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Saggio

Liquidazione controllata e liquidazione giudiziale: affinità e divergenze*

Giuseppe Bozza, già Presidente del Tribunale di Vicenza

28 Ottobre 2025

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
L’Autore, muovendo dalla constatazione che la disciplina semplificata della liquidazione controllata - benché regoli molti aspetti della procedura o mediante norme proprie o a mezzo di richiami di quelle dettate per la liquidazione giudiziale - non contiene un rinvio generalizzato alla normativa della liquidazione giudiziale per quanto non espressamente previsto, esplora la normativa della procedura minore per capire se vi sono lacune da colmare attraverso il ricorso all’analogia, ritenuto possibile anche dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione per il fatto che entrambe le procedure sono rivolte alla liquidazione del patrimonio del debitore e al soddisfacimento del ceto creditorio. A questo fine l’Autore indaga sulle differenze e affinità tra le discipline della liquidazione giudiziale e della liquidazione controllata per verificare, in primo luogo, se i silenzi su alcuni degli aspetti processuali della seconda siano voluti dal legislatore a causa della semplificazione cui è improntata la relativa normativa, o siano vuoti da colmare, nella convinzione che solo i risultati di una tale indagine consentono di capire se le due discipline abbiano la medesima ratio che giustificherebbe l’appartenenza della species liquidazione controllata all’interno del genus liquidazione giudiziale o, comunque, l’attribuzione ad entrambe della stessa identità di struttura e funzione, da cui la possibilità di attingere alle norme regolatrici della procedura maggiore per colmare le eventuali lacune presenti nella regolamentazione della procedura minore. 
La capillarità dell’indagine svolta spiega la lunghezza del presente contributo. 
Riproduzione riservata
1 . Il perimetro della presente indagine
“La liquidazione controllata- si legge nella relazione illustrativa del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14- è il procedimento, equivalente alla liquidazione giudiziale, finalizzato alla liquidazione del patrimonio del consumatore, del professionista, dell’imprenditore agricolo, dell’imprenditore minore e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale, che si trovi in stato di crisi o di insolvenza”… Si tratta di una procedura semplificata rispetto alla liquidazione giudiziale “considerato che la liquidazione concerne patrimoni tendenzialmente di limitato valore e situazioni economico finanziarie connotate da limitata complessità”. 
E’ indubitabile che l’attuale codice della crisi abbia regolamentato la procedura di liquidazione controllata come strumento liquidatorio dei beni del debitore sovraindebitato sulla falsariga di una liquidazione giudiziale semplificata, dato che anche la liquidazione controllata mira all’apprensione dei beni del debitore, alla liquidazione dell’attivo da ripartire tra i creditori, alla riscossione dei crediti e all’esercizio delle azioni recuperatorie, che sono le attività che, nel loro insieme, costituiscono il contenuto tipico di una procedura liquidatoria concorsuale che coinvolge l’intero ceto creditorio e l’intero patrimonio del debitore; tant’è che si usa definire la liquidazione controllata come procedura minore[1] rispetto a quella maggiore, incarnata dalla liquidazione giudiziale. 
Lo dimostra la stessa collocazione del complesso normativo dedicato alla procedura in esame, posto non in una sede contigua a quelle delle altre procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento ma nel Capo IX, alla fine del titolo V del codice incentrato sulla liquidazione giudiziale, attribuendo, così, pari dignità formale alle due procedure. Ancor più lo dimostra il contenuto del plesso dispositivo; invero il tribunale dichiara aperta la procedura di liquidazione controllata con sentenza che ha il contenuto di cui al comma 2 dell’art. 270, abbastanza analogo a quello del comma 3 dell’art. 49; la liquidazione controllata coinvolge, come quella giudiziale, l’intero patrimonio del debitore, tranne i beni e i diritti elencati nell’art. 268, comma 4, che coincide con l’art. 146; inoltre l’art. 270, comma 5, dispone che alla procedura minore “si applicano gli articoli 142 e 143[2] in quanto compatibili e gli articoli 150 e 151[3]; “per i casi non regolati dal presente capo si applicano altresì, in quanto compatibili, le disposizioni di cui al titolo III (evidentemente del capo IV, che è l’unico di detto titolo ad avere più sezioni), sezioni II e III[4].” 
Per la verità l’art. 65, comma 2 contiene un rinvio all’intero titolo III, ad eccezione dell’art. 44[5], in quanto compatibile, ma è dubbio se tale norma possa applicarsi anche alla liquidazione controllata giacché il rinvio alle disposizioni del titolo III è fatto per sopperire alle carenze normative “del presente capo”, ossia del capo II del titolo IV, che regola la ristrutturazione dei debiti del consumatore e il concordato minore. E’ vero che il comma 1 dello stesso art. 65 richiama la liquidazione controllata, ma ciò fa per dire che “ i debitori di cui all’art. 2, comma 1, lett. c) possono proporre soluzioni della crisi da sovraindebitamento secondo le norme del presente capo o del titolo V, capo IX (che ha ad oggetto la liquidazione controllata), per cui tale richiamo ha il solo scopo di indicare le varie procedure cui possono accedere i debitori sovraindebitati e non interferisce con la disposizione del comma 2 che rende applicabile l’intero titolo III solo per quanto non previsto dalle disposizioni del capo II, tanto più che , come detto, l’art. 270, comma 5, contiene una apposita disposizione in materia, sulla quale si sovrapporrebbe inspiegabilmente quella dell’art. 65, comma 2; egualmente non si spiegherebbe il richiamo nell’art. 268 al tribunale competente ai sensi dell’art. 27, comma 2, visto che tale norma è compresa nel capo 2 del titolo III, applicabile, quindi, anche alla liquidazione controllata ove si ritenesse operante anche per questa procedura l’art. 65, comma 2. Tuttavia, la mancanza di giustificazione a che nella liquidazione controllata non siano applicabili tutti i capi del titolo III, come alle altre procedure da sovraindebitamento, e qualche altra incongruenza che traspare (si pensi alla previsione del comma 4 dell’art. 74 che già di per sé contiene un rinvio alle norme sul concordato maggiore per quanto non previsto nella sezione dedicata al concordato minore) fa permane quanto meno il dubbio circa l’intento del legislatore di estendere l’intero titolo III alla liquidazione contrattuale. 
Qualunque sia l’interpretazione dell’art. 65, comma 2, manca, comunque, nella disciplina di questa procedura, un rinvio generalizzato alla normativa della liquidazione giudiziale per quanto non espressamente previsto, del tipo di quello contemplato nel comma 4 dell’art. 74, che, appunto, per quanto non previsto nella sezione dedicata al concordato minore stabilisce che si applicano le disposizioni del capo III, sul concordato preventivo, in quanto compatibili. Di conseguenza molti aspetti procedurali risultano espressamente normati (o direttamente o con richiami secchi) o dalle regole generali applicabili a tutte le procedure, altri sono stati disciplinati a mezzo di rinvii espressi a norme o interi titoli o precise sezioni della liquidazione giudiziale con la clausola della compatibilità, la cui ricorrenza diventa quindi la situazione da verificare, ed altri sono privi di regolamentazione, il che potrebbe giustificare il ricorso all’analogia; compatibilità e somiglianza di situazioni diventano quindi, in mancanza di una norma di chiusura che rinvii alla liquidazione giudiziale, oggetto di verifica per applicare una norma dettata per la liquidazione giudiziaria alla liquidazione controllata ove difetti in questa una espressa norma regolatrice. 
E’ contestualmente evidente come i due concetti accennati abbiano portata completamente diversa; la compatibilità richiede una indagine sull’adattamento della norma richiamata alla fattispecie da esaminare, per cui oggetto di indagine è la razionalità, logicità e ragionevolezza della coerenza con il sistema, nel mentre il ricorso all’analogia richiede, per dirla con le parole delle Sezioni Unite[6], “che manchi una norma di legge atta a regolare direttamente un caso su cui il giudice sia chiamato a decidere” e “che sia possibile ritrovare una o più norme positive (c.d. analogia legis) o uno o più principi giuridici (c.d. analogia iuris), il cui valore qualificatorio sia tale che le rispettive conseguenze normative possano essere applicate alla situazione originariamente carente di una specifica regolamentazione, sulla base dell'accertamento di un rapporto di somiglianza tra alcuni elementi (giuridici o di fatto) della vicenda regolata ed alcuni elementi di quella non regolata”. 
Concetti apparentemente semplici ma quanto mai complessi, perché il fatto che un sistema normativo non preveda delle disposizioni in altre procedure contemplate, non costituisce ex se una lacuna normativa da colmare facendo ricorso all'analogia ai sensi dell'art. 12 preleggi, potendo il vuoto normativo in ordine ad una fattispecie o ad un determinato aspetto discendere dalla volontà del legislatore di non volerli disciplinare; ciò è tanto più vero quando, come nella fattispecie della liquidazione controllata, una disciplina per quanto semplificata è stata dettata, per cui è difficile ipotizzare immediatamente un vuoto per gli aspetti non regolamentati dal momento che il legislatore ha preso in considerazione la materia ed l’ha codificata nel modo che ha fatto con una normativa dichiaratamente semplificata in quanto ritenuta finalizzata a risolvere la crisi di un debitore con un patrimonio meno consistente e con condizioni finanziarie meno complesse, come espressamente riconosciuto nella citata Relazione illustrativa. 
L’appartenenza della species liquidazione controllata all’interno del genus liquidazione giudiziale o comunque l’attribuzione ad entrambe della stessa identità di struttura e funzione, quindi, come è stato correttamente sottolineato[7], non ha una valenza meramente teorica, ma è strumentale a delineare l’ambito di una possibile interpretazione analogica di disposizioni previste per la liquidazione giudiziale al fine di colmare le eventuali lacune che vengono in rilievo nel contesto della liquidazione controllata 
Il presente contributo ha lo scopo di cercare di capire se il fatto acclarato anche dalla Corte Costituzionale[8], di essere entrambe le procedure finalizzate a liquidare il patrimonio del debitore a beneficio dei creditori concorsuali prevedendo entrambe “lo spossessamento del debitore dei propri beni e la perdita della sua legittimazione processuale”, ed entrambe al contempo attuando “il concorso formale e sostanziale dei creditori, che non possono iniziare o proseguire azioni individuali esecutive o cautelari sui beni compresi nella procedura e che devono far valere i propri crediti solo in sede di formazione dello stato passivo, in ossequio al principio della par condicio”, sia sufficiente a fare della procedura minore una species di quella maggiore o comunque di attribuire identità di struttura e funzione alle medesime, in modo da consentire che la liquidazione controllata condivida con la liquidazione giudiziale quelle norme che nella prima mancano. 
Questo ambizioso proposito richiede che il presente lavoro si snodi attraverso l’esame della disciplina dettata per la liquidazione controllata allo scopo non di arrivare ad una ricostruzione sistematica dell’istituto, ma di individuare eventuali vuoti normativi di tale procedura e poi di controllare, ove esistenti, da un lato, il limite di tolleranza ed elasticità dell'enunciato normativo che si intende applicare per colmarli e, dall’altro, la ricorrenza di situazioni simili o molto somiglianti tra quella regolata e quella priva di disciplina, in cui rientra anche l’indagine circa la mancanza di elementi ostativi all’inserimento della norma esistente nel contesto di una diversa procedura a causa della differente regolamentazione per questa adottata. 
A questo fine, diventa utile indagare sulle differenze e affinità tra le due procedure -la liquidazione giudiziale e quella controllata- perché solo i risultati di una tale indagine consentiranno di capire se le due discipline abbiano la medesima ratio che giustifica la possibilità di attingere alle norme regolatrici della liquidazione giudiziale per colmare le eventuali lacune presenti nella regolamentazione della procedura di liquidazione controllata[9], oppure se la regolamentazione completamente differente su molti aspetti, anche rilevanti, possa far collocare le due procedure in una condizione non certo antitetica ma neanche di stretta affinità, tale da precludere, e in quali casi, l’applicazione analogica delle norme dell’una per colmare gli eventuali vuoti normativi dell’altra.
2 . L’equivoco di fondo su cui poggia la disciplina della liquidazione controllata
Come è noto, la liquidazione giudiziale è la procedura liquidatoria che colpisce l’imprenditore commerciale la cui attività superi le soglie numerico quantitative indicate dall’art. 2, comma 1, lett. d) CCII per definire l’impresa minore, nel mentre la liquidazione controllata riguarda l’imprenditore sotto soglia, le start up, le imprese agricole, il consumatore e il professionista. 
Costoro, prima della legge 27/1/2012, n. 3, assorbita nel nuovo codice della crisi, non erano assoggettati ad alcuna procedura concorsuale diretta a regolare il proprio stato di crisi o di insolvenza, per cui i creditori, per realizzare i loro crediti non ottemperati spontaneamente, avevano a disposizione il solo strumento delle procedure esecutive individuali. Una volta ritenuta l’opportunità di collettivizzare anche la crisi e l’insolvenza di tali soggetti, i confini applicativi della liquidazione controllata (come delle altre procedure da sovraindebitamento) sono delimitati, in sostanza, di risulta in quanto secondo la definizione fornita dalla lett. c) del comma 1 dell’art. 2, essa riguarda “ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza”[10].
 La categoria dei soggetti che possono usufruire della liquidazione controllata è, quindi, molto vasta ed eterogenea in quanto comprende sia il consumatore- che per definizione legislativa (art. 2, comma 1, lett. e) CCII) è la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale, o professionale e, cioè, colui chi contrae debiti per far fronte alle spese famigliari, che ad un certo punto non è più in grado di assolvere- e il professionista, pur se non organizzato sotto forma di impresa, e perciò definititi debitori civili, ma anche le imprese sotto soglia- tra le quali vanno ora annoverate anche le start up innovative[11]- nonchè le imprese agricole, che sono comunque assoggettate alla liquidazione controllata in quanto la liquidazione giudiziale è riservata alle imprese commerciali[12]. 
L’evoluzione della moderna agricoltura e l’ampiamento dell’art. 2135 c.c. risalente al D. Lgs. 18 maggio 2001, n. 228, che ha anche esteso la procedura di ristrutturazione del debito di cui all’art.182 bis L. fall. alle imprese agricole (così come fa anche l’attuale art. 57, comma 1, CCII), giustificherebbero il superamento della tradizionale esclusione delle imprese agricole dal fallimento o dalla liquidazione giudiziale quando superano le soglie di impresa minore, per cui alla liquidazione controllata rimarrebbero assoggettati il consumatore, il professionista e le imprese minori. 
Rimarrebbero comunque notevoli differenze tra le prime due categorie e quella delle imprese minori in quanto i porofessionisti e i consumatori non svolgono attività di impresa, sono soggetti scarsamente patrimonializzati, l’inadempimento dei quali potrebbe essere gestito in via diretta dalle parti interessate con i normali mezzi di tutela individuale, e, principalmente, lo svolgimento della loro attività non è caratterizzata da quella pluralità di relazioni, tipiche dell’impresa anche minore, che, operando nel mercato, intessono rapporti con molti soggetti (che possono anche essere altri rispetto ai creditori fornitori o finanziatori, quali i lavoratori) seppur quantitativamente minori rispetto a quelli di una impresa sopra soglia e per le quali la comunanza dell’attività imprenditoriale, seppur di diverse dimensioni, crea una chiara affinità con quelle assoggettate alla liquidazione giudiziale. 
E’ chiaro, allora, che diversi sono gli interessi che ruotano intorno all’inadempimento o alla crisi del consumatore e del professionista- la cui soluzione tende più che alla tutela dei creditori, alla liberazione dai debiti con conseguente possibilità di una ricollocazione del debitore nel circuito del credito e delle relazioni commerciali- rispetto a quelli che coinvolgono una impresa in crisi o insolvente, ove, proprio la pluralità degli interessi coinvolti, da un lato giustifica l’apertura di una procedura concorsuale essendo il processo espropriativo individuale non più adeguato alla potenziale pluralità di creditori, e, dall’altro, “rende indispensabile stabilire se si debbano tutelare in via prioritaria i diritti dei creditori, oppure se l’esigenza primaria sia quella di conservare il valore dell’impresa, ad esempio al fine di assicurare il mantenimento dei livelli occupazionali anche a discapito della tutela del credito”[13]; per queste si può parlare di affinità con le imprese maggiori e si può giustificare una disciplina specifica e più semplificata che tenga conto della presumibile (ma non sempre veritiera) minore pluralità di creditori e complessità delle vicende imprenditoriali. 
Accumunare in una unica disciplina situazioni così diverse ed eterogene costituisce, a mio avviso, l’errore di fondo (il primo) commesso dal legislatore, che inquina ogni discorso ricostruttivo dell’istituto della liquidazione controllata dato che la mancanza di qualsiasi comunanza economica ed omogeneità giuridica tra i soggetti che possono servirsene impedisce qualsiasi discorso unitario, che l’unica disciplina dettata per le pur differenti fattispecie costringe invece a fare. Il secondo errore consiste nell’aver orientata tale disciplina unitaria a risolvere la crisi di un debitore con un patrimonio poco consistente e con condizioni finanziarie poco complesse; indubbiamente questa descritta è una situazione diffusa riscontrabile nelle procedure riguardanti consumatori e professionisti, ma già lo è meno nelle imprese sotto soglia, che possono avere relazioni numeriche con creditori anche superiori ad una impresa sopra soglia, seppur nel complesso quantitativamente inferiore, e certamente non lo è per le imprese agricole sopra soglia, che sono coinvolte nella stessa procedura e assoggettate alla stessa normativa. 
E così si assiste a questo paradossale fenomeno interpretativo per il quale, da un lato, si proclama l’affinità della liquidazione controllata, che può anche riguardare soggetti non imprenditori, con quella giudiziale, che ha ad oggetto esclusivamente imprese[14] e, dall’altro, si regola la prima con una normativa per larga parte diversa (come si vedrà) da quella dettata per la procedura maggiore, improntata alla semplificazione, in considerazione della minore complessità tipica delle crisi dei debitori civili, ma applicabile, per la sua esclusività ed unitarietà, a tutte le procedure di liquidazione controllata indipendentemente dal soggetto che vi accede. E, proprio perché il sovraindebitamento racchiude una serie di istituti che si rivolgono a categorie profondamente diverse di debitori, tutte accumunate dalla sola circostanza di non essere assoggettabili ad una procedura maggiore, non è affatto scontata l’applicazione in via analogica a tutti i sovraindebitati di norme pensate, invece, da sempre solo con riferimento agli imprenditori commerciali[15]. 
Per questo si diceva che una equiparazione tra la liquidazione controllata e quella giudiziale, essendo quest’ultima riservata agli imprenditori sopra soglia, potrebbe avere senso quando si discute di imprese e si rapporta la prima all’impresa minore e non al professionista o al consumatore, l’interesse dei quali a potersi liberare dei propri debiti mediante l’istituto dell’esdebitazione, per offrire loro una nuova opportunità, che costituisce lo sbocco naturale voluto per la liquidazione controllata, può costituire un serio bilanciamento all’interesse dei creditori alla soddisfazione dei propri crediti, ma perde la sua carica giustificativa quando si affronta una crisi che colpisce una impresa, seppur sotto soglia o una impresa che, se avesse avuto natura commerciale, sarebbe stata assoggettata alla liquidazione giudiziale o addirittura ad amministrazione straordinaria.
Non va dimenticato che la disciplina della liquidazione controllata trova il suo antecedente nella legge 27 gennaio 2012, n. 3[16] sulla liquidazione del patrimonio del debitore sovraindebitato (la cui epigrafe era “Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento”) con la quale, al fine di porre rimedio alle posizioni debitorie non soggette né assoggettabili alle procedure concorsuali note, si introducevano tre nuove procedure. Lo scopo di queste era quello di consentire al debitore di pervenire alla esdebitazione, in modo che, liberato dei debiti pregressi e risanata la posizione economica, potesse tornare a svolgere un ruolo economico attivo (c.d. fresh start)[17], evitando, per un verso, che si rivolgessero a fonti estorsive o usuraie per porre rimedio alla propria situazione (come si desume dalla prima parte della legge), e, dall’altro, che la condizione di emarginazione economica si tramutasse in una grave ed irrimediabile stato di emarginazione sociale. 
