processuale, né essendovi in concreto quelle esigenze di coordinamento processuale fra più procedimenti (cui è del resto connaturata l’esigenza, di cui si dirà, della nomina unitaria di organi).
Resta aperto il dubbio se la regola di cui all’art. 287 co. 4 CCI (basato sul criterio della prevenzione), oltre che riguardare il caso di più domande di liquidazione riguardanti società del gruppo aventi sede in circoscrizioni diverse, possa essere estesa al conflitto fra domanda di concordato/domanda di liquidazione. A tale proposito va ricordato che Cass. sez. VI, 15 Luglio 2016, n. 14518 (in Giust. Civ. Mass. 2016) ha parlato di un rapporto di continenza per specularità, potendo perciò trovare applicazione le disposizioni dettate dall'art. 39, comma 2, c.p.c., non stabilendo l'art. 161 L. fall. l'inderogabilità della competenza territoriale ivi prevista per la domanda suddetta. A parere dello scrivente tale regola regge fin tanto che la competenza territoriale sulla domanda di fallimento proposta per prima è collegata alla sede reale ed effettiva, non potendo altrimenti “attrarre” anche la cognizione sulla domanda di concordata proposta avanti diverso giudice.
La norma tradisce poi l’esigenza di tutelare l’effettivo consenso ed il patrimonio informativo a disposizione dei creditori:
a) da un lato, come avvertito, la domanda di accesso ad una delle citate misure di regolazione della crisi deve espressamente indicare che si tratta di un piano unitario o di piani collegati, così da rendere evidente ai creditori che le loro valutazioni debbono appunto estendersi alla verifica di dati relativi ad una pluralità di imprese;
b) dall’altro, la domanda deve essere motivata con riguardo al perseguimento, attraverso le modalità di presentazione congiunta o unitaria, del migliore interesse dei creditori, vera e propria clausola generale dell’attuale e (prossimo) futuro sistema della concorsualità;
c) ancora, la domanda deve fornire informazioni analitiche – quindi non generiche o prive di un addentellato concreto alla crisi ed alle imprese coinvolte – sulla struttura del gruppo, nonché sui vincoli partecipativi e contrattuali esistenti fra le imprese, allegando se predisposto il bilancio consolidato; tale ultima prescrizione è poi rafforzata dal successivo art. 289 CCI.
Analoghe indicazioni sono richieste anche per il piano attestato unitario od i piani collegati di risanamento (su cui taluno ha osservato esistere un possibile eccesso di delega), con la prescrizione che essi devono risultare idonei a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria di ciascuna impresa ed assicurare il riequilibrio complessivo della situazione finanziaria di ognuna.
Tale ultima precisazione rappresenta la plastica applicazione di un principio generale contenuto sia nella legge delega (e già peraltro affermato dalla giurisprudenza di legittimità), relativo alla necessità che l’unitarietà o la reciproca interferenza e collegamento fra i piani lasci intatta l’autonomia delle rispettive masse attive e passive di ciascuna impresa. Tale scelta è consustanziale, peraltro, al fatto che la nozione di gruppo non determina di per sé la nascita di un nuovo ed unitario soggetto giuridico ma, pur con le reciproche influenze e condizionamenti, si assiste alla permanenza in vita di più soggetti giuridici autonomi, eventualmente sottoposti a direzione e coordinamento da parte di una impresa-madre. Ciò che determina, a sua volta, l’esigenza che per ciascuna impresa debitrice del gruppo coinvolto dalla procedura concorsuale si debba verificare la propria e specifica massa attiva e passiva, in relazione al paradigma generale della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c. ed alla necessità di verificare il gradimento dei creditori con riferimento a ciascun soggetto debitore.
Naturalmente questo non impone il necessario coinvolgimento di tutte le imprese del gruppo nell’operazione complessiva di tournaround ma soltanto di quelle in stato di crisi o di insolvenza, pur se nulla esclude che altre imprese sane del gruppo possano svolgere il ruolo di soggetti finanziatori, datori di “finanza esterna” e persino di assuntori (vds. come forma di esempio di questa possibilità l’art. 85 co. 4 CCI).
