In primo luogo, diversamente da quanto affermato dai giudici di merito, è lecito dubitare che il “risanamento di un’impresa” debba avvenire necessariamente tramite una prosecuzione dell’impresa in (“continuità diretta” o “indiretta”) escludendone un’ipotesi di liquidazione (totale o parziale). L’esclusione della possibilità di risanamento tramite liquidazione non si giustifica in base al disposto dell’art. 2 del D.L. 118/21 (ora art. 12 CCII) ai sensi del quale l’impresa che “si trovi in condizione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza” può chiedere la nomina dell’esperto quando “risulti ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa”. Anzi, il medesimo art. 2, comma 2, D.L. 118/21 prevede che “l’esperto agevola le trattative tra l’imprenditore, i creditori ed eventuali altri soggetti interessati al fine di individuare una soluzione per il superamento delle condizioni … [di squilibrio], anche mediante il trasferimento dell’azienda o rami di esso”[8]. Pertanto, tale norma conferma che la cessione dell’azienda (ipotesi di continuità indiretta) è solo uno dei modi possibili per conseguire il “risanamento” dell’impresa.
Depongono, invece, nel senso della possibilità di risanare l’impresa attraverso un piano di liquidazione (totale o parziale), le modalità di calcolo del test pratico sulla difficoltà del risanamento del debito previsto nella Sez. I del Decreto Ministeriale del 28 settembre 2021, adottato ai sensi dell’art. 3 del D.L. 118/21 (espressamente richiamato nel CCII dagli artt. 13, comma 2, e 17, comma 3, lett. b). Come noto, tale test correla la difficoltà del risanamento al numero di anni necessari al rimborso del debito dell’impresa che si ottiene dividendo in sintesi l’importo del debito da ristrutturare per i flussi di cassa annuali al servizio del rimborso del debito. Ebbene, a conferma della possibilità di addivenire ad una ristrutturazione del debito tramite liquidazione dei beni, tale test precisa nei criteri di calcolo dell’importo complessivo del debito da ristrutturare che quest’ultimo deve essere ridotto sia dei proventi della cessione dei cespiti dell’impresa (immobili, partecipazioni, impianti e macchinari oltre che di ramo di azienda) che dell’eventuale stralcio ipotizzabile con i creditori[9]. Parimenti, conferma indiretta della risanabilità dell’impresa (recte del debito dell’impresa) tramite ipotesi liquidatorie si ha anche nella parte in cui il D.M. 28 settembre 2021, di fronte ad un esito particolarmente negativo del test di risanabilità del debito dell’impresa, fa riferimento alla necessità di “iniziative in discontinuità” rispetto alla normale conduzione dell’attività d’impresa[10]. Benché non sia espressamente menzionata, è ragionevole che la liquidazione dell’impresa rientri in tali "iniziative di discontinuità”.
Ancora, coerente con il fatto che il piano possa essere liquidatorio è la previsione che la CNC sia applicabile anche ad imprese “insolventi”, condizione pacificamente distinta da quella di “crisi” e, in linea di principio, prodromica ad una liquidazione dell’impresa (più che ad una prosecuzione di attività in equilibrio economico-finanziario)[11]. L’art. 9 del D.L. 118/21 (art. 21 CCII) prevede, infatti, che: “Quando nel corso della composizione negoziata, risulta che l’imprenditore è insolvente ma esistono concrete prospettive di risanamento, lo stesso gestisce l’impresa nel prevalente interesse dei creditori…”. Parimenti, conferma del fatto che, in linea di principio, un’impresa “insolvente” possa accedere alla CNC si ha anche nell’art. 23 D.L. n. 118/21 (recepito in parte nell’art. 25-quinquies CCII) in cui si precisa che un’impresa non può accedere alla CNC “in pendenza del procedimento introdotto con domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione o con un ricorso per l’ammissione al concordato preventivo, anche ai sensi dell’art. 161, sesto comma, …” (procedimenti questi ultimi che presuppongono, tra l’altro, lo stato di insolvenza dell’impresa richiedente). Infine, il documento allegato al D.M. del 28 settembre 2021 prevede la possibilità che accedano alla CNC anche le imprese affette da “insolvenza reversibile” in cui la reversibilità è da intendersi come la possibilità di rendere il debito sostenibile tramite stralci o proventi della dismissione di azienda [12].
A ben vedere, quindi, l’applicazione del test pratico e i chiarimenti della lista di controllo del D.M. 28 settembre 2021 rendono evidente che nell’espressione, di per sé generica, “ragionevole perseguibilità del risanamento dell’impresa” di cui all’art 2 D.L. 118/21 (art. 12 CCII) debba, a seconda dei casi e, in particolare della gravità della crisi dell’istante, ricomprendersi tanto il risanamento dell’”impresa” tramite una sua prosecuzione (totale o parziale) della sua attività in “continuità diretta” o “indiretta” quanto il risanamento dell’”esposizione debitoria dell’impresa” tramite la soddisfazione dei creditori anche con i proventi della liquidazione dell’attività.
