Va premesso che la descritta problematica non si presenta nei casi in cui l’attivo da distribuire scaturisca dalla liquidazione di beni, mobili o immobili, non gravati da pegno, ipoteca o privilegio speciale. E nemmeno nei casi in cui l’attivo provenga dalla realizzazione di risorse diverse da quelle derivanti dalla liquidazione di beni materiali, come nelle ipotesi, ad esempio, in cui vi sono riscossioni di crediti da soggetti terzi, legati da rapporti negoziali a suo tempo contratti dall’imprenditore, oppure ricavate all’esito di azioni risarcitorie intraprese dal curatore.
In tutti questi casi, in cui l’attivo risulta “libero” da prelazioni specifiche, la distribuzione delle somme dovrà seguire l’ordine indicato dall’art. 221 CCII (che ha sostituito l’art. 111 L. fall.) e, al riguardo, il curatore non dovrebbe incontrare particolari difficoltà. Per cui, le liquidità a sua disposizione verranno destinate al pagamento dei creditori prededucibili, privilegiati, chirografari e postergati - l’introduzione di questa categoria rappresenta una novità rispetto alla legge fallimentare – gradualmente utilizzando l’attivo a disposizione, per soddisfare, sino ad esaurire ciascuna categoria, i creditori ammessi al passivo.
In simili casi, le prededuzioni trovano pertanto una soddisfazione primaria e indistinta su tutto l’attivo.
Inoltre, in questi casi il curatore non sarà chiamato ad individuare le tipologie delle prededuzioni facenti parte del passivo, a stabilire cioè se le stesse siano annoverabili fra le “spese” (art. 223, comma 3, CCII) o, invece, fra gli “altri debiti” (art. 222, comma 2, CCII) 201 contratti per la gestione dalla procedura. Un distinguo che si pone, come vedremo, solo in presenza di beni gravati.
Al più, ove l’attivo risulti insufficiente a soddisfarle, il curatore sarà chiamato a verificare la natura intrinseca delle prededuzioni – privilegiata o chirografaria - attenendosi al contenuto dei provvedimenti di ammissione al passivo. La norma che disciplina questo tipo di incapienza è l’art. 222, comma 4, CCII, che pone la regola, già presente nella legge fallimentare, secondo cui “Se l’attivo è insufficiente, la distribuzione deve avvenire secondo i criteri della graduazione e della proporzionalità, conformemente all’ordine assegnato dalla legge”; in tali casi, pertanto, si apre un concorso nell’ambito dei creditori prededucibili, ancorché essi non siano stricto sensu “concorsuali” non avendo sempre genesi anteriore alla dichiarazione di liquidazione giudiziale.
Le operazioni di riparto assumono invece maggior complessità nei casi – d’interesse per la presente indagine – in cui le risorse derivano dalla liquidazione di beni gravati da ipoteche, pegno o privilegio speciale.
Qui la regola da seguire è dettata – oggi più chiaramente che in passato – dal combinato disposto degli artt. 222, comma 2 e 223, comma 3, CCII, norme che hanno sostanzialmente riproposto, agli stessi commi, gli artt. 111 bis e 111 ter della legge fallimentare.
Le due disposizioni. in verità, sembrerebbero essere in contraddizione fra loro, ma si tratta, come da tempo chiarito da autorevole dottrina[1], di un contrasto solo apparente.
La prima disposizione (art. 222, comma 2, CCII, art. 111 bis, comma 2, L. fall.) detta la regola secondo cui le prededuzioni vanno soddisfatte con il ricavato della liquidazione dei beni facenti parte sia del patrimonio mobiliare che di quello immobiliare, con esclusione di quanto ricavato da quelli gravati da prelazioni speciali. Sembrerebbe, quindi, che tale tipologia di prelazioni non possa mai essere incisa dal pagamento dei crediti prededucibili.
La norma successiva (art. 223, comma 3, CCII, art. 111 ter, comma 3, L. fall.), stabilisce però che il curatore deve tenere dei conti speciali per ciascuno dei beni gravati dalla prelazione speciale, detraendo dall’attivo, ottenuto dalla loro liquidazione e maggiorato da eventuali altre voci (interessi attivi, frutti civili etc.), “le uscite di carattere specifico” e una “quota di quelle generali”.
Sennonché, le uscite – parola che è sinonimo di “spesa” – sono a tutti gli effetti anch’esse debiti prededucibili, trattandosi di costi inerenti la procedura maturati a vario titolo o ragione, e quindi non sarebbe a quel punto più vero che le prededuzioni non gravano per nulla su tale ricavato come invece farebbe intendere l’art. 222, comma 2, CCII.
Per cui, da un lato, si afferma che nessuna prededuzione potrebbe gravare sui beni oggetto di pegno, ipoteca o privilegio speciale (art. 222, comma 2, CCII), e, dall’altro, si stabilisce che le spese prededucibili, specifiche o generali, debbono essere soddisfatte attingendo proprio al valore ricavato dalla liquidazione di detti beni.