Orbene, il discorso sulla concorsualità riferita anche al consumatore e al professionista che accedono alla liquidazione controllata non rende merito alla vera finalità perseguita da tali soggetti di potersi liberare dei propri debiti mediante l’istituto dell’esdebitazione. Se, infatti, la liquidazione del patrimonio di una impresa insolvente, di qualsiasi dimensione, evoca un percorso di concorsualità alla fine del quale l’imprenditore può avere il beneficio della esdebitazione, che bilancia la natura endoconcorsuale dell’accertamento del passivo in modo da definitivamente stabilizzare gli esiti della liquidazione, per il consumatore e il professionista la liquidazione del patrimonio o, come accade il più delle volte, la messa a disposizione di proventi futuri per un tempo limitato, costituisce lo strumento che, coinvolgendo valori di tutela della persona e di solidarietà sociale ai quali è difficile non riconoscere anche un radicamento costituzionale alla luce della sensibilità che connota l'attuale momento storico, costituisce il naturale sbocco della liquidazione controllata verso l’esdebitazione che offre una seconda chance[18]; ed è in questi casi, che comportano una responsabilità patrimoniale limitata nel tempo, che si apprezza perché possano essere sacrificate le residue ragioni creditorie: consentire a debitori non immeritevoli una “ripartenza”[19]. 
In sostanza, questi brevi accenni alla esdebitazione- su cui si tronerà in prosieguo- evidenziano quell’antinomia di fondo di cui si parlava, di voler, da un lato, favorire, anche riguardo al tempo, l’esdebitazione dei sovraindebitati che accedono alla liquidazione controllata con una normativa più agevole rispetto a quella dettata per il debitore insolvente colpito da liquidazione giudiziale, in ragione principalmente dell’inclusione tra costoro dei consumatori e dei professionisti, e, dall’altro, di continuare a considerare la procedura minore come una sottospecie di quella maggiore (o a questa equiparabile) che ha ad oggetto soltanto imprese commerciali sopra soglia, lasciando così sbiadita sullo sfondo l’idea di una procedura liquidatoria collettiva indirizzata al soggetto non fallibile in funzione esdebitatoria[20].
3 . La legittimazione alla presentazione della domanda di liquidazione controllata
Oltre alla variegabilità dei soggetti che possono accedere alla liquidazione controllata, più ampio rispetto alla liquidazione giudiziale è anche lo scenario dei presupposti oggettivi che consentono il ricorso alla procedura minore essendo pacifico che il presupposto oggettivo della liquidazione giudiziale è, e rimane, l’insolvenza, nel mentre l’accesso alla liquidazione controllata è consentito ai sovraindebitati elencati nell’art. 2, comma 1, lett. c) quando si trovano in stato di crisi, come definito dalla lett. a) dello stesso articolo e comma, o in stato di insolvenza, come definito dalla lett. b). 
Questa accennata differenza di presupposti, sia soggettivi che oggettivi, che intercorre tra le due procedure impatta anche sulla legittimazione all’’accesso alla procedura e sula disciplina introduttiva. 
In primo luogo, i primi due commi dell’art. 268 differenziano i requisiti di accesso a seconda del soggetto che prende l’iniziativa. Se questa è presa dal debitore (che nell’impianto della legge n. 3/2012 era l’unico legittimato), egli può trovarsi in stato di crisi o di insolvenza e non è richiesto alcun limite all’ammontare dei debiti scaduti e non pagati, nel mentre, ove sia un creditore a chiedere l’apertura della procedura, il sovraindebitato deve trovarsi in stato di insolvenza (e non soltanto di crisi) e non si fa luogo all’apertura se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria è inferiore ad euro 50.000. 
E’ normale che l’iniziativa dei creditori sia collegata alla situazione di insolvenza del sovraindebitato perché questa condizione ha carattere esteriore e si manifesta con la strutturale incapacità dell'imprenditore di far fronte con modalità normali e in termini fisiologici alle proprie obbligazioni, per cui è “strettamente connessa all'ormai venuto meno equilibrio finanziario dell'impresa, la quale viene a trovarsi in una condizione di crisi finanziaria che si traduce essenzialmente in situazione di illiquidità non momentanea[21], nel mentre la situazione di crisi costituisce una fase dell’impresa che attiene principalmente alla sostenibilità interna in quanto si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi[22]. Ed in questa fase in particolare il nuovo codice richiama quei principi di vertice che esaltano i doveri di buona fede e correttezza in quanto, come osservato da autorevole dottrina[23], esplicitano “in modo netto che esistono dei doveri precisi che concernono, proprio, la fase di crisi e che dunque si aggiungono ai doveri tipici dell’imprenditore: l’importazione della buona fede “oggettiva” è comunque un valore aggiunto che non può essere confinato in una interpretazione riduzionistica che riconduca la norma alla buona/mala fede processuale”. 
A parte il dato che lo stato di crisi non costituisce un presupposto della liquidazione giudiziale, una tale situazione, che evoca il ricorso a strumenti di risanamento, mal si concilia con l’iniziativa liquidatoria dello stesso debitore, tanto che si è ritenuto “eccentrico rispetto alle corrispondenze elettive con la liquidazione maggiore” che “il debitore non insolvente possa volere la regolazione della propria crisi con le modalità della concorsualità liquidatoria”, tanto più che l’art. 268, comma 2, CCII ha esteso rispetto alla tradizionale declinazione delle procedure minori, il perimetro soggettivo della legittimazione ad agire, come detto, anche al creditore, ma soltanto “quando il debitore è in stato d’insolvenza”. 
Tuttavia, anche in caso di insolvenza del debitore, i soggetti legittimati a chiedere l’apertura della procedura non coincidono nelle due procedure in esame in quanto la richiesta di apertura della liquidazione controllata può essere presentata (oltre che dal debitore in proprio) soltanto dai creditori e non anche dal P.M., posto che l’iniziativa di questi, prevista originariamente, è stata abolita con il D.Lgs. n. 83/2022, in quanto ritenuta non giustificata per le imprese di piccole dimensioni. Da questa rimozione del riferimento al P.M. correttamente il tribunale di Milano[24] deduce la “chiara l’intenzione del legislatore di espungere il Pubblico Ministero dal novero dei legittimati a domandare l’apertura della liquidazione controllata del debitore assoggettabile alle procedure di sovraindebitamento, senza che sia di contro possibile ricavarne la legittimazione in via interpretativa”, giacché “la mancata inclusione del P.M. tra i soggetti legittimati non può essere trattata alla stregua di una lacuna necessitante di essere colmata o di un errore di coordinamento ma di una scelta espressa che ha tenuto conto delle finalità da perseguire e segnatamente quella di consentire al P.M. di avviare iniziativa avanti al tribunale concorsuale al fine di estromettere dal mercato un’impresa che rischi di recare grave pregiudizio al corretto funzionamento dell’economia, solo nel caso sussista il superamento delle soglie dimensionali”[25]. 
Il rifermento alla legittimazione del solo creditore comporta che l’iniziativa a chiedere l’apertura della liquidazione controllata non competa neanche agli organi e dalle autorità amministrative che hanno funzioni di controllo e di vigilanza, e che, a norma dell’art. 37, comma 2, possono presentare domanda di apertura della liquidazione giudiziale, ad esclusione, come si è già detto, che la richiesta abbia ad oggetto una start up innovativa sopra soglia, per le quali la legittimazione è riservata esclusivamente al debitore. 
Inoltre, sempre con il D.Lgs. n. 83/2022, è stata innalzata nel 2022, dell’art. 268 a cinquantamila la soglia debitoria risultante dagli atti dell’istruttoria[26], al di sotto della quale la liquidazione controllata non può essere aperta, a fronte del limite di trentamila rimasto nell’art. 49, comma 5 per la liquidazione giudiziale. 
Con riferimento al fallimento, la S. Corte ha ritenuto che il limite quantitativo di fallibilità riferito ai debiti scaduti e non pagati costituisca “una condizione oggettiva di fallibilità”[27] e lo stesso concetto può essere esteso alla liquidazione giudiziale e a quella controllata in quanto il mancato superamento delle quote indicate in ciascuna procedura “non rappresenta l’oggetto di un’eccezione in senso stretto del debitore, ma è (come si suol dire) un fatto rilevante ipso jure, che il tribunale deve rilevare anche d’ufficio, se esso risulta dagli atti del giudizio”[28]. Pertanto, essa può essere verificata anche tramite l’accesso ai registri e banche dati descritti dall’art. 42, senza alcun obbligo per il giudice delegato di espletare attività d’indagine sul punto, proprio “alla luce della formulazione normativa, che si limita a consentire al giudicante di affermare il mancato superamento del limite minimo di esposizione debitoria anche al di fuori di esplicite indicazioni delle parti, sempre però che il dato sia rilevabile dagli atti ritualmente acquisiti nel corso dell’espletata istruttoria”[29]. 
La spiegazione dell’innalzamento del limite quantitativo richiesto per l’apertura della liquidazione controllata data nella Relazione, che sarebbe teso ad evitare un eccessivo ricorso allo strumento della liquidazione controllata da parte dei creditori per “privilegiare la soluzione stragiudiziale della crisi delle imprese di minori dimensioni, sul presupposto del minore impatto che l’insolvenza di tali imprese produce sul mercato di riferimento e sul sistema economico in generale”, appare del tutto incoerente rispetto all’assunto per cui la liquidazione controllata sia una procedura “minore” rispetto alla liquidazione giudiziale e poco convincente, (basti pensare che il D.Lgs. n. 147/2020 aveva fissato la stessa soglia in euro 20.000). Ancora una volta, infatti, si fa leva sulle ridotte dimensioni del debitore, dando per scontato che gli effetti distorsivi dell’insolvenza prodotti dalle imprese in sovraindebitamento siano minori rispetto a quelli delle attività produttive più grandi, ma a parte che questa è solo una valutazione teorica applicabile alle imprese, non si tiene conto, da un lato, del consumatore né del professionista che imprenditori non sono, e per i quali è difficile ravvisare l’insolvenza, e, dall’altro, dell’impresa agricola che può anche essere di medio grandi dimensioni; né si tiene conto che il debitore può bloccare la temuta eccessiva interferenza dei creditori proponendo, a sua volta, uno strumento di regolazione negoziale, che va valutato preventivamente su quello liquidatorio. 
In ogni caso, si sta parlando di soggetti in condizione di insolvenza e di insolvenza ormai irreversibile perché è la stessa che giustifica l’apertura della liquidazione giudiziale, a fronte della quale, se il debitore non propone uno strumento alternativo di soluzione, è nell’interesse generale, dei pochi o dei tanti soggetti coinvolti, che si arrivi alla liquidazione del patrimonio, in mancanza della quale imprese con passivo al di sotto del limite di apertura così elevato continuerebbero, seppur insolventi, ad operare sul mercato; né un limite così elevato di passivo è sintomo sufficiente a che un imprenditore persona fisica o un debitore civile possa usufruire dell’esdebitazione di cui all’art. 283. 
Oltre a questo limite che può fermare l’iniziativa del creditore, il debitore, come già accennato, può bloccare la richiesta dell’apertura della procedura liquidatoria proponendo altro strumento alternativo attribuito al sovraindebitato (ristrutturazione dei debiti del consumatore e concordato minore), come ora previsto dall’art. 271, comma 1, nonché dall’art. 270, comma 1, per il quale il tribunale, verificati i presupposti di cui agli artt. 268 e 269, dichiara con sentenza l’apertura della liquidazione controllata, “in assenza di domande di accesso alle procedure di cui al titolo IV”, in conformità a quanto può fare il debitore investito da una domanda di liquidazione giudiziale che propone una domanda di regolamentazione della crisi o dell’insolvenza, giusto il disposto dell’art. 7, comma 2, che, infatti, coinvolge anche la liquidazione controllata. 
A parte questi mezzi comuni ad entrambe le procedure, in quella di liquidazione controllata il debitore, all’apertura della stessa su iniziativa del creditore, può utilizzare le possibilità offerte dall’art. 268, comma 3, ampiamente rivisitato dal terzo correttivo del 2024. Invero, secondo l’attuale versione, per l’apertura della liquidazione controllata su istanza del creditore nei confronti di un debitore persona fisica, occorre che l’OCC attesti, su richiesta del sovraindebitato, che è possibile acquisire attivo distribuibile ai creditori, anche mediante l’esercizio di azioni giudiziarie, altrimenti il debitore deve ricorrere alla procedura dedicata al sovraindebitamento incolpevole[30]; peraltro, se il debitore dimostra di aver presentato all’OCC la richiesta di attestazione e questa non è stata ancora redatta, il giudice può concedere un termine per depositarla[31]. 
Si può discutere se, in tal caso, l’incapacità del debitore di procurare una qualche utilità ai suoi creditori sia configurabile come una vera e propria eccezione in senso stretto, quale sia la prima udienza entro la quale sollevarla e se questa sia un termine di decadenza, ma rimane il dato, che qui interessa, che il debitore persona fisica attinto da una domanda di apertura della liquidazione controllata proposta da un creditore può bloccarne l’apertura se, su sua richiesta, l’OCC “attesta che non è possibile acquisire attivo da distribuire ai creditori neppure mediante l’esercizio di azioni giudiziarie”. Possibilità, non concessa al debitore persona fisica nei cui confronti un creditore o altro soggetto legittimato abbia chiesto l’apertura della liquidazione giudiziale, ove la mancanza di attivo o di prospettive di acquisire attivo può giustificare solo il superamento del procedimento di accertamento del passivo e la chiusura della procedura, anche perché per l’imprenditore non in stato di sovraindebitamento non è possibile il ricorso alla esdebitazione di cui all’art. 283. 
Il comma 2 dell’art. 268 chiarisce che l’iniziativa del creditore a chiedere l’apertura della liquidazione controllata è ammessa” anche in pendenza di procedure esecutive individuali” nei confronti del debitore”[32]. Questa precisazione è sembrata ad alcuni ridondante[33], considerando che la pendenza di procedure esecutive singolari non impedisce al debitore di presentare la domanda ex art. 268, comma 1, con analogo effetto impediente dell’esecuzione individuale; altri interpreti[34] hanno prospettato l'ipotesi che la norma implichi che il creditore possa richiedere l'apertura della procedura solo nel caso in cui siano già in corso non uno, ma più procedimenti esecutivi e/o se il creditore stesso sia in possesso di un titolo esecutivo. 
A mio avviso, coerentemente con una lettura sistematica del complessivo impianto delineato, si lascia preferire l’interpretazione data dal Tribunale di Monza[35] quando ha statuito che “non è necessario affinché possa disporsi l'apertura della liquidazione controllata che siano pendenti procedure esecutive individuali nei confronti del debitore. L'art. 268, secondo comma, CCII prevede, infatti, che l'apertura della liquidazione controllata possa essere chiesta dal debitore “anche in pendenza di procedure esecutive individuali”, dal che consegue che l'assenza di procedure esecutive individuali non è affatto ostativa all'apertura della liquidazione controllata affermando di contro la disposizione citata che la liquidazione possa essere aperta persino in pendenza di tali procedure”. Invero, la congiunzione “anche”, per un verso chiarisce che il legislatore ha inteso precisare che la presenza di procedure esecutive non ostacola la possibilità per il creditore di richiedere l'apertura della liquidazione controllata, e, per altro verso che non l’ostacola la pendenza di una sola o di nessuna di tali procedure, sebbene l'esistenza di più espropriazioni è il caso che rende maggiormente preferibile l'opzione concorsuale. Si poteva pervenire a questa conclusione pur senza l’inciso in esame perché il presupposto che legittima il creditore è l’insolvenza, ma sostanzialmente esso è utile a chiarire l'ampiezza del campo d'applicazione della norma sulla legittimazione del creditore, e ad avvicinare la liquidazione controllata a quella giudiziale, la cui richiesta di apertura infatti non è frenata dalla pendenza di procedure esecutive individuali (che, anzi, sono un sintomo dell’insolvenza, o dalla loro mancanza. 
La giurisprudenza di merito finora nota ha, infine, ritenuto che è ammissibile la domanda di apertura della liquidazione controllata svolta in via subordinata rispetto a quella di apertura della liquidazione giudiziale a seguito delle difese proposte dal convenuto, essendo domanda fondata sulle medesime circostanze fattuali, con possibilità pertanto del ricorrente di mutare il petitum a fronte delle eccezioni svolte dal debitore, purchè ciò avvenga nella prima udienza, come si desume dall’art. 40, comma 10, CCII che, pur regolando la difesa del resistente, è espressiva di un limite generale derivante dalla decisione che il Tribunale è chiamato ad assumere immediatamente[36]. 
Soluzione da accogliere sia perché una siffatta modifica della domanda comporta una emendatio libelli, valevole anche nel procedimento unitario, quale giudizio di cognizione, in difetto di norme che vietino detta modificazione; sia perché garantisce alla parte ricorrente la possibilità di reazione rispetto ad una difesa della parte resistente, che ha evidentemente introdotto dati afferenti alle soglie, non sempre conoscibili dalla controparte, e, quindi, contribuisce alla garanzia dell’effettività del diritto di difesa e al principio di economia processuale, posto a fondamento dell’orientamento evitando la necessaria introduzione di un nuovo procedimento sugli stessi presupposti[37]. 
Per quanto improbabile nella realtà, le argomentazioni che precedono giustificano anche il contrario, e cioè che il creditore che abbia chiesto l’apertura della liquidazione controllata, alla prima udienza, chieda in via subordinata l’apertura della liquidazione giudiziale, sempre che permanga l’affermato stato di insolvenza[38]. 
Sottolineate queste affinità e differenze quando l’iniziativa è presa da un creditore, la divaricazione tra le due procedure si amplia quando l’iniziativa è presa dal debitore perché, in tal caso, come già accennato, il sovraindebitato può trovarsi anche in stato soltanto di crisi[39]. Non solo, ma, in forza del quarto periodo del comma 3 dell’art. 268, “Quando la domanda di apertura della liquidazione controllata è proposta dal debitore persona fisica, si fa luogo all’apertura della liquidazione controllata se l’OCC attesta, nella relazione di cui all’articolo 269, comma 2, che è possibile acquisire attivo da distribuire ai creditori, anche mediante l’esercizio di azioni giudiziarie”. Conseguentemente è stato modificato il capoverso dell’art. 269 CCII, che ora richiede, tra i presupposti per l’accesso alla liquidazione controllata la presentazione della relazione dell’OCC, contenente l’attestazione di cui all’articolo 268, comma 3, quarto periodo, e che indichi “le cause dell’indebitamento e la diligenza impiegata dal debitore nell’assumere le obbligazioni”, ossia che esponga una valutazione sulla condotta del debitore nella causazione della condizione di sovraindebitamento. 
Da queste modifiche normative emergono due considerazioni: 
a-che uno dei presupposti oggettivi per l’apertura della liquidazione controllata non è l’esistenza di beni da liquidare, ma l’esistenza di attivo da distribuire, e nell’attivo rientrano certamente anche i crediti per futuri stipendi da lavoro dipendente[40], come meglio si vedrà in prosieguo. Principio che ora emerge chiaro dal combinato disposto degli artt. 268, comma 3 e 269, comma 2 dai quali si deduce senza ombra di dubbio che, qualora si accerti attraverso l’attestazione dell’OCC l’impossibilità di acquisire attivo da distribuire ai creditori, e, quindi di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura, la procedura di liquidazione controllata non può essere aperta e il debitore potrà avanzare la richiesta di esdebitazione dell’incapiente; 
b- che è richiesta, per l’apertura della procedura minore, una valutazione sulla condotta del debitore nella causazione della condizione di sovraindebitamento, già presente nella legge n. 3/2012, ove essa, nella elaborazione giurisprudenziale, si esprimeva in termini di non immeritevolezza. 