Neppure è vero che, da un punto di vista sistematico, la possibilità del risanamento dell’impresa (recte dell’esposizione debitoria dell’impresa) tramite un piano liquidatorio sia esclusa dalle soluzioni previste dall’art. 11 D.L. 118/21 (art. 23 CCII) come esito delle trattative (v. supra nota 6 e testo cui la nota si riferisce). Il piano liquidatorio non potrà certamente sfociare in un contratto con i creditori “idoneo ad assicurare la continuità aziendale per un periodo non inferiore a due anni” ex art. 11, comma 1, lett. a), D.L. 118/21 (art. 23, comma 1, lett. a), CCII). Un piano (in parte) liquidatorio potrebbe, invero, consentire all’impresa di sottoscrivere un accordo avente finalità anche (o prevalentemente) liquidatoria ex art. 11, comma 1, lett. c) (art. 23, comma 2, lett. c), CCII). L’utilizzabilità per finalità meramente liquidatorie degli accordi esecutivi di un piano attestato ex art. 67, comma 3, lett. d), L.F. (art. 56 CCII), è sempre stata dubbia in considerazione delle finalità dell’istituto di “assicurare il riequilibrio della situazione economico-finanziaria” (in aggiunta a “consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa”). Peraltro, facendo leva sull’aspetto meramente privatistico e ai casi di applicazione alle imprese “insolventi”, nella prassi, gli accordi esecutivi dei piani attestati sono stati applicati ad ipotesi di ristrutturazione del debito che comportavano anche una liquidazione dei beni e una ridotta prosecuzione dell’attività di impresa[13].
Un’applicazione meramente liquidatoria del “nuovo” accordo ex art. 23, comma 1, lett. c), CCII appare, inoltre, possibile in quanto l’art. 23 CCII distingue l’ipotesi in cui l’imprenditore predisponga un “piano attestato di risanamento di cui all’art. 56” (art. 23, comma 2, lett. a), CCII) da quella dell’”accordo sottoscritto dall’imprenditore, dai creditori e dall’esperto che produce gli effetti di cui agli articoli 166 comma 3 lett. d) e 324”, in relazione a cui si limita a specificare che “con la sottoscrizione dell’accordo l’esperto dà atto che il piano di risanamento appare coerente con la regolazione della crisi o dell’insolvenza” (art. 23, comma 2, lett. c), CCI). Pertanto, non si può escludere a priori la possibilità che tale ultimo sbocco delle trattative si riferisca all’ipotesi di un accordo che abbia unicamente gli effetti dell’esenzione da revocatoria previsti dall’art. 166, comma 3, lett. d), CCII senza dover comportare necessariamente il “riequilibrio della situazione economico finanziario” dell’impresa previsto dall’art. 56 CCII).
Certamente utilizzabile per finalità liquidatorie è la possibilità di chiedere l’omologa di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex artt. 57, 60 e 61 CCII (ex artt. 182-bis, 182-septies e 182-novies LF) (di seguito in breve “ADR”). Tale strumento, infatti, diversamente dal piano attestato ex art. 67 L.F. (art. 56 CCIII) non ha come finalità il “riequilibrio della situazione economico-finanziaria” ma unicamente “la ristrutturazione dei debiti” e, pertanto, ben può avere finalità liquidatorie (tra l’altro, beneficiando di una riduzione della percentuale dal 75% al 60% se il raggiungimento dell’accordo risulta dalla relazione finale dell’esperto) (art. 11, comma 2, D.L. 118/21 e art 23, comma 2, lett. b), CCII)[14].
Infine, l’orientamento giurisprudenziale di merito in questione appare eccessivamente rigido e foriero di applicazioni inique. Basti pensare che, secondo i giudici di merito sopracitati, le misure protettive dovrebbero essere confermate (e quindi garantire la possibilità di buon esito di trattative) in caso di piano di liquidazione che preveda la continuità indiretta tramite la cessione di rami di azienda, mentre non potrebbero essere confermate nel caso di piani di liquidazione che prevedono la cessione di beni fruttiferi che garantiscano flussi di cassa anche ingenti. Si pensi ad esempio ad un piano di liquidazione che preveda la cessione di immobili di pregio condotti in locazione, terreni di valore affittati o concessi in superficie a imprese produttrici di energie rinnovabili (quali parchi eolici o solari) o ancora importanti marchi o brevetti concessi in licenza a terzi. E’ evidente che, a seconda dei casi, la distinzione tra “ramo di azienda” e “bene fruttifero” rischi di essere alquanto labile e soprattutto di scarsa rilevanza da un punto di vista economico e finanziario.