Peraltro, rispetto a questa tipologia di piano concordatario unitario (o di piani fra loro reciprocamente interferenti e collegati) valgono pur sempre le norme generali previste per il concordato preventivo o per l’accordo di ristrutturazione, desumendosene ad esempio l’atipicità della proposta concordataria di gruppo (art. 84 co. 3), la possibilità di sottoporre a falcidia i creditori privilegiati purchè ad essi non sia offerto un trattamento deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria (che ai sensi dell’art. 84 co. 7 dovrà tenere conto del valore di mercato del bene o diritto su cui si esercita la prelazione detratte le spese di procedura specifiche ed una quota di quelle generali). Del pari si applicheranno le ipotesi di classamento obbligatorio (e particolare interesse sembra in questa sede rivestire la necessità che siano collocate in classe autonoma i creditori proponenti il concordato o le parti ad essi correlate di cui all’art. 85 co. 5 CCI, sia pure da coordinare con l’esclusione dal voto disposta dall’art. 286 co. 6).
Parimenti applicabile appare, poi, la moratoria biennale imposta ai creditori privilegiati del cui bene gravato da causa di prelazione non sia prevista la liquidazione (art. 86). Proprio a questo riguardo va evidenziato come la rubrica della norma parli espressamente di “moratoria nel concordato in continuità”, pur se il testo successivo si apra semplicemente con la parola “piano” senza alcuna aggettivazione. La necessità di dare coerenza al testo normativo rispetto alla esplicita rubrica, la ragione di continuità rispetto all’attuale moratoria annuale prevista dall’art. 186 bis L. fall. e la puntuale relazione di accompagnamento inducono comunque a ritenere l’interrogativo come puramente teorico: la nuova moratoria biennale si applica soltanto al concordato in continuità. Afferma la relazione di accompagnamento, del resto, che “al fine di consentire al debitore di non impegnare immediatamente, come dovrebbe in mancanza della presente disposizione, le utilità derivanti dalla continuità aziendale nel pagamento -integrale o per la parte coperta dal valore del bene su cui grava la garanzia (si tratta, ovviamente, dei beni dei quali non è prevista la liquidazione)- dei creditori il cui credito è assistito da privilegio o garantito da pegno o ipoteca, ma di utilizzarle per la gestione dell’impresa, è previsto che il debitore possa usufruire di una moratoria della durata massima di due anni, anziché di un anno, come già disposto dall’art. 186-bis, secondo comma, R.D. n.267 del 1942, dalla data dell’omologazione”.
Tale disposizione, come altre particolarmente rilevanti ai fini di incentivare il ricorso a misure che permettano la prosecuzione dell’attività aziendale, pone il problema della individuazione della natura della proposta, considerato che l’art. 285 CCI precisa che il piano unitario od i piani concordatari di gruppo possono prevedere sia la liquidazione di alcune imprese, che la continuazione dell’attività di altre imprese dello stesso gruppo. Il che conferisce alla soluzione unitaria o reciprocamente collegata una duttilità che altrimenti avrebbe dovuto essere perseguita necessariamente attraverso ricorsi distinti, con il rischio di scollamenti e discrasie temporali, oltre che un sicuro aumento dei costi complessivi.
Del tutto opportunamente, quindi, lo stesso art. 285 co. 1 CCI precisa che “si applica tuttavia la sola disciplina del concordato in continuità quando, confrontando i flussi complessivi derivanti dalla continuazione dell’attività con i flussi complessivi derivanti dalla liquidazione, risulta che i creditori delle imprese di gruppo sono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretto o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino”.