E’ vero che la S. Corte[41] ha statuito che “L'ammissione del sovraindebitato alla procedura di liquidazione controllata non ha carattere premiale, né comporta di per sé alcun vantaggio per il debitore, sicché non può essere negata sulla base di un giudizio di non meritevolezza soggettiva, fondato su circostanze indizianti la negligenza o l'imprudenza del debitore nella causazione del proprio sovraindebitamento, le quali potranno eventualmente avere rilievo nella successiva fase di esdebitazione, ai sensi dell'art. 390 D.Lgs. n. 14/2019”; tuttavia una tale valutazione è coerente con il testo del comma 2 dell’art. 269 prima della modifica introdotta con il D.Lgs. n. 136 del 2024, ma appare ingiustificata alla luce di detta apportata modifica, in virtù della quale al ricorso deve essere allegata una relazione che, tra l’altro, indichi “le cause dell’indebitamento e la diligenza impiegata nell’assumere le obbligazioni”. La necessità di allegare al ricorso una relazione con questo contenuto, che riguarda proprio la meritevolezza del debitore, non può che essere funzionale all’accesso alla procedura, anche se l’ottica finale rimane quella della esdebitazione, sia perché l’art. 270, comma 1, richiede che per l’apertura il tribunale debba verificare la ricorrenza ei presupposti di cui agli artt. 268 e 269 (e quindi anche l’esistenza di una tale relazione), sia perché, altrimenti, non si capirebbe la ragione di richiedere una relazione sulla meritevolezza fin dal momento iniziale della presentazione del ricorso introduttivo. Anche l’art. 282 richiede per l’esdebitazione che il debitore non abbia determinato la situazione di sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode”, ma non fa alcun riferimento alla relazione dell’OCC, dimostrando che ai fini dell’esdebitazione il giudice deve tenere conto sì di quanto già rilevato dal gestore, ma anche della emersione di fatti nuovi sopravvenuti nel corso della procedura. 
Questi indicati sono due elementi tipici della liquidazione controllata in quanto tra i requisiti per l’accesso alla liquidazione giudiziale non è richiesta, né quando l’iniziativa è presa da un creditore né quando è presa dal debitore, una valutazione preventiva sulle capacità satisfattive, né è richiesta alcuna valutazione di meritevolezza[42]; in questa procedura eventuali comportamenti illeciti del “liquidando” potranno emergere dalle relazioni del curatore ed avere le conseguenze di legge, ma non certo impedire l’apertura della liquidazione giudiziale. 
Inoltre, l’art. 33 CCII, nella sua ultima versione, dopo aver posto, nel comma 1, la regola che sia la liquidazione giudiziale che quella controllata possono essere aperte entro un anno dalla cessazione dell’attività, nel comma 1 bis, introduce un’altra differenza tra i debitori persone fisiche e gli altri, consentendo solo ai primi di poter chiedere l’apertura della liquidazione controllata anche oltre il limite annuale, fermo restando che gli imprenditori individuali sopra soglia, cancellati da oltre un anno, rimangono sottratti alla liquidazione giudiziale, anche se richiesta dal debitore insolvente; deroga quella di cui al comma 1 bis introdotta dal D.Lgs. n. 136/2024 al dichiarato (nella Relazione illustrativa) fine di agevolarne l’esdebitazione, di modo che “la regolazione dell’insolvenza di esposizioni debitorie che residuino da un’impresa individuale cancellata da più di un anno sono rimesse alla scelta del debitore, inevitabilmente condizionata dalla prospettiva di accesso all’esdebitazione”[43]. 
Da un lato, quindi, il legislatore favorisce l’accesso alla liquidazione controllata permettendolo anche ai debitori, che se soprasoglia non potrebbero più accedere alla liquidazione giudiziale per il decorso dell’anno dalla cancellazione e, dall’altro, cerca di scongiurare l’accesso alla procedura minore innalzando il limite quantitativo di fallibilità riferito ai debiti scaduti e non pagati da trentamila fissato dall’art. 49, comma 5 per la liquidazione giudiziale, a cinquantamila, teso proprio ad evitare un eccessivo ricorso allo strumento della liquidazione controllata da parte dei creditori.
4 . La presentazione della domanda da parte del sovraindebitato. Assistenza tecnica, ruolo dell’OCC, documentazione, competenza
Dall’espressa disposizione del comma 1 dell’art. 268 e del pari comma dell’art. 269, oltre che del comma 2 di quest’ultimo, si ricava che la domanda di apertura della liquidazione controllata proposta dal debitore (l’art. 269 si occupa solo della domanda proposta da costui) deve essere formulata con ricorso; il che rimanda all’art. 40, rientrante nella sezione II del capo IV del titolo III richiamata dall’art. 270, comma 5, sicché la domanda in questione deve avere la stessa forma e contenuto di quella rivolta ad ottenere l’apertura della propria liquidazione giudiziale, fermo restando che nella fattispecie in esame dovrà essere fornita la prova della situazione di sovraindebitamento e dell’appartenenza del debitore ad una delle categorie indicate nella lett. c) del comma 1 dell’art. 2. In virtù del comma 2 dell’art. 40, quindi, per le società anche la domanda di accesso alla liquidazione controllata deve essere approvata a norma dell’art. 120 bis e sottoscritta da coloro che ne hanno la rappresentanza[44], in tal modo sopprimendo la possibilità di deroghe statutarie ala competenza degli amministratori, in sintonia con il ridisegnato art. 2086 c.c.[45].
A norma del comma 1 dell’art. 269, il ricorso per l’apertura della liquidazione controllata “può essere personalmente presentato dal debitore, con l’assistenza dell’OCC” o del gestore. Di conseguenza, se qualche dubbio può permanere circa la necessità della difesa tecnica per il debitore che presenta una domanda di apertura della liquidazione giudiziale in proprio stante la dizione del comma 5 dell’art. 40[46], la formula di cui al comma 1 dell’art. 269 sopra riportata, che sottolinea che la domanda può essere presentata personalmente dal debitore, unita alla previsione dell’assistenza dell’OCC, che svolge una funzione di ausilio del debitore nella presentazione della domanda, e in aggiunta alla mancanza di qualsiasi disposizione sanzionante la inammissibilità o altro della domanda formulata direttamente dal debitore, inducono a superare i contrasti sul punto sorti nell'assetto dato dalla legge n. 3/2012[47], e ritenere che non sia indispensabile, seppur non vietato, la presenza della difesa tecnica per il debitore che presenta una domanda di apertura della liquidazione controllata[48]. La norma si pone, quindi, come derogatoria della regola generale di cui al comma 2 dell’art. 9 per agevolare l’accesso alla procedura di chi si trova nella particolare situazione economica di stato di sovraindebitamento, che, però, per quanto detto, è identificato in alcuni soggetti, tra cui le imprese sotto soglia e l’impresa agricola. 
Come è stato correttamente statuito con riferimento alla L. n. 3 del 2012, “la facoltà di rinuncia alla domanda da parte del debitore che abbia chiesto la “liquidazione di tutti i suoi beni”, a norma dell’art. 14 ter, comma 1, L. n. 3/2012, sussiste solo fino a che il tribunale non abbia pronunciato il decreto di apertura della procedura ai sensi dell’art. 14 quinquies L. n. 3 cit.; tale facoltà, sebbene non vietata dalla legge (che, però, neppure la prevede espressamente), dev’essere, per contro, senz’altro esclusa una volta che il tribunale, con il decreto previsto dall’art. 14 quinquies L. n. 3 cit., abbia formalmente dichiarato l’apertura della procedura di liquidazione; il decreto di apertura della procedura di liquidazione, in ragione degli effetti sostanziali che produce, non può essere, infatti, rimosso se non in accoglimento del rimedio impugnatorio previsto dalla legge, e cioè il reclamo al tribunale (artt. 14 quinquies, comma 1, e 10, comma 6)”, altrimenti, in mancanza di impugnazione, il procedimento “può essere arrestato, al pari del fallimento, esclusivamente per effetto della volontà di tutti i creditori che, non presentando le domande di partecipazione, evitano, in fatto, che si proceda alla liquidazione dei beni (se non nei limiti in cui sia necessario per il pagamento delle prededuzioni) e impongono così la pronuncia del decreto di chiusura del procedimento”[49]. Queste giuste considerazioni sono estensibili pari pari all’attuale liquidazione controllata e rendono compatibile l’applicazione a questa procedura dell’art. 443, che regola alcuni effetti della rinuncia alla domanda di cui all’art. 40. 
Come già accennato, nella liquidazione controllata è presente, fin dal primo momento, la figura dell’OCC, incaricato dal debitore, nella persona del gestore da quest’organismo nominato, con un ruolo composito e variegato e sicuramente molto invasivo; invero, il gestore, oltre ad assistere il debitore nella presentazione del ricorso - che dovrebbe consistere nella sola materiale assistenza nel deposito del ricorso in modalità telematica data la sua terzietà[50] - di fatto si traduce anche in una opera di collaborazione nella redazione del ricorso[51] e provvede ad una serie di incombenze, tra cui fondamentale è la redazione della relazione di cui all’art. 268, comma 3, quarto periodo[52]. 
La figura dell’OCC è ovviamente estranea alla liquidazione giudiziale, ed anche nella procedura di liquidazione controllata assurge ad un ruolo tanto più importante quanto più bisognoso di assistenza è il debitore, non potendosi mettere sullo stesso piano l’attività svolta da tale organismo nella procedura che riguarda il consumatore, che ha bisogno di assistenza di un esperto, e in quella che attiene l’impresa sotto soglia o una impresa agricola sopra soglia, che dispone di propri consulenti. 
All’esito della liquidazione controllata, quando il gestore indicato dall’OCC sia stato nominato anche liquidatore, va liquidato un unico compenso in favore dell’OCC, tenendo conto di quanto eventualmente convenuto dall’organismo con il debitore[53], nel mentre, in caso di diversità di soggetti va liquidato un autonomo compenso in favore del diverso professionista nominato quale liquidatore; in ogni caso il compenso è determinato ai sensi del D.M. n. 202/2014 che differisce dal D.M. n. 30/2012, che regola i compensi del curatore, non tanto per i valori (anche se poi il totale va ridotto in una misura compresa tra il 15% e il 40% giusto il disposto del comma 4, art. 16 D.M. n. 202/2014), quanto per la previsione della sussidiarietà dei criteri dettati, che si applicano solo in difetto di accordo con il debitore che ha incaricato l’OCC e della distribuzione tra OCC e gestore[54]. 
Ad ogni modo, anche quando l’attività dell’OCC è equivalente a quella di un legale, il compenso che compete a tale organismo, seppur riferito alla sola fase prodromica, è assistito da prededuzione in forza del disposto di cui all’art. 6, comma 1, lett. a), nel mentre questa collocazione preferenziale non è contemplata in favore dei professionisti che hanno assistito il debitore nella predisposizione e nell’elaborazione della domanda e del piano (legale, advisor, ecc.), egualmente a quanto accade nella liquidazione giudiziale, non essendo tali collaboratori contemplati nell’art. 6 né i loro compensi configurati come prededucibili da altre norme[55]. 
La disciplina sulla liquidazione controllata non contiene una elencazione dei documenti che il debitore sovraindebitato deve presentare al momento in cui chiede l’accesso a tale procedura, a differenza del disposto dell’art. 39 che indica gli obblighi, anche documentali, a carico del debitore insolvente che chiede l’accesso ad una procedura di liquidazione giudiziale. Tale norma non è compresa nel richiamo di cui al comma 5 dell’art. 270, in quanto la sezione seconda inizia con l’art. 40, ma tale richiamo potrebbe essere contenuto nell’art. 65, se si muove dalla ipotesi in precedenza prospettata che questo articolo possa essere applicabile anche alla liquidazione controllata. 
Nel caso in esame, tuttavia, questa problematica non è significativa perché, quand’anche si ritenesse applicabile l’art. 65, il richiamo dell’art. 39 non significherebbe che l’intera documentazione indicata da questa norma sia richiesta in quanto anche l’applicazione della norma richiamata è condizionata alla compatibilità, di tal che quando la procedura coinvolge consumatori o professionisti parte della documentazione elencata nell’art. 39 non è compatibile. Di contro, seppur si ritenesse non operante l’art. 65, il sovraindebitato non sarebbe certo esente da qualsiasi obbligo in proposito perché il comma 2 dell’art. 269 richiede che al ricorso debba essere allegata una relazione redatta dall’OCC che, seppur non più particolareggiata come la definiva la legge n. 3/2012, “esponga una valutazione sulla completezza e la attendibilità della documentazione depositata a corredo della domanda e che illustri la situazione economico patrimoniale e finanziaria del debitore”, il che val quanto dire che una qualche documentazione deve essere prodotta dal debitore altrimenti l’OCC non può svolgere il suo compito. Inoltre, emergendo dall’art. 121 che l'onere della prova in ordine al mancato superamento delle soglie di cui all'art. 2, coma 1, lett. d), CCII “grava sul debitore”, sia quando questi vuole bloccare l’apertura della liquidazione giudiziale richiesta da un creditore che quando agisce di sua iniziativa domandando l’accesso alla liquidazione controllata, se ne deve dedurre che questi, per ottenere il provvedimento richiesto , “deve dimostrare positivamente, mediante il deposito dei bilanci e documentazione contabile o altra idonea evidenza, di non aver superato le soglie previste per attivo patrimoniale, ricavi e debiti”[56]. 
In questa situazione, si può dire che il sovraindebitato sia tenuto alla presentazione di quella documentazione minima che, in considerazione della natura del soggetto che chiede l’accesso, sia idonea a dimostrare l’ammissibilità e la fondatezza della domanda, nonché a consentire all’OCC le valutazioni di cui sopra per redigere la propria relazione sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria[57]. Soluzione che sembra conciliare meglio delle altre la specialità e la semplificazione della procedura in esame in quanto adegua l’obbligo documentale proprio alle caratteristiche del debitore interessato, senza disporre una regola unica per situazione disparate e variegate[58], fermo restando l’obbligo della cancelleria di cui all’art. 42, rientrante nel richiamo contenuto nel comma 5 dell’art. 270. 
Quando la domanda è presentata dal creditore questa problematica non si pone in quanto trova sicuramente applicazione l’art. 42, contenuto nella sezione II, del capo IV del titolo III, espressamente richiamata dall’art. 270, comma 5[59], senza neanche dover fare appello al più generalizzato richiamo all’intero titolo II contenuto nel più volte citato art. 65. 
Il ricorso, a norma dell’art. 268, comma 1, va depositato presso il Tribunale competente ai sensi dell’art. 27, comma 2, ossia al tribunale nel cui circondario “il debitore gestisce i suoi interessi in modo abituale e riconoscibile, secondo la definizione del COMI (centre of main interests), data dall’art. 2, comma 1, lett. m), che ha trovato una più dettagliata declinazione nell’art. 27 [60]; poiché questa norma fissa la competenza anche per l’acceso alla liquidazione giudiziale, la similitudine, quanto al profilo della scelta dell’organo giurisdizionale competente, tra le due procedure è stabilita dalla legge. 
Piuttosto questo richiamo al solo articolo 27, comma 2 (e implicitamente al comma 3), fa nascere il dubbio se nella liquidazione controllata sia richiamato l’intero complesso delle regole sulla competenza e sul conflitto di competenza dettate dagli artt. 29-31 CCII, (la regola della vis attractiva concursus sulle azioni che derivano dalla liquidazione controllata, posta dall’art. 32 è in realtà già in embrione contenuta nel comma 2 dell’art. 27, richiamato). 
Se si muove dalla premessa che l’art. 65, sovrapponendosi alla norma specifica dell’art. 269, richiama anche per la liquidazione controllata l’intero titolo III, l’attrazione dell’intero insieme normativo degli artt. da 26 a 55 nella liquidazione controllata è suffragata da detto richiamo; tuttavia, in caso contrario si può convenire con chi ammette l’effetto attrattivo del citato complesso di norme “per analogia (stante la ricorrenza dell’eadem ratio e, di converso l’assenza di profili d’incompatibilità)”[61], tanto più che con il decreto correttivo del 2024 la procedura di liquidazione controllata è stata inserita all’interno del comma 1 dell’art. 28, per cui espressamente ora non rileva lo spostamento del COMI intervenuto nell’anno antecedente al deposito della domanda di accesso alla liquidazione giudiziale come a quella di liquidazione controllata. Quest’ultimo intervento evidenzia come per il legislatore non esista alcuna incompatibilità ad applicare non solo gli artt. 27 e 28, ma l’intero complesso normativo sulla competenza dettato per la procedura maggiore anche a quella minore, posto che non vi sarebbe alcuna giustificazione se per questa non vigessero regole analoghe una volta fissati i principi base della determinazione della competenza con il richiamo dell’art. 27 e del trasferimento del COMI di cui all’art. 28. 
Il procedimento per ottenere l’apertura della liquidazione controllata non è sostanzialmente regolamentato in quanto la sua disciplina è ricavabile da quella del procedimento unitario per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza di cui al titolo III e, in particolare, dagli artt. 40 e 41, espressamente richiami dal comma 5 dell’art. 270. Di conseguenza, a parte la presenza delle relazioni dell’OCC, la procedura per la decisione sulla domanda di apertura della liquidazione controllata è ripresa da quella dettata per la liquidazione giudiziale, tant’è che l’art. 270, comma 1, si limita a dire che il tribunale deve appurare la sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 268 e 269 e, cioè, dei presupposti soggettivi ed oggettivi di cui si è detto, della legittimazione del richiedente, del superamento della soglia indicata delle passività scadute e non pagate, della competenza a statuire, del deposito delle relazioni da parte del gestore, della presenza della relazione dell’OCC richiesta dal comma 3 dell’art. 268, ecc.., ossia della ricorrenza di quei requisiti ulteriori tipizzanti la procedura minore. 
Quanto alla ripartizione dell'onere probatorio di questi elementi valgono i principi generali di cui all'art. 2697, c.c. per cui, se è il debitore che chiede l’apertura della liquidazione controllala compete a lui fornire la prova di tutti i requisiti che giustificano una tale domanda, e tale onere si riversa sul creditore ove sia questi a formulare analoga domanda, avverso la quale il debitore (a meno che non voglia optare per la liquidazione giudiziale, nel qual caso deve fornire la prova che non è impresa sottosoglia, che non è imprenditore agricolo, ecc.) può difendersi con gli strumenti di cui si è detto dandone la relativa prova[62]. 
Anche in tema di concorso di domande, la disciplina della liquidazione controllata riprende i principi generali contenuti nell’art. 7, comma 1 - in parte riprodotti nell’art. 40 - sul procedimento unitario per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e per la dichiarazione di liquidazione giudiziale, disponendo che quando pendono più domande relative allo stesso debitore il tribunale deve riunirle per trattarle assieme, dando priorità alle soluzioni diverse dalla liquidazione. 
In linea con questi principi, l’art. 270, comma 1, prevede che il tribunale, verificati i presupposti di cui agli artt. 268 e 269, dichiara con sentenza (non più con decreto, come previsto dall’art. 14 quinquies legge n. 3/2012) l’apertura della liquidazione controllata, “in assenza di domande di accesso alle procedure di cui al titolo IV” e il comma 1 dell’art. 271 dispone che se la domanda di liquidazione controllata è proposta dai creditori il debitore, entro la prima udienza, può presentare domanda di accesso a una procedura di cui al titolo IV, capo II (ossia di accesso alla procedura di ristrutturazione dei debiti del consumatore o di concordato minore), depositando la documentazione prevista dagli articoli 67, comma 2, o 76, comma 2[63] oppure chiedendo un termine per presentarla, formulando, in questo secondo caso, quella che è stata definita[64] una domanda “in bianco” di omologa della ristrutturazione dei debiti o del concordato minore, analoga a quella dell’art. 44. Il tutto all’evidente scopo di consentire la preventiva valutazione delle domande di ristrutturazione dei debiti del consumatore e di concordato minore nella logica di favorire strumenti di conservazione del patrimonio e di salvataggio dell’impresa (quando si tratta di impresa minore, di start up o di impresa agricola) su quello prettamente liquidatorio (così come, per le imprese maggiori, la domanda di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione va esaminata prima della richiesta di liquidazione giudiziale), tant’è che il comma 2 dell’art. 271 chiarisce che nella pendenza del termine concesso dal giudice per presentare la domanda piena “non può essere dichiarata aperta la liquidazione controllata”, con l’aggiunta che alla scadenza di detto termine “senza che il debitore abbia presentato la domanda, oppure in ogni caso di mancata apertura o cessazione delle procedure di cui al titolo IV, capo II,[65] il tribunale provvede ai sensi dell’articolo 270, commi 1 e 2”. 
In sostanza, pur con qualche differenza, in entrambe le procedure il debitore, in considerazione del carattere residuale delle procedure liquidatorie rispetto a quelle conservative, mantiene il potere di tentare una soluzione concordata con i creditori pur se un creditore abbia già chiesto l’apertura di una procedura liquidatoria, evitando, così, che la sola pendenza dell’istanza concorsuale faccia decadere altre opzioni. 
