Nelle scorse settimane su un noto quotidiano economico è apparsa l’intervista del Presidente della Commissione istituita dal Ministro della Giustizia per procedere alla verifica di quattro punti di criticità correlati alla entrata in vigore del codice della crisi. La Commissione doveva valutare se la data del 1° settembre 2021 prevista per l’entrata in vigore del codice della crisi fosse praticabile, se il testo del codice avesse bisogno di qualche ulteriore correzione prima della sua entrata in vigore, se fosse necessario adattarlo alla Direttiva dell’Unione Europea 1023 del 2019, se si potessero prevedere delle ulteriori misure utili a fronteggiare crisi imprenditoriali conseguenti alla emergenza pandemica.
La Commissione, sin dalla prima seduta, si è data la regola, ritengo doverosa, di riservatezza sul contenuto dei lavori; poiché è prossimo l’esame al Consiglio dei Ministri, ma ancora non è stato divulgato il testo dell’intervento normativo proposto al Governo, mi limiterò a svolgere alcune brevi considerazioni volte per ora a far comprendere la filosofia dell’intervento come proposto al Governo e ciò, anche, al fine di non dar fiato a considerazioni inesatte o a preconcetti giudizi; tutto ciò, però, nei limiti di quanto tratteggiato dalla Presidente Ilaria Pagni nelle sue dichiarazioni. L’esigenza di questa breve precisazione germina sia dalle notizie non del tutto appropriate apparse sulla stampa, sia da alcuni interventi a convegni, sia dall’acuto e ironico contributo di Danilo Galletti (È arrivato il venticello della controriforma? Così è, se vi pare, blog del Fallimentarista del 27 luglio 2021) che ha commentato l’intervista sopra ricordata.
Il titolo del pamphlet disvela l’evidente preoccupazione dell’inutile, e perciò pernicioso, differimento dell’entrata in vigore del codice della crisi, differimento che a dire dell’Autore sarebbe accompagnato da una controriforma che attenterebbe al sistema dell’allerta – quello voluto dal codice della crisi – condito dalla presenza del pubblico ministero sin dagli albori della manifestazione di crisi dell’impresa. Si viene così a dubitare della funzionalità di un facilitatore, con un paragone sarcastico (e perciò anche decisamente efficace) che evoca la fresca memoria dei Navigator.
Una chiosa preliminare si impone: non prenderò posizione ideologica “Codice sì / codice no” e ciò per una ragione molto semplice: il codice esprime un disegno di fondo complessivo che si regge su due pilastri portanti, da una parte l’allerta come meccanismo di incentivazione ad una precoce emersione della crisi e dall’altra parte un sensibile irrobustimento del ruolo della autorità giudiziaria, sia giudicante che requirente.
Entrambi questi pilastri mi paiono più che razionali e al fondo condivisibili perché anticipare la crisi vuol dire bruciare meno ricchezza e perché attribuire un ruolo alla autorità giudiziaria è coerente con la collettività degli interessi che vengono coinvolti quando una impresa affronta la crisi.
Sennonché, non basta erigere i pilastri, perché è ancor più importante che la loro costruzione sia solida: in tale contesto, la declinazione di quei principi, per come si è realizzata lascia spazio a molte ombre.
Di per sé, dunque, il differimento del codice della crisi non può essere tacciato come espressione di controriforma; e poi, verrebbe da dire, di quale controriforma se tale è stato giudicato lo stesso codice della crisi, rispetto alla tessitura normativa più liberale inaugurata nel 2005 e poi, tra alti e bassi, ribadita sino al 2015. L’esame del codice della crisi è stato rinviato a settembre ed allora si verificherà se dovrà essere parzialmente modificato o innervato; quanto il Governo dovrà valutare è cosa altra rispetto al codice.
Messe in disparte queste prime considerazioni, va chiarito a tutto tondo che all’inizio dei suoi lavori la Commissione ha dovuto prendere atto che una buona parte dell’architrave dell’allerta era stata già messa ‘in soffitta’ non da una Commissione, ma dall’intero Parlamento che aveva da poco legiferato in materia allontanando nel tempo la c.d. ‘allerta esterna’ e cioè le segnalazioni provenienti dai creditori pubblici qualificati.
Tranciato a metà il sistema dell’allerta ci si è interrogati se questo fatto avrebbe inciso in chiave di sistema e la risposta è stata affermativa.
Lo scenario che si presentava alla Commissione era esattamente questo: (i) assecondare l’entrata in vigore del codice della crisi privato del pilastro dell’allerta esterna e destinato, comunque, ad essere rimaneggiato per il necessario adattamento alla normativa europea da recepire entro la primavera 2022 (poco o tanto non importa perché esistono posizioni molto distanti sull’impatto della Direttiva Insolvency); (ii) evitare la formazione di uno scalino troppo ampio tra l’allerta dimezzata e il ricorso immediato al procedimento unitario (con le note rigidità del nuovo modello di concordato preventivo) e predisporre un percorso di accompagnamento protetto per l’imprenditore in difficoltà.