Si tratta di una contraddizione – come si diceva – solo apparente.
Infatti, come chiarito anche in una recente pronuncia di legittimità[2], la prima regola (art. 222, comma 2, CCII) non stabilisce che tutti i crediti prededucibili sono esclusi dal ricavato della vendita dei beni oggetto di pegno, ipoteca o privilegio speciale, ma semplicemente che sul ricavato di questi ultimi incidono soltanto quelli che hanno natura di spesa, speciale o generale. Letteralmente, l’art. 222, comma 2, CCII esclude le prededuzioni sulla “parte destinata ai creditori garantiti”, e ciò vuol dire che ad essi è riservato il ricavo al netto delle spese (rectius, prededuzioni) di riferimento.
Il coordinamento fra le disposizioni è oggi meglio chiarito rispetto alle norme contenute nella legge fallimentare, perché la prima disposizione ha inserito l'inequivocabile inciso, valorizzato anche dalla pronuncia appena ricordata, “salvo quanto previsto dall’art. 223”; salve cioè le spese prededucibili addebitabili in base ai conti speciali, per cui appare superato ogni possibile equivoco al riguardo.
Non solo le due norme indicano basi di calcolo diverse e non sovrapponibili su cui operare il conteggio del riparto, ma operano anche un distinguo nel mondo delle prededuzioni. Infatti, come da tempo segnalato in dottrina[3], vanno differenziati le “spese” dagli “altri debiti”; entrambe le tipologie appartengono al genus delle prededuzioni, ma hanno un’origine e una destinazione diverse.
La regola decisa dal legislatore sul trattamento dei crediti muniti di prelazione speciale, trova il suo fondamento nella circostanza oggettiva che questi creditori non traggono particolare vantaggio dall’esecuzione collettiva, atteso che la realizzazione della loro garanzia sarebbe comunque assicurata nell’esecuzione individuale; ciò giustifica il fatto che, le altre prededuzioni che in essa maturano e che attengono per lo più a costi di gestione, non possono essergli addebitate[4].
Tale premessa è sembrata indispensabile per approcciare il tema che ci siamo assegnati - la soddisfazione nella liquidazione giudiziale dei crediti professionali maturati nella precedente procedura di concordato preventivo - atteso che va preliminarmente stabilito se tali crediti, una volta ammessi al passivo, debbono essere inclusi nell’una o nell’altra categoria; la scelta incide non poco in termini di concreta soddisfazione degli stessi.
Prima ancora di articolare una risposta, occorre soffermarsi sui concetti di “uscite (spese) di carattere specifico” e di “uscite (spese) di carattere generale” nel senso voluto dall’art. 223, comma 3, CCII e come debbono svilupparsi i conti speciali di cui alla norma.
Questi concetti sono tipici della contabilità analitica, dove ai fini della costruzione di un efficiente sistema di controllo di gestione è necessario dividere i costi speciali, attribuibili in maniera oggettiva al singolo centro di costo o di prodotto, dai costi comuni, per i quali è necessario scegliere un criterio di riparto in base al quale procedere all’imputazione di una quota ai singoli centro di costo o di prodotto.
La costruzione dei conti speciali è pensata come una sorta di “mastro contabile”, dove nella colonna “dare” devono essere considerate le voci dell’attivo (ricavato della liquidazione del bene + interessi bancari attivi + frutti civili etc.[5]) e, nella colonna “avere”, le poste passive aventi carattere specifico e generale.
Quanto alle spese specifiche, se ipotizziamo di aver liquidato un bene immobile ipotecato (ipotesi fra le più consuete), dovranno essere imputate (a titolo esemplificativo): le spese dello stimatore di quel bene, quelle dell’eventuale custodia, l’IMU, le spese legali sostenute per il rilascio, quelle pagate per l’intervento nell’esecuzione fondiaria, le riparazioni, i costi pubblicitari sostenuti per la procedura competitiva e così via.
Quanto alle spese generali, invece, sono quelle inerenti la procedura nella sua interezza e quindi (sempre a titolo esemplificativo): il compenso del curatore, i costi del programma per la gestione telematica, il compenso dell’ausiliario contabile et similia.
Mentre le prime (speciali) hanno un’imputazione integrale sul ricavato del bene gravato, le seconde (generali) incidono su di esso solo proporzionalmente. Il criterio proporzionale, ricavabile dal rapporto tra le masse attive mobiliare e immobiliare, è stato introdotto dal legislatore con la riforma 2006-2007, per risolvere una difficoltà che la giurisprudenza incontrava in simili casi. Infatti, in assenza di una precisa regola distributiva per tali tipologie di spesa, si ricorreva al criterio della “utilità”[6]; per cui, di volta in volta, si doveva indagare se una certa spesa si fosse rivelata effettivamente utile per il creditore titolare della prelazione speciale e, in difetto, non gli si poteva addebitare il relativo costo. Un’indagine non sempre agevole che aveva alimentato un costante contrasto – si pensi ai casi di esecuzione fondiaria, proseguibile a prescindere dalla procedura concorsuale in deroga al divieto dell’art. 51 L. fall., dove il creditore ipotecario contestava appunto l’esistenza di una utilità per la sua posizione - che il legislatore della riforma 2006-2007 ha deciso di dirimere prevedendo un’equa distribuzione del monte costi generali fra le due masse, mobiliare e immobiliare, sulla base di una proporzione basata sul rispettivo valore.