Tra le opzioni è ora da comprendere anche il ricorso alla composizione negoziata in quanto l’art. 25 quiquies, nella sua ultima versione dovuta al D.Lgs. n. 136/2024, così dispone: “L'istanza di cui all'articolo 17, non può essere presentata dall'imprenditore in pendenza del procedimento introdotto con domanda di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza anche nelle ipotesi di cui agli articoli 44, comma 1, lettera a) (riferimento agli strumenti di composizione della crisi e dell’insolvenza, richiesti anche in via prenotativa), e 74 (concordato minore) o con ricorso ai sensi dell’articolo 54, comma 3 (richiesta anticipata di misure protettive nella ristrutturazione dei debiti). Previsione che chiarisce inequivocabilmente che l’accesso alla composizione negoziata è possibile solo in pendenza della fase istruttoria della liquidazione giudiziale proposta da un creditore, dal PM o dagli organi e le autorità amministrative che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa e non quando il debitore stesso abbia già intrapreso un percorso di ristrutturazione di tipo giudiziale. 
Soluzione questa che non contrasta, anzi ben si concilia con la previsione dell’art. 17, comma 3, lett. d) che richiede all’imprenditore che presenta domanda di nomina dell’esperto di produrre una dichiarazione (resa ai sensi dell’art. 46 D.P.R. n. 445 del 2000) oltre che sulla pendenza, nei suoi confronti, di ricorsi per l’apertura della liquidazione giudiziale o per l'accertamento dello stato di insolvenza, allo scopo di verificarne lo stato, anche “una dichiarazione con la quale attesta di non avere depositato ricorsi ai sensi dell’articolo 40, anche nelle ipotesi di cui agli articoli 44, comma 1, lettera a), e 54, comma 3”, proprio perché la presentazione di uno di questi ricorsi è ostativa alla nomina dell’esperto da parte della apposita commissione istituita presso le camere di commercio, nel mentre non lo è la pendenza di ricorsi per l’apertura della liquidazione giudiziale, la cui conoscenza ha lo scopo di evitare che sia emessa la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale fin quando dura la composizione. Il richiamo nell’art. 25 quiquies al concordato minore fa capire che questa disposizione è applicabile anche alla liquidazione controllata, sicchè anche la pendenza dell’istruttoria per l’apertura di tale procedura non ostacola la presentazione di una domanda di composizione negoziale. 
L’art. 66 consente ai membri della stessa famiglia di presentare una domanda cumulativa di accesso ad una delle procedure di sovraindenitamento - tra le quali è da comprendere anche la liquidazione controllata a causa del riferimento (nella sua ultima versione) all’accesso “ad una delle procedure di cui all’art. 65, comma 1” - quando siano conviventi o quando il sovraindebitamento abbia un’origine comune; inoltre il comma 2 dell’art. 66 prende in considerazione espressamente l’apertura della liquidazione controllata di gruppo consentendola anche quando uno o più componenti della stessa famiglia presentino i requisiti per accedere all’esdebitazione dell’incapiente di cui all’art. 283 e quando i requisiti previsti dall’art. 268, comma 3, quarto periodo, sussistono nei confronti anche di un solo componente del gruppo familiare. La norma non riconosce all’incapiente la legittimazione a presentare una domanda di apertura della liquidazione controllata né la possibilità di presentare una unica domanda ex art. 283, ove tutti siano incapienti, ma amplia le ipotesi di accesso alla procedura in esame nel senso che ammette l’accesso alla liquidazione controllata anche se uno o alcuni dei membri della famiglia sono totalmente incapienti, purché i requisiti previsti dall’art. 268, comma 3, quarto periodo, sussistano nei confronti anche di un solo componente del gruppo familiare. 
È evidente il carattere personale dei debitori che possono usufruire delle procedure familiari, che mal si addice alle imprese, seppur individuali facenti capo a membri della stesa famiglia, siano esse sopra o sotto soglia, tra le quali può raffigurarsi una società di fatto, per cui la stessa facoltà non è data per l’accesso alla liquidazione giudiziale. 
5 . Apertura della procedura. Il provvedimento del Tribunale
Si è già detto che entrambe le procedure di liquidazione vengono dichiarate aperte con sentenza del tribunale in composizione collegiale, la cui indicazione nell’art. 270 trascina con sé l’applicazione alla liquidazione controllata anche degli artt. da 5 0 a 53, riguardanti il reclamo contro il provvedimento che rigetta la domanda di apertura della liquidazione giudiziale (art. 50), l’impugnazione della sentenza di apertura (art. 51, con l’appendice di cui all’art. 52) e gli effetti della revoca della liquidazione giudiziale (art. 53), anche perché si tratta di norme tutte comprese nella sezione seconda del titolo terzo, espressamente richiamate dal comma 5 dell’art. 270, e compatibili con la procedura minore, nonostante le differenze di cui si dirà. 
Le sentenze di apertura delle due procedure hanno, invero, un contenuto analogo, ma mettendo a confronto l’art. 49, comma 3, e l’art. 270 comma 2, si scoprono significative differenze. 
Con entrambe le sentenze viene nominato il giudice delegato e nella liquidazione giudiziale viene nominato il curatore e, se utile, uno o più esperti per l'esecuzione di compiti specifici in luogo del curatore; nella liquidazione controllata viene nominato un liquidatore confermando, in caso di domanda presentata dal debitore, l’OCC di cui all’articolo 269 (e per esso il gestore) o scegliendolo nel registro degli organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento. 
Non è tanto la differente denominazione dell’organo gestorio della procedura che interessa, essendo dovuta evidentemente al modello semplificato della procedura minore, focalizzata sulla liquidazione del patrimonio, rispetto a quella maggiore, ove il lemma curatore meglio interpreta la più complessa funzione di amministrazione e gestione dell’intero patrimonio del debitore, oltre che di liquidazione. Interessa invece notare come la diversa e più complessa struttura della liquidazione giudiziale abbia indotto il legislatore a prevedere, allo scopo di garantire maggiore efficienza e celerità alla procedura, accanto alla nomina di un curatore, quella di uno o più esperti, se il tribunale lo ritenga utile, per l’esecuzione di compiti specifici in luogo del curatore; esperti che, come prevede il comma 2 dell’art. 125, sono equiparati ai curatore e, come chiarisce l’ult. comma dell’art. 137, vanno pagati come se ci fosse una successione di curatori[66]. 
E’ di tutta evidenza che una simile previsione, dettata per far fronte alle complessità che il tribunale riscontra nella procedura di liquidazione giudiziale (la nomina degli esperti è infatti ammessa “se utile”, per cui è lasciata alla valutazione del giudice nel singolo caso) non possa essere trasfusa nella liquidazione controllata, la cui disciplina- che non prevede la nomina di esperti- improntata alla semplificazione, è giustificata, come più volte detto, dal riguardare una tale procedura “patrimoni tendenzialmente di limitato valore e situazioni economico finanziarie connotate da limitata complessità”, alla cui gestione e liquidazione è quindi sufficiente il liquidatore. 
Di contro nella liquidazione controllata, l’art. 270, comma 2, lett. b) suggerisce di confermare nelle funzioni di liquidatore l’OCC di cui all’articolo 269, o meglio il gestore nominato, in caso di domanda presentata dal debitore[67], sia per motivi di economia processuale sia per utilizzare l’esperienza del gestore accumulata bella fase precedente, in contrasto con i divieti posti per la scelta del curatore che abbia svolto attività nell’interesse della parte coinvolta. E’ vero che l’OCC, e per esso il gestore nominato, ha un ruolo indipendente, ma si è già detto come la sua assistenza possa essere molto invasiva e di affiancamento al sovraindebitato, sicché anche se questi non sceglie direttamente il gestore né può indicare il nominativo del gestore da confermare o da nominare, è da ritenere che il tribunale possa, anzi debba, al momento della conferma, vagliare la posizione del gestore per valutarne eventuali incompatibilità per conflitto di interessi o altro in modo da salvaguardare il principio della terzietà e imparzialità. 
Trovano applicazione, invece, per il liquidatore i divieti posti dall’art. 35, comma 4 bis, 35.1 e 35.2 del codice antimafia di cui al D.Lgs. n. 159/2011[68], come modificato dal D.Lgs. n. 54/2018, così come per il curatore, stante l’espresso richiamo contenuto nel comma 3 dell’art. 270; ed, essendo sopravvissuta la prassi di nominare, in mancanza di espressa disposizione[69], alla carica di curatore della liquidazione giudiziale il professionista che ha svolto il ruolo di commissario in una precedente procedura a carico dello stesso debitore in ragione di contemperamento dele spese, si spiega la disposizione che consente la conferma del gestore nel ruolo di liquidatore. 
Rimane ferma comunque la possibilità per il tribunale di nominare un soggetto diverso come liquidatore scegliendolo nel registro degli organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento[70], senza più il vincolo della ricorrenza di giustificati motivi, richiesti nella versione della norma precedente all’intervento del terzo decreto correttivo del 2024 e, secondo l’ultima versione della lett. b) del comma 2 dell’art. 270, la scelta deve ricadere tra i gestori aventi il domicilio nel distretto di corte d’appello cui appartiene il tribunale competente (a differenza della precedente versione che indicava come bacino di scelta il solo circondario di detto tribunale), salva deroga da motivare espressamente e comunicare al presidente del tribunale; tutto ciò al fine- indicato nella Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 136/2024- di “meglio individuare il registro al quale il singolo OCC o professionista deve essere iscritto e per consentire al giudice una migliore valutazione sulla professionalità necessaria per una gestione rapida ed efficiente della liquidazione”. 
La disciplina sulla liquidazione controllata non prevede un termine entro cui il liquidatore nominato debba accettare la carica, né della dichiarazione di disponibilità, né tratta delle conseguenze della mancata accettazione entro un termine, né della sostituzione automatica del liquidatore se questi non accetta, a differenza di quanto contemplato dall’art. 126 per il curatore; il mancato richiamo di questa norma, l’attribuzione al liquidatore di alcune espresse incombenze (quelle di cui alle lett. f) e g) del comma 2 dell’art. 270, come precisato nel comma 4 dello stesso articolo) e non di quelle aventi ad oggetto le fattispecie indicate, nonché la maggiore elasticità della procedura minore fanno intendere che questo plesso normativo non si applichi al liquidatore, lasciando la libertà al tribunale di vagliare di volta in volta se vi è un ritardo giustificabile nell’accettazione, espressa o tacita, e nello svolgimento dele attività a tale organo demandate. 
Per gli stessi motivi sono indotto a ritenere che non sia tenuto il liquidatore al complesso compito informativo di cui all’art. 130, incompatibile con una procedura snella e semplificata; inoltre la materia delle relazioni è regolamentata nella sede della liquidazione controllata dall'art. 275, per il quale "Il programma di liquidazione è eseguito dal liquidatore, che ogni sei mesi ne riferisce al giudice delegato. Il mancato deposito delle relazioni semestrali costituisce causa di revoca dell'incarico ed è valutato ai fini della liquidazione del compenso”, per cui il liquidatore deve attenersi a questa prescrizione specifica (che non prevede che la relazione periodica semestrale sia inviata ai creditori[71]). e non a quella generale di cui all’art. 130, pur se non è da escludere che il tribunale o il giudice delegato possa stabilire di volta in volta, in considerazione della complessità della procedura, i temi e le modalità delle relazioni che il liquidatore deve rendere. 
Questa è anche la visione dell’Agenzia delle Entrate che con la risposta all’interpello n. 913-369/2025, dopo aver premesso che gli obblighi fiscali non possono derivare da analogie o interpretazioni estensive, ma devono avere base nella legge, ha precisato che il curatore fallimentare è esplicitamente identificato da norme di legge (art. 31 D.P.R. 602/1973; art. 8 D.Lgs. n. 175/2014) come soggetto obbligato agli adempimenti fiscali, ma nessuna norma prevede un’analoga attribuzione in capo al liquidatore giudiziale di una procedura di liquidazione controllata di società, sicché, in assenza di una disposizione normativa espressa, gli obblighi dichiarativi restano in capo al legale rappresentante della società e non al liquidatore nominato per la procedura. Ed egualmente con l'interpello n. 177/E del 2025, ha chiarito che, nell'ambito della procedura di liquidazione controllata, eventuali plusvalenze da cessione di immobili non possono essere soggette a tassazione secondo l'articolo 183 del TUIR[72], poiché il CCII non prevede un rinvio specifico alla liquidazione giudiziale; pertanto, si applicano le regole ordinarie per la determinazione del reddito imponibile[73]. 
Sicuramente il liquidatore può avvalersi, nell’espletamento delle proprie funzioni, della cooperazione di terzi soggetti. Un forte indizio in tal senso viene dal comma 3 dell’art. 274 che, nella sua ultima versione, afferma il potere del giudice delegato di liquidare i compensi degli ausiliari nominati dal liquidatore e di revocare gli incarichi agli stessi conferiti da quest’ultimo - in perfetta corrispondenza a quanto previsto, per la liquidazione giudiziale, dall’art. 123, comma 1, lett. d), CCII -, sicché non può esservi dubbio che competa al liquidatore la nomina delle persone la cui opera è richiesta nell’interesse della procedura, in continuità con il nuovo assetto di divisione dei poteri tra giudice delegato e curatore instaurato con la riforma del 2006, che ha scisso il potere di nomina da quelli di revoca e di liquidazione dei compensi: lasciando questi ultimi due al giudice delegato e attribuendo il primo al curatore in via autonoma e, con la norma richiamata, al liquidatore della liquidazione controllata. Essendo, peraltro, la procedura finalizzata alla liquidazione dei beni di cui ha l’amministrazione il liquidatore e svolgendosi tale attività secondo le disposizioni sulle vendite dettate dall’art. 216 (cfr. art. 275, comma 2), diventa inevitabile che l’organo gestorio possa servirsi di ausiliari e collaboratori, quali ad esempio uno stimatore; così come essendo legittimato all’esercizio di azioni giudiziarie è implicito che possa nominare difensori[74] 
Il problema è capire l’estensione di tale potere e, in particolare, se esso comprenda anche quello di nominare un delegato o un coadiutore. Per il delegato opterei per la risposta positiva giacché questi viene nominato, più che nell’interesse della procedura, nell’esclusivo interesse del curatore che, invece di svolgere personalmente una attività, si fa sostituire da altri, tant’è che l’onere per il compenso, liquidato dal giudice, è detratto dal compenso del curatore, giusto il disposto dell’art. 129, comma 1, che, pertanto, può essere trasferito anche nella liquidazione controllata per far fronte alle esigenze sostitutive del liquidatore, fermo restando che è il giudice delegato competente a rilasciare l’autorizzazione al posto del comitato dei creditori, non previsto nella procedura in esame. Nell’una, come nell’altra procedura, il substrato della norma è lo stesso: venire incontro ad esigenze del curatore o del liquidatore di delegare ad altri una porzione dell’attività sua propria, per cui il compenso liquidato al delegato viene decurtato da quello liquidato all’organo gestorio. 
Più complessa è la nomina del coadiutore in quanto questi, secondo la giurisprudenza della Cassazione[75] "svolgendo funzioni di collaborazione e di assistenza nell'ambito e per gli scopi della procedura concorsuale, assume la veste di ausiliario del giudice"; così che, sul punto del compenso, "la nomina di un coadiutore, ai sensi della L. fall., art. 32, comma 2, resta assoggettata alle norme pubblicistiche che regolano l'affidamento di incarichi nella procedura fallimentare e l'attività prestata non è perciò riconducibile all'esecuzione di un contratto d'opera professionale, atteso che la curatela si avvale di esso per ricevere un contributo tecnico al perseguimento delle finalità istituzionali". 
Questo traguardo cui è pervenuta la giurisprudenza è stato messo in dubbio dal codice della crisi in quanto l’art. 216, comma 1, prevede che “i beni acquisiti all’attivo della procedura sono stimati da esperti nominati dal curatore ai sensi dell’art. 129, comma 2, che riproduce il comma 2 dell’art. 32 L. fall., per cui ora è stabilito per legge che lo stimatore è un coadiutore, facendo saltare quella fragile linea di demarcazione tra il professionista incaricato di una prestazione d’opera da parte del curatore e il coadiutore; ed, infatti, nella Relazione al D.Lgs. n. 14/2019 si chiarisce che “Il coadiutore è un soggetto che affianca il curatore nell’esercizio delle sue funzioni quando è richiesto l’apporto di conoscenze che il curatore non è tenuto ad avere (ad esempio: assistenza in operazioni di inventario concernenti cose la cui utilità in vista della liquidazione è apprezzabile solo da tecnici). In tal modo qualsiasi esperto di cui venga chiesta l’opera nell’interesse della massa è un coadiutore[76]. 
In questa situazione di incertezza sul contenuto stesso della norma da applicare, sarebbe ovvio concludere che il comma 2 dell’art. 129 non possa trovare albergo nella liquidazione controllata, tuttavia poiché anche il liquidatore deve operare nell’interesse della procedura, ove, nonostante la semplificazione del rito, dimensionata su crisi e insolvenze di scarsa consistenza che non dovrebbe richiedere la presenza di coadiutori per la liquidazione controllata, si rendesse necessaria in questa la nomina di un coadiutore, non vedrei preclusioni a ricorrere a questa figura, sostituito anche in questo caso il giudice delegato al comitato dei creditori al fine di ottenere un contributo tecnico al perseguimento delle finalità istituzionali della procedura. 
La natura pubblica dell’incarico equipara il liquidatore al curatore sotto il profilo della responsabilità, per cui, nella comunanza della ratio, riterrei applicabile al liquidatore l’art. 136, nonché gli artt. 134 e 135, riguardanti la revoca e la sostituzione del curatore, non più collegata all’udienza di accertamento del passivo, e l’art. 131 sul deposito delle somme. 
In entrambe le procedure la sentenza che dispone l’apertura assegna un termine al debitore per depositare bilanci, scritture contabili e fiscali obbligatori, (art. 270, comma 2, lett. c) e pari lettera del comma 3 dell’art. 49, che ovviamente è più dettagliato), oltre che l’elenco dei creditori; tale incombenza deve essere realizzata entro tre giorni nella liquidazione giudiziale ed entro sette giorni in quella controllata, in considerazione, anche qui di una minore organizzazione contabile del sovraindebitato che, quindi, ha bisogno di maggior tempo per predisporre il corredo documentale richiesto. Ovviamente anche in questo caso l’ordine di deposito può essere realizzato solo da parte di chi è tenuto (o comunque tiene) alla redazione di quelle scritture, quali le imprese minori e le imprese agricole, nel mentre è inconcepibile pe i consumatori e in parte per i professionisti[77]. 
La differente organizzazione della verifica dello stato passivo nelle due procedure, di cui si dirà, giustifica i diversi contenuti della sentenza in queta materia, per cui manca nell’art. 270 la previsione, contenuta nell’art. 49, secondo cui il tribunale stabilisce il luogo, il giorno e l'ora dell'udienza in cui si procederà all'esame dello stato passivo, posto che a detto esame non provvede il giudice in una udienza all’uopo fissata. In entrambe è invece prevista l’assegnazione ai creditori e ai terzi che vantano diritti reali o personali su cose in possesso del debitore, di un termine perentorio diverso nella durata per la presentazione delle domande di insinuazione e rivendica, che nell’art. 270 è passato, con l’ultimo correttivo del 2024 da “non superiore a sessanta giorni” a “non superiore a novanta”. Inoltre la norma precisa che le domande di insinuazione al passivo e di restituzione o rivendica di beni appresi all’attivo della procedura vanno predisposte ai sensi dell’art. 201 e comunicate telematicamente al liquidatore, con applicazione del comma 3 dell’art. 10. 
L’art. 270 prevede, altresì, che il tribunale ordini la consegna o il rilascio dei beni facenti parte del patrimonio di liquidazione, salvo che non ritenga, in presenza di gravi e specifiche ragioni, di autorizzare il debitore o il terzo a utilizzare alcuni di essi giusto il disposto della lett. e) del comma 2), di cui si parlerà amplius nel paragrafo seguente; salvezza non considerata nella liquidazione giudiziale, né nell’art. 49, né nell’art. 142 (espressamente ora compreso nel richiamo di cui al comma 5 dell’art. 270), che, al primo comma, stabilisce che “la sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale priva dalla sua data il debitore dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di apertura della liquidazione giudiziale”, con esclusione di dei beni e diritti indicati nell’art. 146. E per dare forza al provvedimento, sia di consegna dei beni facenti parte del patrimonio del debitore che di attuazione della esenzione, il comma in esame conclude affermando che detto provvedimento “è titolo esecutivo ed è posto in esecuzione a cura del liquidatore secondo le disposizioni di cui all’art. 216, comma 2”. Espressione questa tecnicamente errata perché il titolo esecutivo è posto in esecuzione a norma degli artt. 605 e seguenti c.p.c. mediante una esecuzione per consegna o rilascio, ma è chiaro che il richiamo dell’art. 216, comma 2 - a sua volta ispirato all’art 560 c.p.c. - ha lo scopo di facilitare l’apprensione dei beni consentendo al liquidatore di provvedervi direttamente, su disposizione del giudice delegato, senza le formalità e i costi, di una esecuzione per consegna o rilascio. 