Questa seconda soluzione è quella che ben presto è divenuta patrimonio condiviso; una notazione (la condivisione) che merita di essere enfatizzata perché la composizione della Commissione, com’era giusto che fosse, era assai articolata e formata su basi ideologiche antitetiche.
La Commissione ha dovuto, altresì, prendere atto che il numero delle imprese che affronteranno uno scenario di crisi non appena verranno meno progressivamente i sostegni e le paratie pubbliche, potrebbe risultare molto elevato. Una massa che se si fosse riversata, senza camere di compensazione, sui tribunali, avrebbe potuto risultare insostenibile, così come sarebbe stato assai complicato — se fosse stato attivato il meccanismo della composizione assistita (art. 19 del codice della crisi) - gestire con organismi triarchici la crisi delle imprese.
Il sistema dell’allerta, si opina, è stato digerito dalle organizzazioni imprenditoriali ma si deve precisamente sottolineare che questo endorsment proveniva da Confindustria. Il mondo delle imprese tuttavia non è costituito soltanto da imprese di dimensioni significative ma è rappresentato da un mondo variegato nel quale si combinano imprese di dimensioni e organizzazioni totalmente differenti. Rispetto a queste imprese il cui numero è rilevantissimo, il sistema dell’allerta non è apparso così facilmente digeribile anche se è corretto affermare che occorreva spiegare a queste imprese quanto fosse importante sostenere l’allerta perché l’allerta si fondava su regole di organizzazione dell’impresa che devono essere viste come funzionali al normale andamento dell’attività e non come regole espressive di patologie.
In tal senso, predicare la virtù dell’allerta era certamente sensato in un contesto economico che poteva ambire ad una sua ricollocazione culturale. Sennonché le conseguenze dell’emergenza pandemica sono troppo dirompenti per il mondo delle imprese per essere qui oggetto di discussione e si consideri che l’emergenza ha generato riflessi indiretti anche sul modo di fare impresa pur quando questa non ne abbia subito dei riflessi negativi diretti.
È ardito ipotizzare che ad emergenza conclusa (e sempre nell’auspicio che una fine sia all’orizzonte) il sistema delle imprese tornerà uguale a prima; i cambiamenti sono stati epocali e incideranno su una molteplicità di settori, anche alcuni di quelli che appaiono, oggi, meno incisi dall’emergenza.
Di tutto questo occorreva prendere atto e cercare di comporre un quadro che contrariamente a quanto postulato non smentisce affatto i presupposti ideologici dell’allerta ma che li rendesse coerenti con una situazione di crisi diffusa multi livello. Come ricorda puntualmente Danilo Galletti, l’allerta (quella interna), se si vuole, è già penetrata nel nostro sistema e ciò è accaduto con la riforma societaria del 2003 e con le norme relative alla predisposizione di adeguati assetti amministrativi organizzativi e contabili. I doveri degli amministratori e dei sindaci vanno, ormai dal 2003, parametrati ai contenuti degli articoli 2381 e 2403 del codice civile. La riforma, o meglio la riscrittura dell’articolo 2086 del codice civile altro non è che una ribadita allocazione di quei doveri anche con riferimento alla crisi dell’impresa: nulla di tutto ciò trova smentita nell’articolato, anzi una allerta interna è espressamente ribadita.
Ma l’articolo 2086, merita di essere rammentato, contiene quella congiunzione ‘anche’ dalla quale dobbiamo ricavare che l’organizzazione dell’impresa è prima di tutto diretta a fare bene impresa e solo secondariamente a far sì che la crisi dell’impresa venga affrontata tempestivamente. Questo quadro normativo non è stato affatto ripudiato dalla Commissione anche perché non era nel mandato affidatole.
Ed allora preso atto che strumenti di allerta interna sono già in vigore dal 2019, alla Commissione è apparso importante offrire alle imprese, in alternativa ai procedimenti di regolazione della crisi, un percorso guidato che aiuti l’imprenditore a prevenire la crisi, prima ancora che risolverla. L’idea di fondo è quella di intercettare situazioni di difficoltà economica, finanziaria e patrimoniale che possono essere lontane dal concetto di crisi, palesemente schiacciato su quello di insolvenza declinato nel codice della crisi. Se si vuole davvero evitare la malattia, occorre implementare un protocollo di medicina preventiva, una sorta di screening sull’impresa che consenta alla stessa di avvertire la presenza di segnali di rischio.