Si tratta di un forte incentivo alla soluzione di gruppo: mantenendo infatti distinti i ricorsi, la valutazione sulla natura liquidatoria o in continuità si svolgerà inevitabilmente in modo atomistico per ciascuna proposta, avuto riguardo ai criteri dettati dall’art. 84 cit. Nel caso della soluzione di gruppo, invece, si potrà “lucrare” una qualificazione assorbente dell’intero piano in termini di continuità attraverso una valutazione unitaria. In altri termini, alla soluzione liquidatoria prevista per una delle imprese del gruppo continuano ad applicarsi le sole disposizioni in tema di concordato in continuità se la stessa si inserisce in una più ampia proposta unitaria o collegata di gruppo nella quale, ad esempio, altra impresa generante maggiori flussi prosegue la propria attività caratteristica. Il che porta a ritenere che la soluzione liquidatoria, in caso atomistico debba rispettare la “spada di damocle” delle percentuali minime di soddisfacimento dei creditori chirografari e dell’apporto esterno di cui all’art. 84 ult. co., mentre sia esentata da tale “onerosa” soglia minima di soddisfacimento nel caso di proposta unitaria. Naturalmente in quest’ultimo caso occorrerà che la valutazione complessiva di convenienza sia comunque motivata, come si è detto all’inizio del paragrafo.
Appare comunque rilevante compiere sin da ora due annotazioni:
a) nel caso di concordato di gruppo la valutazione di prevalenza complessiva dei flussi derivanti dalla prosecuzione dell’attività piuttosto che dalla liquidazione è formulata in termini di prevalenza assoluta: non sono infatti contemplate – e forse su questo punto si può esprimere un rammarico – quelle presunzioni di continuità che l’art. 84 comunque consente a difesa dei livelli occupazionali;
b) nei flussi della liquidazione non sono compresi i proventi derivanti dalla cessione del magazzino, con una disposizione che probabilmente minus dixit quam voluit, dovendosi ritenere che “magazzino” possa avere qui il significato di “rimanenze” e di vendita dei prodotti o dei servizi che l’impresa detiene temporaneamente in vista della cessione a terzi ordinaria; l’impresa in continuità non è una realtà statica, ma è destinata a sopravvivere unicamente se opera per ed in funzione del mercato, sì che deve ritenersi – ad esempio - che ove ordinariamente venda auto, i veicoli in magazzino o comunque non ancora ceduti a terzi, anche se in corso di completamento, non genereranno flussi incidenti sul “piatto” della liquidazione, bensì sul versante della continuità, ed analogamente dovrà dirsi per gli immobili od i cantieri di una società operante nel settore immobiliare o delle costruzioni in genere.
Il piano unitario od i piani collegati di gruppo, ancora, possono inoltre prevedere, dal punto di vista contenutistico, operazioni contrattuali e riorganizzative, trasferimenti di risorse infragruppo, purché attestate da un professionista indipendente, il quale dovrà analizzare: a) la necessità delle stesse ai fini della continuità aziendale (per come formulata la disposizione parrebbe anche se prevista in via residuale per una o più imprese del gruppo e, quindi, anche se il piano nel suo complesso non può qualificarsi in continuità); purché b) le stesse siano coerenti con l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese (e su questo la norma sembra esplicitamente consentire taluni sacrifici ai creditori di alcune imprese a vantaggio di tutti gli altri complessivamente intesi).
Nel concordato preventivo solo i creditori dissenzienti appartenenti ad una classe dissenziente o i creditori dissenzienti che rappresentino almeno il 20% dei creditori ammessi al voto per una singola società (deve ritenersi soltanto di quella asseritamente “danneggiata” dall’operazione e non di una qualsiasi società del gruppo, potendo difettare altrimenti un concreto interesse ad agire) possono contestare il carattere pregiudizievole di dette operazioni, attraverso l’opposizione alla omologazione.
Analogamente tale pregiudizio può essere fatto valere solo dai creditori non aderenti nell’accordo di ristrutturazione, attraverso l’opposizione alla sua omologazione.
Tale situazione determina il c.d. cram down e la necessità di una valutazione di convenienza complessiva del piano o dei piani collegati rispetto all’alternativa liquidatoria della singola società asseritamente “pregiudicata”.