L’art. 270 prevede, infine, che la sentenza di apertura disponga l’inserimento della sentenza nel sito internet del tribunale o del Ministero della giustizia e, nel caso in cui il debitore svolga attività d’impresa, la pubblicazione presso il registro delle imprese (lett. f) e che ordini, quando vi sono beni immobili o beni mobili registrati, la trascrizione della sentenza presso gli uffici competenti (lett. g); incombenze poste a carico del liquidatore dal comma 4 dell’art. 270 e che nella liquidazione giudiziale sono effettuate in gran parte dal cancelliere per il rimando dell’art. 49 all’art. 45. Lo stesso comma 4 sembra porre a carico del liquidatore anche il compito di notificare la sentenza al debitore (dato che potrebbe anche non essere un imprenditore), ai creditori e ai titolari di diritti su beni acquisiti al patrimonio da liquidare, per i quali la notifica segna il dies a quo per il computo del termine assegnato per la presentazione delle domande di insinuazione al passivo e restituzione o rivendica; compiti anche questi lasciati alla comunicazione per estratto da parte del cancelliere dall’art. 45, richiamato dall’art. 49. Il cui contenuto è elencato nello stesso art. 45, comma 2. 
Manca, invece, nell’art. 270 la disposizione che nella liquidazione giudiziale autorizza il curatore ad accedere a banche dati fiscali, finanziari, e acquisire documentazione, ed altro analiticamente indicati nella lett. f) del comma 2 dell’art. 49. La mancata riproduzione di tale opzione nell’art. 270, che tratta la stessa materia cui è dedicato l’art. 49, fa intendere che nella liquidazione controllata il tribunale non possa concedere al liquidatore gli stessi poteri di indagine, sia perché tale carenza è in parte compensata dalla possibilità concessa dal comma 4 bis dell’art. 65 (introdotto con il D.Lgs. n. 136/2024) che concede all’OCC poteri di indagine, senza la necessità di ulteriori autorizzazioni[78], in detta disposizione elencati al fine della redazione delle relazioni da allegare alla domanda, sia in considerazione della minore complessità della procedura e della peculiarità dei debitori civili, dimenticando sempre che in essa possono essere coinvolte anche imprese, seppur minori, e imprese agricole sopra soglia con una serie di relazioni con creditori e altri che giustificherebbero indagini presso terzi, se non altro al fine di mettere il liquidatore in condizione di meglio formare lo stato passivo. Né è pensabile che questo potere riemerga nel caso la procedura interessi una impresa perché le regole dettate prescindono dalla tipologia del soggetto legittimato ad accedevi. 
Eguale discorso vale per la previsione del comma 2 dell’art. 130, nella parte in cui dispone che se il debitore non ottempera agli obblighi di deposito di cui all’art. 49, comma 3, lett. c) ovvero se le scritture contabili sono incomplete o inattendibili, il curatore “con riguardo alle operazioni compiute dal debitore nei cinque anni anteriori alla presentazione della domanda cui sia seguita l’apertura della liquidazione giudiziale, oltre alle ricerche effettuate ai sensi dell’articolo 49, comma 3, lettera f), può chiedere al giudice delegato di essere autorizzato ad accedere a banche dati, ulteriori rispetto a quelle di cui all’articolo 49 e specificamente indicate nell’istanza di autorizzazione” e inoltre, in forza del terzo comma, può essere autorizzato dal giudice delegato “a richiedere alle pubbliche amministrazioni le informazioni e i documenti in loro possesso”. 
Caratteristica della liquidazione controllata è anche la possibilità dell’apertura attraverso conversione da una delle procedure di ristrutturazione dei debiti del consumatore o di concordato minore, ma, in realtà, il termine conversione- che sottolinea la continuità tra la precedente e la successiva procedura- è mal utilizzato ed, infatti, a differenza di quanto previsto dall’art. 14 quater L. n. 3/2012, nelle rubriche degli articoli 73 e 83 CCII si parla di “ Apertura della liquidazione controllata dopo la revoca dell’omologazione” e le citate norme introducono una nuova procedura che segue alla revoca dell’omologa delle prima, richiede una istanza del debitore o di un creditore (e, come già ricordato, in caso di revoca conseguente ad atti di frode o ad inadempimento, su istanza anche del P.M.), e condiziona l’emissione della sentenza di apertura della liquidazione controllata alla verifica da parte del tribunale della sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 268 e 269. Elementi tutti che avvicinano la fattispecie della c.d. conversione alla ipotesi in cui venga in qualche modo meno un concordato e vi sia una richiesta di apertura di liquidazione giudiziale. 
La previsione dell’ultima parte del comma 1 dell’art. 270 comporta che l’apertura della liquidazione controllata nei confronti di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto c.c. produca l’apertura della stessa procedura anche nei confronti dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili; inoltre l’espresso dettato di applicazione dell’art. 256, in quanto compatibile, determina l’estensione nella liquidazione controllata dell’intera norma richiamata non ricorrendo motivi di incompatibilità tra questa e la struttura della procedura minore essendo la fattispecie riferibile allo svolgimento di attività di impresa che, sia essa esercitata da impresa maggiore o minore, presenta le stesse esigenze di coinvolgimento dei soci illimitatamente responsabili nella soddisfazione dei creditori sociali. Sotto questo profilo non vi sono quindi differenze con la liquidazione giudiziale e l’applicazione dell’intero art. 256 è perfettamente compatibile con la struttura della procedura minore. 
6 . Gli effetti dell’apertura della procedura per creditori e debitori
Gli effetti che derivano dall’apertura della procedura di liquidazione controllata sono analoghi a quelli che discendono dalla apertura della liquidazione giudiziale. 
Già il deposito della domanda “sospende- recita il comma 5 dell’art. 268- ai soli effetti del concorso, il corso degli interessi convenzionali o legali fino alla chiusura della liquidazione, a meno che i crediti non siano garantiti da ipoteca, pegno o privilegio e salvo quanto previsto dagli articoli 2749, 2788 e 2855, secondo e terzo comma, del codice civile”; disposizione che unifica il dettato del comma 1 dell’art. 154 e del comma 4 dell’art. 153, che, tuttavia, fanno decorrere detto effetto sospensivo dall’apertura della procedura di liquidazione giudiziale. Inoltre manca qualsiasi richiamo o riferimento all’art. 153, comma 3, nella parte in cui dispone, in deroga alla disciplina generale dell’art. 2749, comma 2, c.c., (e quindi in via eccezionale) che il decorso degli interessi sui crediti assistiti da privilegio generale cessa alla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito riceve anche solo parziale soddisfazione[79], sicché nella procedura di liquidazione controllata trova applicazione la regola generale della sospensione del decorso degli interessi fino alla data della vendita, riaprendo la superata controversia sulle modalità di calcolo degli interessi in caso di vendite plurime di beni mobili distanziate nel tempo. In sostanza, rispetto alla liquidazione giudiziale, la norma di cui all’art. 268 produce, quanto a trattamento interessi, una modifica generalizzata del dies a quo dell’inizio della sospensione del decorso e una modifica del dies ad quem del decorso della sospensione dei crediti assistiti da privilegio generale. 
Si è già detto che con la sentenza che dispone l’apertura della liquidazione controllata viene attuato lo spossessamento del debitore, che coinvolge l’intero patrimonio del sovraindebitato con esclusione dei beni e diritti indicati nel comma 4 dell’art. 268, che non è completamente sovrapponibile al corrispondente art. 146, dettato per la liquidazione giudiziale. 
La differenza più rilevante sembra essere quella della contemporanea previsione nell’art. 268, comma 4, della espressa esclusione dalla procedura dei crediti impignorabili ex art. 545 c.p.c. (lett. a), e “delle cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge” (lett. d), nel mentre l’art. 146 riporta soltanto quest’ultima causa di esenzione. Posto che entrambe le norme escludono dall’acquisizione gli emolumenti retributivi e pensionabili percepiti dal debitore nei limiti, indicati dal giudice, di quanto occorre al mantenimento suo e della sua famiglia (art. 146, comma 1, lett. b) e art. 268, comma 4 lett. b), la previsione della non comprensione nella liquidazione controllata dei crediti impignorabili ai sensi dell’art. 545 porta inevitabilmente delle limitazioni alla facoltà del giudice di stabilire la quota dello stipendio o della pensione che può essere trattenuta dal sovraindebitato, come acutamente sottolineato da chi ha cercato di conciliare le due disposizioni[80], nel mentre un tale problema non si pone nella liquidazione giudiziale. 
Di contro, in entrambe le procedure la sussistenza di un vincolo di destinazione trascritto su un bene immobile determina un’impignorabilità relativa del bene designato, impedendo, ai sensi dell’art. 146, comma 1, lett. d) e art. 268, comma 4, lett. d), che lo stesso possa essere liquidato anche in sede concorsuale, sia perché l’effetto escludente posto da dette norme si estende a tutti i beni impignorabili per legge, indipendentemente dal fatto che si tratti di impignorabilità “assoluta” o “relativa”, sia perché l’apprensione all’attivo del bene vincolato impedirebbe di realizzare quegli interessi per la cui tutela è sorto il vincolo[81]. 
Entrambe le procedure, inoltre, nell’escludere dalla liquidazione i beni costituiti in un fondo patrimoniale e i frutti di essi, fanno “salvo quanto disposto dall’art. 170 c.c.” (lett. c) dei commi 1 degli artt. art. 146 e 268), il quale, a sua volta, stabilisce che l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia; norma che, letta al contrario, dispone che l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi può avere luogo per debiti che il creditore non conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia, e ciò anche in pendenza di una procedura di liquidazione giudiziale o controllata, sebbene in entrambe viga il divieto dell’esercizio di azioni esecutive. Nella fattispecie, infatti, il divieto di cui all’art. 150, richiamato dall’art. 270, comma 5, non trova applicazione proprio perché i beni del fondo non vanno acquisiti all’attivo delle dette procedure, per cui la salvezza di quanto disposto dall’art. 170 c.c. proprio muovendo da questo ultimo dato- che esclude l’applicazione del blocco delle azioni esecutive- ha lo scopo di consentire al creditore titolare di un credito derivante da esigenze famigliari del debitore di poter agire in executivis su beni ricompresi nel fondo patrimoniale anche in pendenza della procedura di liquidazione giudiziale o controllata e di vietarlo nel caso il creditore conosca che il debito era stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia, secondo le regole del codice civile. In questo meccanismo, che non coinvolge le procedure liquidatorie in esame, il curatore della liquidazione giudiziale può “aggredire” i beni costituenti il fondo patrimoniale soltanto attraverso l’esercizio di un’azione revocatoria fallimentare o ordinaria, nel mentre il liquidatore della liquidazione controllata potrà utilizzare, come si vedrà, soltanto la revocatoria ordinaria. 
Oltre ai beni indicati nel comma 4 dell’art. 268, non vanno acquisiti all’attivo della procedura minore i beni mobili sui quali i terzi vantano diritti reali o personali chiaramente e immediatamente riconoscibili che, nella liquidazione giudiziale, in deroga a quanto previsto dagli artt. 151, comma 2 e 210, il giudice delegato può “disporre che non siano inclusi nell’inventario o siano restituiti agli aventi diritto” (art. 196). Questa disposizione, in quanto sicuramente semplificativa dal momento che evita l’accertamento in sede di verifica dei diritti dei terzi su beni mobili che, essendo chiaramente riconoscibili, vengono soddisfatti in via immediata e diretta, si concilia con la struttura dell’accertamento del passivo nella liquidazione controllata concentrata nelle mani del liquidatore, il quale come autonomamente decide sulle domande dei creditori e dei terzi nei tempi di cui all’art. 273, senza la partecipazione del giudice- che interviene, come si vedrà, solo in sede di reclamo ex art. 133- egualmente può decidere sui diritti dei terzi su beni mobili immediatamente e chiaramente riconoscibili in tempi più ridotti rispetto a quelli ordinari. 
Anzi la procedura di cui all’art. 196 è più confacente, per similitudine processuale, alla liquidazione controllata che a quella giudiziale in quanto, mentre in quest’ultima la decisione del giudice ai sensi dell’art. 196 viene sottratta al controllo incrociato dei creditori all’udienza fissata allo scopo, nella prima, il liquidatore svolge esattamente la stessa attività demandatagli in sede di verifica in quanto decide autonomamente, senza sentire il comitato dei creditori che manca; solo che decide in tempi più brevi e il suo provvedimento può essere impugnato ai sensi dell’art. 133, come quelli emessi in attuazione dell’art. 273, a differenza di quanto avviene nella liquidazione giudiziale, ove la decisione di accoglimento emessa ai sensi dell’art. 196 è impugnabile ex art. 124 e quelle emesse in sede di verifica con gli strumenti di cui all’art. 206. 
Infine, possono non essere acquisiti all’attivo della procedura, in virtù del comma 3 dell’art. 142, richiamato nella sua interezza dal comma 5 dell’art. 270, quei beni che il liquidatore valuta antieconomici in quanto “i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo di beni stessi”. La possibilità di non acquisire i beni c.d. antieconomici a causa dell’espresso richiamo dell’art. 142, consente di estendere alla liquidazione controllata anche il comma 2 dell’art. 213 nella parte in cui consente al curatore di dismettere, rinunciando a liquidarli, quei beni già acquisiti all’attivo della procedura per i quali l’attività di liquidazione appare manifestamente non conveniente, sostituendo l’autorizzazione del comitato dei creditori con quella del giudice delegato, essendo identico il fine perseguito dalle due norme di evitare, come nel caso contemplato dall’art. 142 l’aggravio di spese inutili alla procedura. 
Al di fuori dei casi elencati, tutti gli altri beni del debitore vanno acquisiti all’attivo, tuttavia l’art. 270 comma 2, lett. e), come già ricordato, consente al tribunale, in presenza di gravi e specifiche ragioni, di autorizzare il debitore o il terzo ad utilizzare alcuni di dei beni inventariati[82]; effetto giustamente rimarcato nella procedura in esame per l’accesso ad essa di consumatori e professionisti che, normalmente, continuano la loro attività per procurarsi i mezzi di sostentamento (e spesso anche i mezzi per soddisfare i creditori) e quindi potrebbero aver bisogno di beni, non oggettivamente personali, ma utili alle esigenze di sopravvivenza. 
Lo spossessamento del patrimonio comporta l’inefficacia degli atti compiuti dal debitore e dei pagamenti da lui eseguiti o ricevuti dopo l’apertura della procedura (concetto desumibile anche dal blocco delle azioni esecutive che implicitamente impedisce la riscossione dei crediti), nonché la inopponibilità delle formalità eseguite dopo l’apertura e lo smistamento della corrispondenza al liquidatore, e la scadenza dei crediti pecuniari, benchè non siano richiamati espressamente gli artt. 144, 145, 148 e 154 comma 2. Comporta altresì la perdita, da parte del debitore, del potere di disporre sul piano sostanziale dei beni appresi alla procedura, e, conseguentemente, la perdita della legittimazione processuale, ovverosia della capacità di stare in giudizio nelle controversie relative ai rapporti giuridici patrimoniali compresi nella procedura e ad esso facenti capo e il trasferimento di tale capacità in capo al liquidatore, nonché l’interruzione automatica dei processi pendenti aventi ad oggetto rapporti di quel tipo[83], effetti peraltro contemplati dall’art. 143 richiamato dal comma 5 dell’art. 270 e, al quale il richiamo anche dell’art. 142, attuato con il decreto correttivo del 2024, con lo spossessamento ha dato un substrato sostanziale alla disciplina processuale. 
Il comma 5 dell’art. 270 richiama altresì applicabili l’art. 150- che pone il divieto per i creditori, anche divenuti tali durante la liquidazione controllata, di iniziare o proseguire azioni individuali esecutive o cautelari sui beni compresi nella procedura- e l’art. 151- che attua il concorso sostanziale e formale dei creditori sul patrimonio del debitore-, senza neanche il vincolo della compatibilità, per cui si può dire che gli effetti immediati derivanti per il sovraindebitato e per i creditori dall’aperura della liquidazione controllata sono analoghi, seppur non identici, a quelli prodotti per dall’apertura della liquidazione giudiziale. 
Tanto vale anche per le misure protettive e cautelari dal momento che l’art. 150, adattato alla procedura in esame, dispone che, salvo diversa disposizione di legge, dalla data della sentenza che dichiara l’apertura della liquidazione controllata, nessuna azione individuale esecutiva o cautelare anche per crediti maturati durante la liquidazione controllata, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nella procedura”. E, il richiamo dell’art. 150, come chiarito dalla Cassazione[84], è riferito anche alla clausola di riserva contenuta nella norma richiamata, per cui comprende anche la salvezza di diverse disposizioni di legge che consentono l’esecuzione individuale, pur in pendenza della liquidazione giudiziale cui è assoggettato il debitore; di conseguenza i creditori fondiari conservano, anche in caso di liquidazione controllata, la facoltà di cui all’art. 41 TUB. 
Inoltre, per effetto del richiamo dell’art. 216, operato dall’art. 275, comma 2, il liquidatore può, in forza del comma 10 della norma richiamata, subentrare nelle procedure esecutive pendenti (diverse da quelle fondiarie che possono continuare e in cui il liquidatore può solo intervenire a norma del comma 2 dell’art. 41TUB) oppure può richiedere al giudice dell’esecuzione di dichiarare l’improcedibilità delle stesse, fermo restando che “il giudice dell'esecuzione, appresa la notizia dell’apertura della liquidazione controllata, deve sospendere la liquidazione in attesa delle determinazioni del liquidatore, 
Egualmente ad un richiamo è affidata anche la tutela del patrimonio nella fase istruttoria, lì dove, sempre il quinto comma dell’art. 270 prevede che “per i casi non regolati dal presente capo si applicano, altresì, in quanto compatibili, le disposizioni sul procedimento unitario di cui al titolo III”, nel quale sono compresi gli artt. 54 e 55. Il che ben si spiega con la natura liquidatoria concorsuale della procedura, che, infatti, come la liquidazione giudiziale, colpisce l'intero complesso di beni pignorabili del debitore, affidandone la disponibilità ad un organo ad hoc, il liquidatore, che provvede alla conservazione e liquidazione in funzione del riparto fra i creditori; affinità con la procedura maggiore accentuata nel nuovo codice dal fatto che la legittimazione a proporre l’istanza di accesso alla procedura di liquidazione controllata è stata attribuita dall’art. 268, oltre che al debitore (come nella legge sul sovraindebitamento), anche ai creditori pur in pendenza di procedure esecutive individuali. 
E’ chiaro quindi che la nuova procedura non può non dispiegare i propri effetti anche nei confronti dell’intera massa dei creditori anteriori alla sua apertura, e, come opera il blocco delle azioni esecutive e cautelari individuali dopo la sentenza di apertura della procedura negli stessi termini dettati dall’art. 150, così, nella fase precedente, diventa utile il ricorso a misure protettive e, principalmente, cautelari per salvaguardare l’integrità del patrimonio da eventuali atti di aggressione di terzi o dispositivi del debitore in attesa della decisione sull’apertura, che produrrà l’ampiezza dei propri effetti, simili a quelli della liquidazione giudiziale di cui si è parlato trattando degli artt. 54 e 55. 
Di conseguenza, le tematiche che si pongono nella procedura di liquidazione controllata sono le stesse che sono discusse in quella di liquidazione giudiziale in particolare per quanto attiene al superamento, rispetto alla legge fallimentare, della distinzione tra il campo di operatività delle misure protettive, tipiche del concordato e degli accordi di ristrutturazione, e quello delle misure cautelari, riservate alla fase prefallimentare, posto che nel nuovo codice entrambe le misure sono applicabili in tutte le procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza, per cui è venuta meno anche quella distinzione soggettiva dal lato attivo, nel senso che le misure cautelari e quelle protettive non si distinguono più sulla base del potere di iniziativa, le prime riservate ai creditori e le seconde proprie del debitore. 