In questa chiave il lavoro della Commissione va ben oltre l’allerta del codice della crisi, ma va oltre nel senso che è funzionale ad aiutare le imprese. Quando ci si è resi conto che l’entrata in vigore del codice della crisi avrebbe determinato uno scalino troppo alto per le imprese private dell’allerta e quindi spinte per necessità ad intraprendere il percorso unitario di un procedimento molto strutturato e certamente più rigido qual è il concordato preventivo del codice della crisi rispetto a quello attuale, si è pensato che questo scalino dovesse essere necessariamente ammorbidito.
Certo, taluno poteva ipotizzare che ad ammorbidire lo scalino fosse sufficiente l’entrata in vigore del procedimento di composizione assistita. Tuttavia un minimo di approfondimento della disposizione ha fatto emergere enormi criticità applicative che non erano state minimamente avvertite; si faccia, solo al modo di qualche esempio, la mancanza di convergenza fra le regole degli articoli 19 e 20 e il processo civile telematico, l’assenza di un percorso formativo per gli OCRI, la farraginosità dell’organismo collegiale, la mancanza di un intervento selettivo del tribunale, pronto, solo, a ricevere la segnalazione dell’esito infausto della composizione, a cura del pubblico ministero.
Una volta condiviso che quell’impianto non sarebbe stato sufficiente e, soprattutto sarebbe stato costoso per le imprese per la presenza di tre componenti dell’organismo, così come eccessivamente burocratico, si è pensato di realizzare un percorso volontario (ma una volontarietà ovviamente condizionata dall’articolo 2086 del codice civile e dalla ribadita allerta interna) che serva alle imprese per verificare, innanzi tutto, se necessitano di un intervento e qualora lo necessitino di aiutarle in un cammino sotto la guida di un esperto.
Dispiace che senza la previa lettura del testo si siano avanzati ironici paragoni, ma occorre precisare che piaccia o non piaccia, l’intervento della Commissione si muove in un contesto ‘solidaristico’ (ma non assistenziale) totalmente allineato ai valori della Costituzione (art. 2) e ai principi di proporzionalità diffusi nell’Unione europea.
Lo strumento proposto al Governo, e passo dopo passo discusso e condiviso con gli uffici legislativi dei Ministeri coinvolti, ambisce a riempire un vuoto dando l’occasione al debitore e ai suoi creditori di partecipare ad un tavolo di confronto con l’intervento di un soggetto indipendente e professionale che possa aiutare le parti a condividere una soluzione virtuosa.
Il prodotto non nasce ‘in vitro’, perché il percorso è scandito da una serie di linee-guida di imprescindibile importanza che sono il frutto delle più qualificate esperienze degli ultimi anni. Il decreto-legge, infatti, sarà accompagnato da un provvedimento di normazione secondaria nel quale sarà minuziosamente dettagliato quale dovrà essere il compito dell’esperto con una serie di liste di controllo che nulla hanno a che vedere con indici e indicatori.
Le trattative tra le parti potranno avvenire in un clima di assoluta riservatezza ma ai fini di una maggiore efficacia dello strumento, è ben probabile che il debitore abbia bisogno di proteggere il patrimonio dalle aggressioni dei creditori e questo potrà accadere solo con l’intervento del giudice secondo diversi livelli di modularità, sia oggettivi (quanto al tipo di misure) che soggettivi (la selettività soggettiva, icasticamente segnata dalla intangibilità dei diritti dei lavoratori).
Il debitore conserva la gestione dell’impresa ma per alcune tipologie di atti saranno previsti controlli e autorizzazioni e ciò al fine di garantire la serietà del percorso.
Non siamo di fronte al “rompete le righe!”, ma diversamente dalla composizione assistita, di fronte ad un contesto molto definito che vuole lasciare poco spazio al caso.
Le disposizioni di contorno sono molte, alcune delle quali solo riduttivamente possono essere così qualificate, si pensi al concordato preventivo semplificato quale procedimento di ‘uscita’ dalla composizione negoziata.
La filigrana della solidarietà compare visivamente in due disposizioni tra le più dibattute che non è possibile qui anticipare perché saranno al crocevia delle finali interlocuzioni politiche. L’auspicio è nel senso che vengano conservate perché sono il testimone di un cambio di rotta, quello che vuole porre la crisi di un’impresa fuori dal dialogo duale debitore/creditori, per vedere protagonisti altri interlocutori, pubblici e privati. E, parlando di solidarietà, sarebbe stimolante immaginare che volessero dedicarsi a questo ruolo di esperto le migliori professionalità del Paese, attratte dalla condivisione di un bene comune e non da compensi che sono stati previsti in misura equilibrata per non scoraggiare l’ingresso delle imprese nel percorso.
Non possiamo preconizzare se la composizione negoziata avrà successo, se sarà solo un ‘pannicello caldo’ o se sminerà gli altri strumenti previsti nel codice. Si aprirà un confronto e ci sarà spazio per le critiche che ovviamente non mancheranno, come è giusto che sia, ma si abbia cura di leggere ciò che la Gazzetta Ufficiale presto ci somministrerà.