Le regole del riparto sopra sinteticamente ricordate, si ritiene valgano per tutte le procedure concorsuali, anche ove non espressamente richiamate[7]. Quindi anche nei casi del concordato preventivo liquidatorio (artt. 84 segg. del CCII), del concordato semplificato (art. 25 sexies CCII) e del sovraindebitamento[8].
Una tale conclusione è oggi confortata dall’art. 84, comma 5, CCII, il quale, nel disciplinare la regola dell’incapienza nel concordato preventivo, precisa che il valore del bene utilizzabile nel piano è quello di mercato “al netto delle spese di procedura inerenti al bene o diritto e della quota parte delle spese generali”. Si chiede quindi allo stimatore di ricavare il valore liquidatorio del bene (o dei beni) prefigurando un piano di riparto con incidenza delle prededuzioni, al pari di quanto previsto nella liquidazione giudiziale.
Aspetto finale, che non si può trascurare in una riflessione completa sull’argomento, è interrogarsi su cosa accade nelle ipotesi – non certo rare – in cui il ricavato immobiliare, gravato da ipoteca, rappresenta il prevalente, se non esclusivo, valore dell’attivo e se, nonostante ciò, sono state sostenute spese aventi natura mobiliare non computabili nel conto speciale di riferimento. Si pensi al caso di un’azione di recupero credito o di un’azione recuperatoria o risarcitoria rivelatesi infruttuose, i cui costi (legale, spese imposta di registro, etc.) vengono reclamati dagli aventi diritto e non vi è un attivo mobiliare a cui attingere.
Un problema che, in generale, si pone anche in tutti i casi in cui le spese contratte dal curatore o generatesi in conseguenza di sue iniziative, non possono essere assorbite nel comparto predisposto per la distribuzione dell’attivo disponibile.
In queste ipotesi sembra necessario distinguere due profili, uno “esterno” e l’altro “interno”.
Il primo riguarda i rapporti del curatore con i terzi, titolari dei crediti sorti in virtù degli incarichi affidati o per effetto di essi (spese di soccombenza, imposta di registro etc.). L’obbligazione sorta è civilisticamente valida, atteso che nessuna norma dell’ordinamento ne inficia l’efficacia. Ne consegue che ai titolari dei relativi crediti non può essere eccepita l’incapienza, in quanto non sussiste un “patrimonio destinato” o, se si preferisce, una “segregazione patrimoniale”, che legittimi una limitazione della responsabilità della massa verso i terzi. Le regole del riparto, e quelle ad esso preparatorie, hanno valenza esclusiva nell’ambito del concorso dei creditori.
I crediti dei terzi vanno quindi soddisfatti dal curatore con le liquidità a disposizione, ancorché, una volta ricostruiti i conti speciali, ne scaturisca una penalizzazione del creditore ipotecario (seguendo l’esempio fatto).
Questa conseguenza si verificherà indipendentemente da una valutazione sulla diligenza o sulla negligenza impiegata dal curatore nell’esercizio delle sue funzioni, oggi rinvenibile nell’art. 136, comma 1, CCII.
L’obbligazione sorge sia quando la stessa è stata assunta seguendo tutte le accortezze del caso, sia laddove l’iniziativa risulta essere stata promossa imprudentemente dalla curatela. Si pensi al caso di un’azione recuperatoria/risarcitoria verso soggetti ex ante privi di sufficiente garanzia patrimoniale[9]; in entrambi i casi sarà la massa a risponderne.
Una tale conclusione appare confortata anche dal tenore dell’art. 210, comma 1, CCII (che ripropone l’art. 103 L. fall.), il quale prevede che, quando il curatore “perde il possesso della cosa dopo averla acquisita”, quindi la smarrisce dopo averla inventariata, il titolare del diritto, che a quel punto non può più rivendicarla in natura, ha diritto di ottenerne il controvalore in prededuzione. Ne discende, che anche nei casi di palese colpa del curatore sarà la massa a dover patrimonialmente far fronte all’obbligazione sorta.
La valutazione del comportamento del curatore assumerà rilevanza invece sotto il profilo “interno”, quando cioè lo stesso verrà sottoposto all’attenzione dei creditori e del tribunale. Il momento della disamina del rendiconto (art. 231 CCII) diverrà cruciale, atteso che in quella sede i creditori (l’ipotecario, nell’esempio fatto) potranno evidenziare al giudice delegato e al tribunale i motivi di censura dell’operato del curatore sino a sollecitarne la revoca ed il promuovimento di una successiva azione di responsabilità (art. 136, comma 3, CCII).