Questo teoricamente, perché le misure protettive necessitano della richiesta del debitore, come è precisato nella stessa definizione di cui alla lett. p) dell’art. 2 e come è richiesto dall’art. 54, comma 2, che, anche se nell’ultima versione consente che la richiesta di applicazione delle stese possa essere, oltre che contenuta nella domanda di cui all’articolo 40, presentata successivamente, pone come soggetto della istanza pur sempre il debitore. E’ evidente, pertanto, (i) che le misure protettive possono essere richieste soltanto dal debitore e non anche da un creditore; il primo è legittimato a chiedere anche la concessione di misure cautelari, nel mentre il secondo non può avvalersi di misure protettive; (ii) che le misure protettive possono agire solo nelle procedure che muovono dall’iniziativa del debitore, e, quindi, nel concordato, anche semplificato (come espressamente emerge dalla ultima formulazione del comma 2 dell’art. 54), nella ristrutturazione dei debiti, nel PRO, nella liquidazione giudiziale e nella liquidazione controllata quando l’apertura di queste sia chiesta dal debitore[85]. 
Nulla è detto, altresì, nella disciplina della liquidazione controllata circa la durata delle misure protettive che, quindi, come nella liquidazione giudiziale, producono effetto per l’intera procedura una volta aperta, nel mentre, per quelle richieste anteriormente la durata massima dell’efficacia dovrebbe essere quella prevista dall’art. 8 CCII[86] 
Manca nella disciplina della liquidazione controllata un qualsiasi accenno diretto alla possibilità di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa nonché un richiamo dell’art. 211 che, appunto, tratta di tale materia nella liquidazione giudiziale; tuttavia, nell’art. 272, comma 2, è espressamente disposto che si applica alla procedura in esame, “l’articolo 213, commi 2, 3 e 4” e quest’ultimo stabilisce, a sua volta, che il programma di liquidazione “indica gli atti necessari per la conservazione del valore dell’impresa, quali l’esercizio dell’impresa del debitore e l’affitto di azienda, ancorchè relativa a singoli rami …”. Per quanto anomala una simile disposizione nel panorama normativo che, come in parte visto e si vedrà meglio in prosieguo, è indirizzato prevalentemente alla regolamentazione delle posizioni dei debitori civili più che delle imprese, va preso atto che, se il liquidatore nella formazione del programma di liquidazione può valutare la possibilità dell’esercizio provvisorio, un tale istituto deve trovare applicazione anche nella procedura in esame[87], posto che anche questa condivide con la liquidazione giudiziale non solo la natura liquidatoria ma anche il fine del massimo soddisfacimento dei creditori attraverso gli atti di liquidazione. 
Questa soluzione ha trovato ulteriore suffragio nella disposizione dell’art. 275 bis, introdotto con il D.Lgs. n. 136/ 2024, nella parte in cui qualifica come prededucibili i crediti “anche se sorti durante l’esercizio dell’impresa del debitore”, che è la medesima locuzione utilizzata nell’art. 222 per attribuire la prededucibilità ai crediti sorti nel corso dell’esercizio provvisorio dell’impresa nella liquidazione giudiziale. Infine, sarebbe del tutto incongruo escludere il ricorso a “strumenti di gestione dinamica” nella liquidazione controllata in quanto anche le imprese sotto soglia e in particolare le imprese agricole (si pensi alla necessità di portare a termine un ciclo di allevamento di bestiame) possono presentare le stesse esigenze “di un potenziale miglioramento della prospettiva di distribuzione per i creditori derivante dalla prosecuzione temporanea dell’attività aziendale rispetto al ricavato dal realizzo d’una statica - se non atomistica - liquidazione del patrimonio”[88]. 
Ovviamente quando si parla di esercizio provvisorio il riferimento è alla figura contemplata dall’art. 211, ove il tribunale oppure il giudice delegato, in presenza delle condizioni ivi indicate, autorizzano il curatore a continuare l’esercizio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda, e quindi anche il liquidatore della liquidazione controllata che abbia ad oggetto una impresa agricola o sottosoglia, di modo che è del tutto incompatibile con tale figura la continuazione dell’attività da parte dei sovraindebitati consumatore e professionista. Costoro, e in particolare il professionista potrebbero avere interesse a continuare l’attività per procurarsi i mezzi di sussistenza per sé e la propria famiglia, ma questi casi, in cui manca una vera attività di impresa o comunque è incardinata sulla persona che la esercita, nulla hanno a che fare con l’esercizio provvisorio tipico riguardante le imprese, la cui attività viene continuata (in toto o in parte) dall’organo della procedura; nel caso prospettato, invero, soccorre, come già ricordato, la norma dell’art. 270, comma 2, lett. f) che, a fronte del trasferimento al liquidatore dei beni del sovraindebitato, consente “in presenza di gravi e specifiche ragioni, di autorizzare il debitore o il terzo ad utilizzare alcuni di essi” e sulla cui attività potrebbe esercitarsi il potere di determinazione e controllo indicato dall’art. 268, comma 4, lett. b). 
Rimane il dubbio quale normativa applicare in caso di apertura dell’esercizio provvisorio perché l’art. 211 detta una regolamentazione complessa e incentrata su un potere di controllo del comitato dei creditori, sia nella fase autorizzativa da parte del giudice delegato che nel corso dell’attività, incompatibile con la liquidazione controllata, che non contempla la figura del comitato dei creditori. Dovrà essere, presumibilmente, l’organo che autorizza l’esercizio provvisorio (il tribunale o il giudice delegato) a stabilire le modalità per il suo svolgimento e revoca compatibili con la struttura della liquidazione controllata. 
7 . Gli effetti dell’apertura della procedura sulla regolamentazione dei contratti pendenti
Nonostante gli accennati effetti prodotti dall’apertura della liquidazione controllata caratterizzino questa procedura come concorsuale, a cominciare dall’accertamento, rimesso all’apprezzamento di una autorità giudiziaria, di una situazione patologica di crisi o di insolvenza del sovraindebitato, o dalla nomina di un organo cui è affidata la gestione del patrimonio del liquidato, che viene interamente coinvolto (con poche e non rilevanti deroghe), per finire al divieto delle azioni esecutive e cautelari sul patrimonio acquisito alla procedura, che costituisce una massa funzionalizzata alla soddisfazione dei creditori, all’applicazione tendenziale delle regole di parità di trattamento e, comunque, un criterio legale di distribuzione del valore[89]; nonostante tutto ciò, nelle varie fasi della procedura non sempre si realizza quella collettivizzazione delle tutele e l’inibizione alla creazione di posizioni di preferenza che qualificano la procedura maggiore giacchè vari sub procedimenti della procedura in esame sono regolamentati in modo completamente differente e, a volte, come si vedrà, non in sintonia con la concorsualità ed in modo tale da non consentire di trovare una linea uniforme di tutela degli interessi delle parti, oscillando il legislatore tra una ipergaranzia degli interessi dei creditori e un completo disinteresse degli stessi. 
La prima situazione caratterizza la regolamentazione dei contratti pendenti. 
Come è noto la disciplina della liquidazione giudiziale prevede, oltre all’ipotesi generale della sospensione del contratto in attesa della decisione del curatore se subentrarvi o sciogliersi, ipotesi in cui i contratti pendenti si sciolgono di diritto a seguito dell’apertura della procedura o continuano di diritto, salvo possibilità di recedere a determinate condizioni. Nella liquidazione controllata il comma 6 dell’art. 270 non contempla queste ulteriori possibilità in quanto prevede soltanto la sospensione del contratto in attesa della valutazione del liquidatore, che, peraltro, è più libera che nella procedura maggiore, non essendo soggetta all’autorizzazione del comitato dei creditori (organo non previsto nella procedura in esame) o del giudice delegato, richiesta dal comma 1 dell’art. 172, ma affidata alle considerazioni di opportunità e convenienza del liquidatore, che ha il solo compito di sentire il debitore. Il tutto con le ordinarie conseguenze secondo le quali in caso di subentro, il liquidatore assume i relativi diritti e obblighi, che andranno a vantaggio e a carico dei creditori della procedura, e, in caso di scioglimento, il contraente avrà diritto di far valere nel passivo il credito conseguente al mancato adempimento, senza che gli sia dovuto alcun risarcimento del danno. 
A questo punto si pone il problema di capire se la norma dettata per la procedura minore possa essere integrata dal complesso normativo di cui agli artt. 173 e segg. da applicare in via analogica alla fattispecie in esame. 
A mio avviso la risposta deve essere negativa. 
La disposizione di cui al comma 6 dell’art. 270 è molto più semplificata rispetto alla disciplina dettata per la liquidazione giudiziale, ma, tuttavia, è completa ed esaustiva, nel senso che pone una regola in caso di apertura della liquidazione controllata a carico di una parte di un contratto non ancora interamente eseguito nelle sue prestazioni principale idonea a regolamentare la fattispecie, senza rinvii o richiami ad altre norme. Questo criterio, infatti, come è stato giustamente detto[90], risponde alla duplice esigenza di evitare, da un lato, che il curatore possa essere obbligato ad eseguire la prestazione a suo tempo assunta dal debitore o che, nel caso in cui ciò non sia possibile, la massa dei creditori sia esposta ad azioni risarcitorie ad opera della controparte; dall’altro lato, di evitare che la controparte contrattuale non voglia più proseguire il contratto per effetto dell’apertura della liquidazione giudiziale, privando la procedura di contratti potenzialmente utili. 
Significativo è il confronto dell’incipit dell’art. 172 e quello del comma 6 dell’art. 270: entrambi pongono la regola che “se un contratto è ancora ineseguito o non completamente eseguito nelle prestazioni principali da entrambe le parti al momento in cui è aperta la procedura” l’esecuzione del contratto rimane sospesa fino alla decisione del curatore o del liquidatore di subentrare o di sciogliersi, ma, mentre l’art. 172 fa salve “le diverse disposizioni della presente sezione” rendendo così applicabili alla liquidazione giudiziale le deroghe alla regola posta, nell’art. 270 manca una previsione simile o analoga che lasci intendere che anche nella procedura minore si sia voluto ripetere lo stesso meccanismo. 
Tanto- si è detto[91]- non significa che, in sede di liquidazione controllata, si debba sempre e indiscriminatamente far capo al canone generale della sospensione del contratto “dovendosi considerare che le regole speciali e alternative dello scioglimento automatico e del subingresso necessario rispondono, almeno tendenzialmente, a ragioni di sistema che nella procedura de qua non possono essere sottovalutate o, peggio, ignorate”, ma, come già detto, l’applicazione analogica è costituita dal procedimento mediante il quale chi interpreta ed applica il diritto può sopperire alle eventuali deficienze di previsione legislativa (c.d. lacuna dell'ordinamento giuridico) facendo ricorso alla disciplina normativa prevista per un caso "simile", ovvero per "materie analoghe", di modo che, per poter ricorrere al procedimento per analogia, è necessario, in primo luogo, che manchi una norma di legge atta a regolare direttamente un caso, che vi sia cioè una lacuna normativa da colmare. 
Orbene, la normativa sulla liquidazione controllata tratta la materia dei rapporti pendenti senza richiamare, dopo la previsione della regola generale della sospensione, le norme di cui agli artt. 173 e segg. a somiglianza del disposto dell’art. 172 e, una tale omissione – le cui conseguenze non è pensabile che il legislatore ignorasse avendo contestualmente dettato le due norme nelle due procedure, tant’è che lì dove ha ritenuto di dover intervenire lo ha fatto espressamente[92]- sembra un sintomo inequivoco, più che di un vuoto legislativo, della unicità ed esaustività del criterio posto, con esclusione di altri. La norma di cui all’art. 270 è, infatti, volutamente improntata alla massima semplificazione per le ragioni più volte dette di attuare una regolamentazione semplificata rispetto a quella della procedura maggiore, il che giustifica la mancata salvezza dell’applicazione di altre disposizioni avendo voluto il legislatore attuare una regolamentazione fondata sul solo principio della sospensione, di per sé in grado di regolamentare il fenomeno[93]. 
Applicare in queste condizioni alla liquidazione controllata la normativa di cui agli artt. 173 e segg. perché rispondenti a ragioni di sistema che nella procedura de qua non possono essere ignorate, significa creare un nuovo sistema normativo non previsto dalla legge, capovolgendo il complesso di garanzie e tutela degli interessi approntato dal legislatore che, si ripete, ben poteva, ma non lo ha fatto, affermare, dopo la previsione generale, la salvezza di altre disposizioni di legge. 
In realtà il legislatore, ponendo quale fulcro del sistema la sola regola generale della sospensione automatica del rapporto al momento dell’apertura della procedura di liquidazione controllata fino a quando il liquidatore dichiari di subentrarvi o di sciogliersi, senza la salvezza di diverse disposizioni, ha fatto una chiara scelta di campo: ha inteso, cioè, privilegiare esclusivamente gli interessi della massa dei creditori, alla salvaguardia dei quali deve ispirarsi l’organo della procedura nella opzione da scegliere, a scapito di quelli delle controparti contrattuali in bonis, che devono sottostare alla scelta riservate all’organo della procedura; una evidente deroga al diritto comune che, in mancanza dei contemperamenti apportati dalle norme successive all’art. 172, si accentua in quanto esprime più marcatamente un disinteresse dei principi di tutela sottesi alle singole norme riguardanti determinati rapporti. 
Queste disposizioni specifiche dettate per la liquidazione giudiziale hanno un senso in quanto parte contrattuale è una impresa e sono espressione del bilanciamento tra gli interessi dei creditori, lasciati alla valutazione del curatore di continuare o non i rapporti pendenti, e quello delle controparti che mutano a secondo del rapporto preso in considerazione in base anche alla tipologia dello stesso. Tutto questo sparisce nella liquidazione controllata ove il legislatore, ritenendo superfluo un tale bilanciamento di interessi a causa della scarsa consistenza della crisi da affrontare, ha optato per la facoltà di scelta del curatore, che risponde a una finalità di tutela preferenziale della massa dei creditori[94], per cui anche i contratti di carattere personale non si sciolgono (come invece previsto dall’art. 175) oppure, vengono obliterate le esigenze del promissario acquirente di un immobile avente ad oggetto la casa di abitazione di cui tratta il comma 3 dell’art. 173), per non parlare dei diritti dei lavoratori non trovando applicazione l’art. 189, e così via. 
E’ inevitabile che questo sistema, applicato alla crisi delle imprese, anche se sotto soglia o dell’impresa agricola, crei difficoltà di gestione dei rapporti pendenti, ma queste conseguenze sono il frutto di quell’equivoco di cui si è detto fin dall’inizio. La semplificazione, giustificata dalla considerazione che la procedura “concerne patrimoni tendenzialmente di limitato valore e situazioni economico finanziarie connotate da limitata complessità”, è, infatti, adatta alle liquidazioni che hanno ad oggetto un consumatore o un professionista (soggetti poco patrimonializzati e con pochi rapporti giuridici in corso), nel mentre va incontro a notevoli inconvenienti quando si tratta di procedure che interessano imprese sotto soglia e imprese agricole, sotto o sopra soglia, che hanno, o possono avere una serie di rapporti contrattuali in corso, difficili da gestire senza l’applicazione delle disposizioni che seguono l’art. 172 in quanto la normativa è orientata alla tutela prevalentemente dei creditori. 
In sostanza, queste sono le disfunzioni di un sistema basato sull’equivocità, che ha previsto una unica regolamentazione per situazioni completamente diverse, cui il legislatore avrebbe, almeno nella fattispecie in esame, potuto facilmente ovviare richiamando, dopo la previsione della regola generale della sospensione, le norme di cui agli artt. 173 e segg. o similari, ma non lo ha volutamente fatto. In questa situazione della previsione nell’art. 270 di una regola generale, ma non delle deroghe alla stessa apposte dall’art. 173 e segg., le disposizioni derogatorie (al di là della loro eventuale natura eccezionale che impedirebbe il ricorso all’analogia), non possono trovare ingresso nella procedura minore senza un espressa ripetizione delle stesse o senza un richiamo o rinvio ad esse.
8 . La formazione dello stato passivo
Anche per la formazione dello stato passivo è stata dettata una autonoma disciplina che il decreto correttivo del 2024 ha ulteriormente semplificato allo scopo di “accelerare, la formazione dello stato passivo nella liquidazione controllata”[95], che ora affida al liquidatore in via esclusiva l’accertamento dei crediti e dei diritti dei terzi, lasciando al giudice la sola risoluzione delle contestazioni sollevate dai creditori in via di reclamo. 
Nell’attuale versione, infatti, si prevede che il liquidatore, adempiute le formalità di rito di cui alle lett. f) e g) del comma 2 dell’art. 270, aggiorni, entro 30 giorni dalla comunicazione a lui della sentenza di apertura della liquidazione controllata, l’elenco dei creditori, ai quali notifica la sentenza (art. 272, comma 1) che assegna ai creditori e ai terzi che vantano diritti sui beni del debitore il termine, non superiore a 90 giorni entro cui trasmettere al liquidatore la domanda di restituzione, di rivendicazione o di ammissione al passivo (art. 270, comma 2, lett, d). Scaduto questo termine, il liquidatore predispone un progetto di stato passivo che comunica agli interessati all’indirizzo Pec indicato nella domanda (art. 273, comma 1) in modo che costoro possano, entro i successivi 15 giorni, proporre osservazioni (art. 273, comma 2) riguardanti, presumibilmente, sia la propria posizione che quella degli altri creditori e soggetti compresi nel progetto. A questo punto il liquidatore esamina le osservazioni, decide sulle stesse, forma lo stato passivo, lo deposita nel fascicolo informatico- con il che lo stato passivo diventa esecutivo- e lo comunica agli interessati; il tutto nel termine di 15 giorni dalla data di scadenza per la presentazione delle osservazioni al progetto (art. 273, comma 3). Le opposizioni e le impugnazioni dello stato passivo si propongono con reclamo ai sensi dell’art. 133 (art. 273, comma 4). 
Inoltre, con il decreto correttivo del 2024 è stato riscritto anche il comma 5 dell’art. 273 che regola le insinuazioni tardive, razionalizzando la precedente versione e prospettando, anche per questa tipologia di domande, le cui modalità di accertamento sono quelle delle domande tempestive, un modello del tutto differente da quello dettato dall’art. 208 per la liquidazione giudiziale. 
Come si vede, in quest’ultima versione della disciplina sulla formazione dello stato passivo sono state seguite più le tracce dell’accertamento dei crediti nella liquidazione coatta amministrativa che quelle che caratterizzano la stessa fase nella liquidazione giudiziale in quanto è stata esclusa qualsiasi partecipazione del giudice delegato, a differenza di quanto accadeva nella precedente versione dell’art. 273, per il quale il liquidatore rimetteva al giudice delegato la decisione sulle contestazioni mosse al suo progetto di stato passivo che riteneva di non poter risolvere direttamente e il giudice decideva con decreto motivato, reclamabile davanti al collegio ed era il giudice a dichiarare inammissibili le domande tardive manifestamente tali per la ricorrenza delle condizioni di cui all’ult. comma dell’art. 273[96]. Nella ultima versione, eliminato l’intervento del giudice nella fase dell’accertamento, questa si conclude sempre con un atto tipico del liquidatore, impugnabile ai sensi dell’art. 133, a differenza di quanto accade nella liquidazione giudiziale, e questa struttura, fortemente caratterizzante, determina conseguenze processuali rilevanti che penalizzano fortemente i creditori e i terzi aventi diritto. 
Costoro, infatti, nella liquidazione controllata non solo sono privati della possibilità di quel contraddittorio incrociato, che costituisce caratteristica unica e qualificante della verifica del passivo, potendo proporre soltanto osservazioni scritte su cui decide il liquidatore al di fuori di qualsiasi contesto collettivo; non solo manca la garanzia di una decisione giurisdizionale, ma, principalmente, essendo la decisione sul credito atto del liquidatore, l’opposizione avverso lo stato passivo si attua a mezzo di reclamo ex art. 133, ossia soltanto per violazione di legge[97]. 