Innovativa è la previsione che anche i soci si possono dolere del carattere pregiudizievole di dette operazioni, ma soltanto attraverso l’opposizione alla omologazione del concordato. A questo proposito, tuttavia, la norma compie un esplicito omaggio alla teoria dei “vantaggi compensativi” affermando che il tribunale procede comunque all’omologazione in ragione del loro apporto alle singole società del gruppo da parte del piano di gruppo. Si deve infatti ricordare che l’art. 2497 c.c., dopo aver affermato la responsabilità per abuso di direzione e coordinamento, prevede che “non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette”. Poiché la norma fa riferimento ai vantaggi compensativi derivanti “dal piano di gruppo” deve ritenersi che la venuta ad esistenza di questi vantaggi non debba essere necessariamente immediata, ma si possa produrre anche in seguito, purché entro il termine fissato per l’adempimento della proposta e la completa esecuzione del piano. Ciò significa, almeno a parere di chi scrive, che il pregiudizio può effettivamente emergere e non essere immediatamente eliso, purché detto vantaggio compensativo seppure futuro non sia del tutto eventuale, ma possa ritenersi ragionevolmente certo e tale da poter essere oggetto della specifica attestazione richiesta dall’art. 285 cit.
E' interessante osservare come in altro settore della crisi, questa volta da sovraindebitamento, l’ammissibilità di procedure familiari abbia imposto – fatte le debite proporzioni - analoghe forme di coordinamento, prevedendosi all’art. 66 CCI la possibilità di presentare un unico progetto di risoluzione della crisi per i membri della stessa famiglia, da parte di un unico organismo di composizione della crisi, cui pure spetta un compenso unitario, ma ripartito fra i membri ricorrenti in proporzione all’entità dei debiti di ciascuno (soluzione quest’ultima che può rivelarsi non sempre efficiente, facendo gravare costi prededucibili in proporzione più elevati sul soggetto maggiormente sovraindebitato piuttosto che su quello “dotato” di più attivo).
Al commissario giudiziale della procedura di gruppo (che naturalmente può anche essere un collegio di professionisti, specie nei procedimenti più complessi, purché ciò non comporti un aumento dei relativi costi) spettano poteri di informazione verso la CONSOB o altre pubbliche autorità o società fiduciarie, volti a ricostruire l’effettiva ramificazione dei collegamenti infragruppo e la reale attribuibilità delle partecipazioni. Si deve ritenere che quanto accertato debba entrare a pieno titolo nel contenuto della relazione ex art. 172 L. fall. e che, con riferimento alla indicazione di azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie esperibili nell’alternativa liquidatoria (cfr. art. 105 co. 2 CCI), il commissario debba anche indagare in ordine alla sussistenza di eventuali azioni di responsabilità per abuso di direzione e coordinamento (sulla cui legittimazione in caso di liquidazione vds. art. 291), come pure l’esistenza di atti revocabili, tenendo conto in proposito di quanto previsto dall’art. 290 CCI (azioni di inefficacia fra imprese del gruppo). Si è scritto che, seppur nel silenzio della legge, la relazione del commissario (equivalente all’attuale art. 172 L. fall.) debba essere sempre unica. In realtà proprio il silenzio della norma sul punto impone più che una unicità cartolare una unitarietà di considerazioni, che lasciano intatta la distinzione di molte altre valutazioni (si pensi alle parti in cui il commissario sottopone a revisione i valori dell’attivo e del passivo, anche al fine di individuare i creditori ammessi al voto, operazioni che debbono essere svolte con riferimento a ciascuna singola società coinvolta dal concordato “di gruppo”).
A tal punto i creditori di ciascuna impresa del gruppo sottoposta a procedura sono chiamati a votare simultaneamente - ma separatamente - sulla proposta presentata dalla società loro debitrice. In altri termini, il conteggio appare operato non in modo complessivo ma rispetto all’entità dei creditori ammessi al voto per ciascuna impresa debitrice, dovendo valutarsi per ciascuna il raggiungimento o meno delle maggioranze, per importo e per classe (queste ultime se previste). Il che rappresenta, del resto, un riflesso della distinzione delle masse passive che il legislatore delegante e, prima ancora, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto costituire un principio irrinunciabile.