Questi pregiudizi si riversano anche sui creditori tardivi, i quali, anzi, sono oltremodo danneggiati dal sistema definitorio di tale categoria di domande in quanto l’art. 273 , comma 5, non distingue tra domande tardive e super tardive, ma prevede una unica categoria di domande tardive che comprende tutte le domande trasmesse dopo la scadenza dei novanta giorni dalla notifica della sentenza. Scaduto questo termine tutte le domande pervenute al liquidatore successivamente fino a quando non siano esaurite le ripartizioni dell’attivo della liquidazione, sono qualificate tardive e rette da un’unica disciplina, che richiede una valutazione, sempre da parte del liquidatore, sulla incolpevolezza del ritardo. Di conseguenza i creditori tardivi sono costretti a fornire la prova della incolpevolezza del ritardo e della presentazione della domanda al liquidatore entro il termine di sessanta giorni decorrenti dal momento in cui sia cessata la causa che ne impediva il deposito tempestivo (non solo per quelle domande ritenute super tardive nella liquidazione giudiziale, bensì) anche per quelle considerate tardive nella liquidazione giudiziale. 
Poiché la violazione di legge comprende solo il caso che il provvedimento impugnato consista in un’erronea ricognizione interpretativa della norma astratta, è esclusa qualsiasi valutazione di merito (quale, ad esempio, l’errata valutazione della situazione probatoria o la mancanza o l'insufficienza delle ragioni che hanno portato alla decisione) che invece può essere oggetto della opposizione allo stato passivo di cui all’art. 206, comma 2, avanti al collegio in un giudizio camerale ma a giurisdizione piena. 
Il richiamo dell’art. 133, invero, non assume un significato meramente formale, volto a designare l’iter procedendi che occorre seguire per proporre, trattare e decidere le impugnazioni in questione[98], ma è un richiamo pieno alla norma di cui all’art. 133, coerente con il dato che il provvedimento di esecutorietà dello stato passivo è atto del liquidatore, avverso il quale può essere proposto reclamo al giudice delegato (e non al tribunale, come per le impugnazioni dello stato passivo che hanno ad oggetto un provvedimento del giudice delegato) ai sensi dell’art. 133, che pone il limite della censurabilità delle sole violazioni di legge. Mi sembra difficile evadere da questo percorso, applicando, nonostante l’espresso richiamo dello strumento impugnatorio di cui all’art. 133, le disposizioni sullo stato passivo dettate per la liquidazione giudiziale per effetto dell’analogia, in contrasto con l'art. 12, comma 2, delle disposizioni preliminari al c.c., che consente il ricorso all’analogia solo quando manchi nell'ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede interpretativa. 
Nel caso, non solo manca nella prima fase di accertamento una lacuna da colmare perché il sub procedimento dell’accertamento del passivo è compiutamente disciplinato, seppur secondo criteri di snellezza e semplificazione del rito adattabile alla fattispecie, ma lo stesso legislatore che ha dettato le nuove regole della formazione dello stato passivo nella liquidazione giudiziale ha codificato con regole diverse lo stesso procedimento nella liquidazione controllata, senza rinvii e richiami di altre norme o salvezza di diverse disposizioni di legge. Si ripete la situazione già vista per la regolamentazione dei contratti pendenti, con l’aggravante nel caso che la disciplina dettata dall’art. 273 per la formazione dello stato passivo è ancor più dettagliata di quella contemplata nel comma 6 dell’art. 270, in quanto regola tutti i passaggi che devono compiere il liquidatore da un lato, e le parti interessate a partecipare al concorso dall’altro, senza porre altre norme né richiami a quelle che regolano la formazione dello stato passivo nella liquidazione giudiziale: tanto nella evidente, quanto corretta, convinzione che queste sono state dettate per un sistema completamente diverso in cui il gestore della procedura presenta soltanto un progetto di stato passivo, su cui decide il giudice, in una apposita udienza alla quale possono partecipare tutti i creditori e terzi aventi diritto, sistema inadeguato alla semplificazione e snellezza che si è voluto attribuire al subprocedimento in esame nella liquidazione controllata. 
Per quanto riguarda le impugnazioni, il ricorso all’analogia è ancora più impervio perchè il legislatore ha individuato il tipo di reclamo non attraverso la costruzione di un periodo che si possa prestare a diverse interpretazioni, bensì mediante l’indicazione della norma da applicare alla fattispecie, che è quella di cui all’ art. 133 e non quella di cui all’art. 206, che regola i comuni gravami averso lo stato passivo, a differenza di quanto disposto dall’art. 310, comma 2, per il quale, nella liquidazione coatta amministrativa, le impugnazioni dello stato passivo “sono disciplinate dagli articoli 206 e 207, sostituendo al curatore il commissario liquidatore”. 
Applicare queste ultime disposizioni anche alle impugnazioni avverso lo stato passivo formato dal liquidatore ai sensi dell’art. 273, significherebbe costruire un processo impugnatorio a proprio piacimento, non previsto dalla legge, che si svolge avanti al giudice delegato, il quale potrebbe però decidere valutando anche il merito, non si sa peraltro seguendo quali termini e modalità, se quelle di cui all’art. 133 o quelle di cui all’art. 207. 
Questione non di poco conto perché la prima norma regola un procedimento fortemente destrutturato (il giudice, sentite le parti, decide- precisa l’art. 133- “omessa ogni formalità non indispensabile al contraddittorio”), definito nel contenuto (per sola violazione di legge), e affidato al giudice delegato (non solo per il richiamo dell’art. 133 ma perché lo dice lo stesso art. 273, comma 4, secondo periodo) e non al tribunale, per cui l’opposizione come le altre impugnazioni dovrebbero seguire un procedimento anomalo che vede la domanda proposta avanti al giudice delegato, probabilmente con i tempi e le modalità dettate dal richiamato art. 133 piuttosto che quelle più stringenti poste dall’art. 207, ma il giudice, sebbene operi in un procedimento destrutturato, potrebbe decidere nel merito, disattendendo il contenuto della norma espressamente richiamata e applicando, poiché si versa in materia di stato passivo, le regole di cui all’art. 207. Situazione anomala ove l’anomalia diventerebbe ancor più accentuata qualora si ritenesse che l’art. 207 troverebbe piena applicazione nel suo intero contenuto (tranne forse lasciare la competenza al giudice delegato), perché in tal caso il richiamo dell’art. 133 sarebbe posto completamente nel nulla. 
E’ vero che pomposamente, come se appunto oggetto di impugnazione fosse lo stato passivo redatto e dichiarato esecutivo dal giudice delegato, l’art. 273 propone lo stesso strumento del reclamo ex art. 133, oltre che per le opposizioni, anche per le impugnazioni dello stato passivo, dovendosi per tali intendere, quindi, sia l’impugnazione in senso stretto di cui al comma 3 dell’art. 206, che la revocazione di cui al comma 5 dello stesso articolo, ma questa è solo la dimostrazione della superficialità del legislatore che, probabilmente non ha valutato le conseguenze della previsione che anche le impugnazioni avverso gli atti dell’organo gestorio della procedura liquidatoria si propongono con reclamo ai sensi dell’art. 133. Essendo questa norma espressamente richiamata anche per le impugnazioni, vuol dire che questa si applica non solo per le opposizioni ma anche per tutte forme di impugnazione, comprese la impugnazione in senso stretto e la revocazione di crediti[99], salvo poi a cercare in via interpretativa di conciliare le impugnazioni con la procedura del reclamo ex art. 133. Conciliabilità possibile per le impugnazioni di credito, ma problematica nella revocazione, per la difficoltà a far rientrare nella violazione di legge le condizioni richieste per la revocazione di crediti, di modo che solo i motivi di revocazione che si traducano in violazioni di legge possono formare oggetto di questo tipo di impugnazione. Il ricorso alla revocazione dei crediti costituisce, infatti, un rimedio di carattere generale previsto tra le impugnazioni dello stato passivo, che deve cedere il passo alla norma specifica che, avendo attribuito l’esecutività dello stato passivo al liquidatore, coerentemente ne ha ammesso l’impugnazione con lo strumento del reclamo ex art. 133, quale unica forma di reazione avverso detto provvedimento, da chiunque proposto e qualsiasi ne sia il fine e l’oggetto, e nel cui alveo, quindi, vanno incanalate le varie forme di impugnazione che la legge consente[100]. 
In conclusione, se si muove dalla considerazione che le regole dettate dall’art. 273 sono quelle applicabili nella liquidazione controllata per l’accertamento del passivo e che il legislatore con questa autonoma ed unica regolamentazione ha inteso attuare un sistema, caratterizzato da snellezza, in cui la carenza di regole per alcuni aspetti è voluta propria nell’ottica della semplificazione e rapidità espressamente proclamate come finalità della liquidazione controllata, senza alcuna distinzione tra i soggetti che vi accedono, deve escludersi: a-che, nel momento in cui si sono introdotte le regole per la formazione dello stato passivo e per l’impugnazione dei relativi provvedimenti nella liquidazione controllata, il legislatore si sia affidato, come sistema, alla sola analogia per colmare, con le norme della liquidazione giudiziale, eventuali vuoti; b-che, comunque, per gli aspetti non regolati non potrebbero essere aprioristicamente essere applicate, attraverso l’analogia, le norme dettate per l’accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale in mancanza di qualsiasi affinità tra i due sistemi di accertamento nelle due procedure. 
In questo quadro non può non sottolinearsi, ancora una volta, che il modello semplificato predisposto può avere una sua logica giustificativa quando la procedura colpisce un consumatore o un professionista in considerazione delle ridotte consistenze del passivo, sia dal punto di vista numerico che quantitativo; riesce invece difficilmente spiegabile il pregiudizio che subiscono i creditori quando lo stesso modello viene applicato ad una impresa, anche se sotto soglia, e a maggior ragione quando ammessa alla procedura è una impresa agricola sopra soglia. Ma questi sono gli effetti ineliminabili della regolamentazione unitaria per tipologie di soggetti completamente diversi per caratteristiche persoli, consistenza patrimoniale, attività svolta ecc.. 
Affermata l’autonomia della disciplina dello stato passivo dettata dall’art. 273, valevole per tutti i sovraindebitati che vi accedono, le conseguenze non sono di poco conto in quanto ne segue che, oltre alle norme sulle impugnazioni di cui si è detto, anche altre dettate per la formazione dello stato passivo nella liquidazione giudiziale, dopo una verifica della sussistenza delle condizioni per il ricorso all’applicazione analogoica, non possano essere applicate alla stessa materia nella liquidazione controllata. 
Così, ad esempio, la disposizione di cui al comma 10 dell’art. 201, per la quale il procedimento di accertamento del passivo è soggetto alla sospensione ferale, non può trovare applicazione nella liquidazione controllata, perché la norma citata ha natura eccezionale, non suscettibile di interpretazione analogica, in quanto derogatoria del contrario principio posto in linea generale dal comma 1 dell’art. 9, salva diversa disposizione di legge. Nella procedura minore non solo manca una disposizione di legge diversa dal principio affermato dall’art. 9, ma la celerità cui è improntata la fase dell’accertamento del passivo, sottolineata dal breve termine di 15 giorni assegnati al liquidatore per la formazione dello stato passivo, denota una incompatibilità con la sospensione feriale. Tanto, a mio parere, elimina anche problemi di disparità di trattamento rispetto ai creditori della liquidazione giudiziale, che sarebbe difficilmente giustificabile sul piano costituzionale ove le due procedure fossero regolate da norme analoghe, ma diventa giustificabile ove, come in quella che non richiama la norma sulla sospensione, si è voluto dichiaratamente dare una accelerata alla formazione dello stato passivo sia con la semplificazione della normativa, sia con l’attribuire al liquidatore ogni attività senza la fissazione di una udienza con la partecipazione dei creditori, sia fissando un termine allo stesso liquidatore entro cui ultimare le operazioni di accertamento. 
Secondo il Tribunale di Terni[101] il termine indicato per la presentazione delle domande di cui all'art. 270, comma 2, lett. d), è soggetto alla sospensione feriale “non ravvisandosi ragioni per un trattamento differenziato dei creditori che intendono insinuarsi nella procedura di liquidazione controllata rispetto alle domande di insinuazione nella liquidazione giudiziale, anche alla luce del richiamo, contenuto nel co. 2, lett. d) dell’art. 270, il quale, all'ultimo comma, prevede l'applicazione di detta sospensione in deroga alla regola generale di cui all'art. 9, co. 1”. Tale decisione, a mio avviso non tiene conto della natura eccezionale della norma di cui al comma 10 dell’art. 201, né delle altre considerazioni sulla struttura del procedimento di verifica ed erra nel dire che tale disposizione sia richiamata nella sua interezza dall’art. 270, comma 2 lett. d), posto che tale richiamo riguarda soltanto le modalità di predisposizione della domanda che, nella liquidazione controllata, segue quindi le line tracciate dall’art. 201 quanto al contenuto. 
Tale richiamo, quindi, non è utile a favorire la sospensione feriale, ma serve a colmare le lacune della lett. d) del comma 2 dell’art. 270, che accenna alle sole domande dei terzi che vantano sui beni del debitore e ai creditori risultanti dall’elenco depositato e non anche ai beneficiari dell’ipoteca o del pegno dati dal terzo ammesso alla procedura, contemplato nell’art. 201, comma 3, lett. b), per il quale costui deve indicare nella domanda “l’ammontare del credito per il quale si intende partecipare al riparto”; è probabile che questa eventualità volesse essere esclusa nella liquidazione controllata per le solite ragioni esemplificative, ma il richiamo alla predisposizione della domanda ai sensi dell’art. 201 porta necessariamente ad includere anche questa voce nella domanda da presentare nella procedura in esame. 
Neanche l’ammissione con riserva è contemplata dall’art. 273 e per questo motivo non è applicabile alla procedura di liquidazione controllata, come confermato dal comma 6 bis dell’art. 275 che, nel richiamare gli articoli della liquidazione giudiziale regolanti il riparto, omette il richiamo dell’art. 228 riguardante lo scioglimento delle ammissioni con riserva. 
Si è detto[102] che si può fare ricorso all’applicazione analogica della norma di cui all’art. 204, comma 2, sminuendo la portata del mancato richiamo dell’art. 228, perché questo “ben lungi dal sancire l’estraneità dell’istituto alla liquidazione controllata, appare piuttosto dipendere dall’incompatibilità di quella norma, imperniata su un provvedimento del giudice delegato, con la struttura, almeno primariamente, non giurisdizionale della verifica del passivo nella procedura in esame, così da avvalorare l’idea che allo scioglimento della riserva sia il liquidatore a dover provvedere e, per l’esattezza, a provvedere nelle forme di cui al presente art. 273, con facoltà d’impugnativa della parte interessata ai sensi del co. 4 di questa stessa norma”. 
Questo utile sforzo interpretativo non mi sembra riuscito perché, a mio avviso, la mancata previsione dell’ammissione con riserva non è un vuoto da colmare con il ricorso all’analogia ma una voluta omissione dettata dalla semplificazione di un rito che, seppur dettagliatamente regolamentato, non accenna alla fattispecie in esame, nonché dalla struttura del procedimento di carattere amministrativo, imperniato sull’attività esclusiva del liquidatore. Se a questi si attribuisce la possibilità dell’ammissione riservata e poi dello scioglimento della riserva, gli si dà un potere non contemplato, ma neanche ipotizzato, dalla legge, finendo per trapiantare nel contesto della liquidazione controllata un istituto con caratteristiche ed effetti diversi da quelli della ordinaria ammissione, pensato per una procedimento imperniato sulla figura del giudice che decide nel contesto di una udienza ove si realizza il controllo incrociato tra tutti i creditori e aventi diritto; il legislatore avrebbe potuto attribuire al liquidatore anche la facoltà dell’ammissione riservata, ma proprio in considerazione della diversa struttura dei procedimenti e dei diversi ruoli che assumono sia il liquidatore che il giudice, avrebbe dovuto prevedere espressamente, o mediante rinvii normativi, questa possibilità, data la mancanza di identità della situazione di fatto non regolata rispetto a quella regolata che impedisce il ricorso all’analogia, ed avrebbe dovuto specificare chi provvede allo scioglimento della riserva. 
Per lo stesso motivo della diversità della disciplina degli stesti passivi, le previsioni di cui all’art. 209- che regolano la possibilità di non dare corso (o ulteriore corso) al procedimento di accertamento del passivo avanti al giudice delegato in caso di insufficienza di attivo- non sembrano compatibili con la formazione dello stato passivo cui provvede il liquidatore senza un’apposita udienza. In particolare è incompatibile l’applicazione nella procedura minore delle regole procedimentali che passano attraverso un provvedimento del giudice delegato, emesso su richiesta del curatore almeno venti giorni prima dell’udienza, corredata da una relazione dello stesso curatore e dal parere del comitato dei creditori, attraverso, cioè, un rito complesso non trasferibile nella disciplina semplificata della liquidazione controllata, che non prevede per l’accertamento del passivo una udienza di verifica né avanti al giudice delegato né avanti al liquidatore. 
Per la verità in quest’ultima lo scopo della norma di evitare l’inutile dispendio di risorse per accertare un passivo che realisticamente non può essere soddisfatto, si presenta con più frequenza giacchè qui la consistenza dell’attivo è spesso molto ridotta (al punto da riuscire non sempre agevole tracciare una linea di confine con la posizione del sovraindebitato incapiente), eppure il legislatore, sebbene ben conscio di tanto come ripetutamente affermato per giustificare la semplificazione della normativa adottata, è rimasto silente sul punto; silenzio che deve, quindi, apprezzarsi come una scelta voluta, tanto più che all’omissione della formazione del passivo ha rimediato prevedendo la chiusura della procedura, oltre che al verificarsi della situazione di cui alla lett. d) comma 1 dell’art. 233, anche prima del decorso del termine minimo di tre anni “se risulta che non può essere acquisito ulteriore attivo da distribuire” (art. 272, comma 3). 
A maggior ragione non è applicabile alla fattispecie in esame il nuovo comma 5 dell’art. 204 nella parte in cui prevede che “Il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all'esito dei giudizi di cui all'articolo 206, limitatamente ai crediti accertati ed al diritto di partecipare al riparto quando il debitore ha concesso ipoteca o pegno a garanzia di debiti altrui, producono effetti soltanto ai fini del concorso”; da cui discende che le decisioni prese in sede di accertamento o di successiva impugnazione sulle domande di rivendica e restituzione di beni mobili e immobili hanno efficacia di giudicato con effetto extra concorsuale. E’ del tutto evidente che le decisioni presa dal liquidatore, siano esse riguardanti diritti di credito che diritti reali o personali su beni, non possono avere un effetto extraconcorso mancando del substrato della valutazione del giudice, né possono averlo le decisioni di questo posto che il giudice delegato interviene, come detto, in sede di reclamo ex art. 133 avverso la decisione del liquidatore, soltanto per violazione di legge e non per assumere in proprio la responsabilità del provvedimento impugnato. E questo aspetto della tematica trattata evidenzia platealmente l’impossibilità del ricorso automatico all’applicazione analogica delle regole della procedura maggiore a quella minore per colmare (presunte) lacune, che nel caso in esame finirebbe per dare valore di giudicato ai provvedimenti del liquidatore in materia di rivendica e restituzione di beni, mobili e immobili. 
Anche i crediti prededucibili, in virtù della nuova disciplina contenuta nell’art. 275 bis (introdotto dal terzo correttivo in sostituzione della originaria sintetica disciplina contenuta nel comma 2 dell’art, 277[103]), sono accertati, secondo quanto prescrive il comma 1, con le modalità di cui all’art. 273, con esclusione di quelli non contestati per collocazione e ammontare, anche se sorti durante l’esercizio dell’impresa[104]. E’ vero, quindi, che la norma di cui all’art. 275 bis ha un contenuto analogo a quella contemplata dall’art. 222, ma, in forza del richiamo alle modalità di cui all’art. 273, l’accertamento di tutti i crediti contestati deve avvenire in sede di formazione dello stato passivo ad opera del liquidatore, che è l’organo cui è demandato tale compito nella liquidazione controllata, il cui provvedimento è impugnabile con il reclamo ex art. 133[105]. 