E’ poi prevista, sempre a questo riguardo, l’esclusione dal voto per i crediti di altre società del gruppo, mentre la risoluzione e l’annullamento sono ispirate alle regole comuni in tema di invalidità parziale (cfr. ad es. art. 1419 c.c.): la risoluzione o l’annullamento del concordato di gruppo non si verificano quando i relativi presupposti riguardano solo una o più società del gruppo, a meno che ciò determini una significativa compromissione circa le possibilità di attuazione del piano anche nei confronti delle altre imprese. In altri termini non vale – a meno che la proposta non sia così congegnata – una regola ispirata al principio simul stabunt simul cadent, ma la patologia riguardante la crisi di una società del gruppo si riverbererà sulle altre soltanto quando venga così compromessa la possibilità di adempimento anche delle altre imprese del gruppo coinvolte del piano o dai piani coordinati. Le applicazioni giurisprudenziali daranno la concreta interpretazione dell’espressione “significativa compromissione”; quel che può tuttavia fin da ora osservarsi è che il legislatore si è preoccupato di evitare che qualunque inadempimento riguardante la proposta di una singola società del gruppo possa riverberarsi sull’intero concordato di gruppo, privilegiando un’ottica di stabilità e conservazione destinato a venire meno soltanto nel caso in cui l’inadempimento ad una proposta renda irrealizzabile o crei un più complessivo inadempimento più generale della proposta complessivamente considerata.
Dal punto di vista degli effetti della crisi di gruppo è poi importante ricordare l’art. 292 CCI che, in primo luogo, ribadisce la regola della postergazione per i crediti che il soggetto capo gruppo vanta nei confronti delle imprese sottoposte a direzione e coordinamento sorti, anche per escussione di garanzie, dopo il deposito della domanda che ha dato luogo all’apertura della liquidazione giudiziale o nell’anno anteriore. Gli eventuali rimborsi avvenuti nell’anno anteriore devono ritenersi inefficaci, ai sensi del nuovo art. 164 CCI. Tali disposizioni, precisa però la norma, non si applicano ai finanziamenti di cui all’art. 102 (che riguarda i finanziamenti erogati dai soci, tanto anteriormente alla omologazione che in esecuzione del concordato omologato, ma nei limiti dell’ottanta per cento del loro ammontare).
Da ricordare, infine, come anche la liquidazione giudiziale di gruppo riceva alcune disposizioni ad hoc, essenzialmente concentrate nell’art. 287 CCI, prevedendo in primo luogo l’esigenza di procedere alla nomina di un solo G.D. e di un unico Curatore, conservando invece la necessità di Comitati dei creditori distinti per ciascuna impresa del gruppo. Tale regola, tuttavia, non è tassativa, consentendosi soluzioni diverse quando sussistano specifiche ragioni (si pensi al caso in cui le masse passive siano pressoché coincidenti e, quindi, non vi sia una reale necessità di garantire attraverso distinti comitati una autonoma rappresentatività ai creditori delle diverse masse passive).
Il programma di liquidazione dovrà naturalmente tenere conto degli attivi delle diverse imprese insolventi appartenenti allo stesso gruppo, mentre le spese generali (fra cui deve ritenersi il compenso del curatore) dovrà essere imputato proporzionalmente alle singole imprese decotte, in proporzione, anche in questo caso, dell’attivo di ciascuna.
Al curatore è inoltre affidato il compito di sollecitare gli organi di amministrazione e controllo laddove si avveda che un’impresa del gruppo, pure insolvente, non risulta ancora sottoposta alla procedura di liquidazione giudiziale, ovvero di promuovere egli stesso il relativo procedimento di accertamento (deve ritenersi, a fronte della natura speciale della disposizione e del principio di conservazione del testo normativo, altrimenti superfluo, che tale potere spetti anche laddove la impresa in liquidazione giudiziale non sia creditrice della società insolvente ed ancora non sottoposta a procedura concorsuale).
La competenza, come già si è in parte rilevato, è regolata dall’art. 287 CCI secondo principio di prevenzione e, in caso di pluralità di istanze pendenti, dal COMI dell’impresa che esercita l’attività di direzione o coordinamento, sia essa una società o una persona fisica. Nel caso in cui la competenza resti fissata su diverse circoscrizioni e dia perciò luogo a procedure formalmente distinte, l’art. 288 CCI pone una più generale regola di necessaria cooperazione, al fine di facilitare la gestione più efficace delle stesse.
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* Il saggio è edito in Commento al Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, Collana "I Quaderni di In executivis", a cura di C. D’Arrigo, L. De Simone, F. Di Marzio e S. Leuzzi, Aprile 2019.