La diversità dell’organo che procede alla formazione dello stato passivo nelle due procedure comporta una ovvia differenza regolamentazione dell’accertamento dei provvedimenti di liquidazione dei compensi in favore dei soggetti nominati nel corso della procedura che siano contestati. Invero, l’art. 222 dispone che l’accertamento di tali crediti va effettuato con il procedimento di cui all’art. 124, nel mentre l’art. 273 conferma che il loro accertamento va eseguito con le modalità di cui all’art. 273. La prima disposizione si spiega agevolmente con il fatto che si sta parlando di crediti sorti a seguito di provvedimenti di liquidazione di compensi emessi dal giudice delegato in favore dei soggetti nominati ai sensi dell’art. 123 da lui stesso, o dal curatore, ai quali il giudice è tenuto a liquidare il compenso, ai sensi della lett. d) della stessa norma (avvocati, periti stimatori, ecc).; poichè, nel caso, la contestazione investe il decreto del giudice che, nell’accogliere o rifiutare la liquidazione, ha già svolto un accertamento sul diritto al compenso del soggetto incaricato, utilizzando anche il parere del curatore al quale appartiene l’iniziativa della richiesta, diventa superfluo un riesame della questione da parte stesso giudice in sede di verifica, nel mentre è conforme ai principi assoggettare quel provvedimento al reclamo ai sensi dell’art. 124. Situazione che non si riproduce nella liquidazione controllata ove l’accertamento dei crediti, anche prededucibili, è demandato al liquidatore, sicchè non sorge, in questa procedura, la necessitò di evitare un ulteriore valutazione dello stesso organo che ha liquidato il compenso e, pertanto, l’accertamento può seguire le ordinarie regole di cui all’art. 273, anche se, in tal caso, il liquidatore si trova a giudicare dell’ammissione di un credito su cui si è già espresso, in sede di liquidazione del compenso, il giudice delegato.
9 . Il trattamento della solidarietà
Nella disciplina sulla liquidazione controllata non si trova alcun riferimento ai debiti solidali, né vi è un richiamo agli artt. 160-162 che trattano, riprendendo le disposizioni contenute negli artt. 61-63 della legge fallimentare, della sorte dell’obbligazione solidale nella procedura di liquidazione giudiziale, nonché dei pagamenti parziali effettuati prima o dopo l’apertura della procedura e dell’esercizio del diritto di regresso[106]. 
Per capire il significato di questo silenzio, nell’ottica prospettata di eventualmente sopperirvi con l’estensione alla procedura minore della normativa dettata per quella maggiore, vanno esaminate fugacemente le norme sopra citate. 
Il primo comma dell’art. 160 dispone che “il creditore di più coobbligati in solido, concorre nella liquidazione giudiziale del patrimonio di quelli sono sottoposti a tale procedura , per l’intero credito in capitale e accessori, sino al totale pagamento”; è evidente che questa prima regola è la trasposizione, in ambito concorsuale, dell’assetto sostanziale sotteso al vincolo di solidarietà passiva sancito nel principio generale dettato dall'art. 1292 c.c., secondo il quale il creditore di più obbligati in solido può rivolgersi a ciascuno (e cioè a uno o a tutti i condebitori) per ottenere il pagamento dell'intero. La partecipazione al passivo del o dei condebitori in liquidazione giudiziale “per l'intero credito per capitale ed accessori” fa chiaro riferimento all'ipotesi in cui il creditore nulla abbia ricevuto prima della apertura della liquidazione, giacché, ove prima di questo evento abbia ricevuto un pagamento parziale, non può chiedere agli altri coobbligati l'intero, giusto il disposto del primo comma dell'art. 161, per il quale il creditore che ha ricevuto, prima di tale data, pagamenti parziali da altri coobbligati, può partecipare al concorso soltanto per la parte non riscossa. E, del resto, è la stessa cristallizzazione determinata dall’apertura della procedura liquidatoria a carico del o dei debitori che comporta la limitazione del diritto d’insinuazione al passivo del creditore parzialmente soddisfatto in epoca anteriore all’apertura della procedura concorsuale alla sola porzione di credito non riscossa fino a quel momento. 
Ovviamente queste regole, in quanto fondate sui principi di diritto comune e della concorsualità, non possono non valere anche nella liquidazione controllata, che, come detto, è una procedura concorsuale rivolta, come quella maggiore, alla liquidazione del patrimonio del debitore e al soddisfacimento del ceto creditorio. Anche in questa procedura, quindi, nell'ipotesi in cui non tutti i coobbligati siano stati assoggettati alla stessa, la domanda nei confronti del o dei debitori nei cui confronti è stata aperta la liquidazione controllata va proposta con le forme di cui all'art. 273 di cui si è parlato in precedenza, con la quale il creditore che ha ricevuto, prima dell’apertura della liquidazione controllata, pagamenti parziali da altri coobbligati, partecipa al concorso del o dei condebitori soltanto per la parte di credito non riscossa. 
E, come questi ha diritto, a norma del primo comma dell'art. 161, a concorrere al passivo del debitore solidale solo per la residua parte di credito non riscossa prima dell’apertura della procedura, così specularmente il condebitore parzialmente solvente concorre, a norma del comma 2 dell'art. 161, nel passivo di questi per la somma pagata prima dell’apertura della liquidazione giudiziale[107]. 
Orbene, il riconoscimento del diritto di regresso al condebitore per la parte pagata anteriormente all’apertura della liquidazione giudiziale nonostante il mancato integrale soddisfacimento del creditore comune deroga al disposto di cui all’art. 1299 c.c., che ammette il regresso del condebitore soltanto dopo l'estinzione dell'intero debito, tuttavia, una tale deviazione si rende necessaria a causa della intervenuta apertura di una procedura concorsuale liquidatoria, che ha come cardine il principio della esclusività dell’accertamento del passivo, per cui qualsiasi creditore abbia pretese da far valere nel concorso sostanziale deve passare attraverso il concorso formale dell’accertamento del passivo. 
Del resto, una volta riconosciuto il diritto del creditore ad insinuare soltanto la parte residua di credito decurtata dei pagamenti ricevuti anteriormente alla apertura della liquidazione giudiziale il legislatore non poteva non riconoscere contestualmente il regresso parziale del solvens per le quote di credito soddisfatte, attesa la situazione di conclamata insolvenza del condebitore e la natura concorsuale del credito di rivalsa, salvo a graziare la procedura del pagamento di quanto anticipato dal condebitore parzialmente adempiente. Ed, infatti, mentre nei rapporti regolati dal diritto comune il divieto di regresso prima della completa soddisfazione della pretesa creditoria ha lo scopo di preservare la solvibilità degli altri condebitori nell’interesse esclusivo del creditore, aperta la liquidazione giudiziale diventa preminente l’esigenza di assicurare ad un creditore concorsuale coobbligato, parzialmente solvente in epoca anteriore all’apertura della procedura, la partecipazione al concorso con gli altri creditori. 
Questa stessa esigenza ricorre anche nella liquidazione controllata, che, come quella giudiziale, apre il concorso tra tutti i creditori con l’applicazione del conseguente principio della esclusività dell’accertamento del passivo, sicché questa regola, per quanto derogatoria del diritto comune (e pertanto speciale ma non eccezionale), può applicarsi anche alla procedura minore ricorrendo quel rapporto di somiglianza tra la vicenda regolata e quella non regolata che consente il ricorso all’analogia. 
Non potendo escludere il regresso parziale del solvens per pagamenti ante procedura, il legislatore doveva trovare un altro meccanismo per attuare la tutela del creditore, e ciò ha fatto attraverso il subingresso, previsto dal terzo comma dell'art.161, nella quota di riparto spettante al coobbligato che abbia esercitato il regresso per quanto da lui corrisposto prima della apertura della liquidazione giudiziale a carico del coobbligato[108]. Esso, quindi, costituisce un mezzo di rafforzamento della posizione del creditore, cui è finalizzata la disciplina della solidarietà, e contestualmente spiega la ragione del diritto di regresso concesso ai coobbligati che abbiano adempiuto parzialmente prima dell’apertura della procedura a carico degli altri coobbligati. Posto, infatti, che il creditore deve determinare l'importo del suo credito al momento della apertura della procedura a carico del o dei coobbligati detraendo gli importi in pagamento fino a quel momento ricevuti, se non fosse previsto il concorso in regresso del solvens, con il conseguenziale subingresso dello stesso creditore nella quota di riparto a questo spettante, il creditore avrebbe minori possibilità di essere soddisfatto e del pagamento già effettuato se ne avvantaggerebbero tutti gli altri creditori; d'altra parte, se fosse previsto solo il regresso, senza il subingresso, il coobbligato potrebbe recuperare parte del suo credito prima della soddisfazione del creditore. La partecipazione del solvens parziale al passivo del coobbligato in liquidazione diventa, quindi, utile principalmente al creditore che, in tal caso, può esercitare il subingresso, di modo che questi, nel caso di inerzia del solvens parziale, può far valere in via surrogatoria ex art. 2900 c.c. l'insinuazione al passivo che avrebbe potuto esercitare il coobbligato che ha adempiuto parzialmente prima del fallimento. 
Anche questa soluzione, che si inserisce in un assetto tipico della solidarietà nella concorsualità, viene incontro ad esigenze che sono alla base pure della liquidazione controllata. 
Dalla lettura sistematica degli artt. 160 e 161 si ricava, inoltre, che il creditore, una volta insinuato il credito al passivo della o delle liquidazioni giudiziali dei coobbligati solidali con riferimento all'effettivo credito residuato al momento dell’apertura di ciascuna procedura, continua a concorrere in ciascuna di essa - e, quindi, ai riparti di ciascuna massa - per l'importo del credito ammesso, sia che non abbia ricevuto alcun pagamento, sia che abbia ricevuto dei pagamenti parziali da altri coobbligati successivamente all’apertura del concorso[109]. 
L'inalterabilità dell'ammissione permane fino al totale pagamento del creditore; fino, cioè, alla sua integrale soddisfazione, sicché, anche per quanto riguarda l'esercizio del regresso, è da considerare parziale il pagamento fatto dal coobbligato che non estingue il credito, anche se esaurisce la sua obbligazione (ipotesi del fideiussore parziale o pro quota); ossia, l'integralità del pagamento deve essere valutato ex parte creditoris
L'inalterabilità dell'insinuazione del creditore va ricercata nella funzione stessa della solidarietà (che è quella di assicurare il pagamento dell'intero credito), rapportata alla situazione di insolvenza in cui si vengono a trovare uno o più dei debitori solidali, cioè, nell'intento del legislatore di apportare un ulteriore rafforzamento della funzione stessa della solidarietà, tale da porre il creditore al riparo dell'insolvenza. E l'unico mezzo efficace per raggiungere tale scopo era quello di consentirgli di mantenere artificialmente inalterata l'insinuazione, nonostante la parziale soddisfazione[110], giacché è evidente che, se il creditore può insinuare il proprio credito nelle liquidazioni di tutti i coobbligati e mantenere l'insinuazione per l'intero, indipendentemente dalla percentuale ricevuta in una procedura o da un coobbligato in bonis, ha maggiori possibilità di essere soddisfatto che non riducendo le sue pretese alla parte residua del credito non pagato. 
Un sistema diverso, che prevedesse la riduzione del credito all'effettivo residuo, avrebbe dovuto comportare la contemporanea possibilità del regresso (in senso lato) per quanto corrisposto dai coobbligati; il che sarebbe stato concettualmente possibile nonostante il divieto posto dall'art. 1299, comma 1, c.c., ma si sarebbe corso il pericolo - che il legislatore ha inteso evitare - che questi ultimi fossero soddisfatti, in tutto o in parte, prima della soddisfazione integrale del creditore. Questo pericolo si corre anche nell'ipotesi di pagamenti parziali effettuati prima dell’apertura della liquidazione giudiziale di uno dei coobbligati, ove opera il meccanismo della riduzione del credito al saldo effettivo e contemporaneo regresso del solvens per i pagamenti parziali effettuati, ma, in questo caso, è fortemente attenuato dalla previsione dell'ultimo comma dell’art. 161, che consente al creditore di farsi assegnare la quota di riparto che spetterebbe al coobbligato per il regresso anticipato. 
Orbene, se con il meccanismo dell'inalterabilità dell'insinuazione per effetto dai pagamenti parziali, il legislatore ha inteso rafforzare la tutela del creditore di fronte all'insolvenza di uno o più dei suoi condebitori facendo ricadere le conseguenze dell'insolvenza prevalentemente sulla massa dei creditori piuttosto che sui condebitori, come, invece, dispone il secondo comma dell'art. 1299 c.c., questa esigenza non è esclusiva della liquidazione giudiziale, ma esprime, in una scala di valori, quello che il legislatore ha inteso tutelare prioritariamente rispetto ad altri e che si raccorda nella funzione stessa della solidarietà rapportata alla situazione di insolvenza in cui si vengono a trovare uno o più dei debitori solidali; e questa esigenza di offrire un ulteriore rafforzamento della funzione stessa della solidarietà, tale da porre il creditore al riparo dell'insolvenza, ricorre evidentemente anche nella liquidazione controllata, posto che, per usare le parole della Corte Costituzionale l’apertura di questa “introduce il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore, i cui beni compresi nella procedura devono soddisfare le ragioni creditorie”. 
Alla regola della immutabilità dell'insinuazione del creditore si accompagna quella dell'irrilevanza, ai fini della partecipazione al concorso, degli adempimenti parziali eseguiti dai condebitori coobbligati successivamente alla apertura della procedura. E questo divieto del regresso parziale è una caratteristica della procedura concorsuale in quanto deroga alla disciplina comune, ove la pretesa del creditore è via via ridotta, a seguito degli adempimenti parziali effettuati da un coobbligato nel corso dell'esecuzione individuale, alla parte di credito non ancora soddisfatta. 
Sulle ragioni di questo sistema è noto che vi è stata un lungo travaglio sia in dottrina che in giurisprudenza, ma può ritenersi ormai acquisita nella giurisprudenza l’affermazione secondo cui il principio della cristallizzazione della massa passiva non si oppone, in linea di massima, alla sostituzione del credito spettante, in via di surrogazione o regresso, al coobbligato solidale che abbia pagato in data successiva alla dichiarazione di fallimento del debitore principale a quello già insinuato o che avrebbe potuto essere insinuato al passivo dal creditore comune, operando il pagamento come causa estintiva del credito vantato da quest'ultimo nei confronti del debitore principale, con la conseguente esclusione di qualsiasi duplicazione di credili. “Tuttavia, è inammissibile la surrogazione, allorché il pagamento effettuato dal coobbligato o dal fideiussore non risulti interamente satisfattivo della pretesa del creditore, ostando a ciò l'art. 61, comma 2, L. fall., il quale costituisce una norma speciale che introduce un'eccezione al principio dell'opponibilità al creditore comune dei pagamenti parziali ricevuti, e, nel subordinare l'esercizio dell'azione di rivalsa alla condizione che il creditore comune sia stato soddisfatto per l'intero credito ove il pagamento sia effettuato successivamente alla dichiarazione di fallimento, detta una disposizione applicabile non solo all'azione di regresso, specificamente contemplata dalla norma in esame, ma anche a quella di surrogazione, posto che, ai fini dell'ammissibilità tanto della surrogazione, quanto del regresso, ciò che rileva non è la circostanza che attraverso il pagamento il coobbligato abbia totalmente assolto la propria obbligazione, ma che l'adempimento risulti integrale ex parte creditoris, cioè idoneo ad estinguere la pretesa che il creditore comune abbia insinuato o possa insinuare al passivo del fallimento”[111]. 
In sostanza, il divieto di rivalsa parziale (in via di surroga o di regresso) non deriva dalla natura non concorsuale dei crediti relativi bensì dall'insensibilità dell'obbligazione solidale alle riduzioni determinate dai pagamenti parziali intervenuti durante il fallimento, ed ora durante la liquidazione giudiziale, di cui non ne costituisce la causa ma ne è la conseguenza. Invero, una volta stabilita l'inalterabilità del credito insinuato ai pagamenti parziali, necessariamente si doveva impedire la rivalsa parziale, altrimenti si sarebbe avuto un ingiustificato aumento del passivo fallimentare, concorrendo due volte lo stesso credito. 
Eguale effetto duplicativo si avrebbe nella liquidazione controllata ove si consentisse la rivalsa dei pagamenti parziali effettuati successivamente all’apertura della procedura, stante la inalterabilità dell’ammissione dell’editore che, come detto opera anche in tale procedura. 
Si può pertanto concludere questa breve disamina sul trattamento della solidarietà affermando che il compresso normativo degli artt. 160-162 è applicabile anche alla liquidazione controllata ricorrendo in entrambe le procedure le stesse esigenze che il legislatore ha inteso tutelare con detta disciplina speciale.
10 . Le azioni revocatorie e di responsabilità
L’art. 274, dopo aver attribuito al liquidatore la legittimazione ad esercitare le azioni recuperatorie, dispone al comma 2 che questi, “sempre con l’autorizzazione del giudice delegato, esercita o, se pendenti, prosegue le azioni dirette a far dichiarare inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori, secondo le norme del Codice civile”, colmando così una lacuna della disciplina dettata dalla L. n. 3/2012[112]. 
Come si vede, il nuovo legislatore attribuendo al liquidatore la legittimazione ad iniziare o proseguire soltanto le azioni revocatorie ordinarie[113], esclude che il liquidatore possa esercitare l’azione revocatoria fallimentare; il che è del tutto incoerente con la più volte proclamata natura concorsuale della procedura di liquidazione controllata. 
La revocatoria fallimentare è, infatti, una delle più chiare manifestazioni della concorsualità che caratterizzava il fallimento ed ora la liquidazione giudiziale in quanto azione ricostruttiva del patrimonio del debitore insolvente nell’interesse unitario della massa dei creditori, che solo il curatore può esercitare, finalizzata a realizzare la parità di trattamento tra una platea più ampia di soggetti cui imputare le perdite. Invero, secondo la ormai comune ricostruzione antindennitaria e redistributiva dell’istituto, la revocatoria fallimentare è uno strumento diretto a ripartire in modo paritario le perdite derivanti dall’insufficienza dell’attivo non solo tra i creditori esistenti al momento dell’apertura della procedura, ma tra una collettività più ampia, comprendente anche coloro che hanno avuto causa dal debitore insolvente prima dell’apertura del fallimento o della liquidazione giudiziale; di modo che la parità della ripartizione delle perdite assume valore di strumento di realizzazione della parità di trattamento. 
Di conseguenza, l’apertura del fallimento o della liquidazione giudiziale (in questa conta anche la presentazione della domanda di apertura) segna il momento sul quale calcolare l’arco temporale in cui qualunque atto compiuto manifesta la sua idoneità lesiva, ed è, quindi, implicitamente ricondotto all’inefficacia a prescindere dalla prova di un danno nonché dall’atteggiamento fraudolento del disponente-debitore. Anche con riguardo allo stato soggettivo del terzo, la scientia fraudis non rileva qualora l’azione coinvolga gli atti a titolo gratuito e i pagamenti anticipati di crediti i quali scadono al momento dell’apertura del fallimento o posteriormente se compiuti nei 2 anni precedenti dal fallito (artt. 64 e 65 L. fall. e artt. 163 e 164 CCII), nel mentre rileva nelle altre ipotesi ancorché in una duplice declinazione, nel senso che si prevede in alcune una presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza del debitore da parte del soggetto passivo (per cui è il terzo che deve fornire la prova con ogni mezzo della propria inscientia decoctionis), ed in altre spetta al curatore provare la conoscenza da parte del terzo dell’effettiva consapevolezza della situazione finanziaria dell’imprenditore o comunque addurre elementi da cui legittimamente desumere la scientia decoctionis
Situazione completamente diversa si realizza nella revocatoria ordinaria, ancorchè venga esercitata dal curatore. Anche la revocatoria ordinaria ha lo scopo di rendere inefficaci, nei confronti del creditore agente, ogni eventuale atto dispositivo idoneo a pregiudicare la capienza patrimoniale in quanto è uno dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale che consente al creditore vittorioso in revocatoria di espropriare i beni che erano usciti dal patrimonio del proprio debitore e, come previsto sia dall’art. 66 della L. fall. che dall’art. 165 CCII, può essere esercitata anche dal curatore; tuttavia, l’azione revocatoria, anche quando esperita nell’ambito della procedura fallimentare o della liquidazione giudiziale, pur assumendo alcuni connotati di collettività, tipici della dimensione delle procedure concorsuali, mantiene i suoi presupposti applicativi, che sono determinati e individuati dall’art. 2901 c.c., che costituisce il fondamento normativo insopprimibile dell’azione in questione anche nel diverso contesto operativo. 
E’ esattamente quanto statuito anche di recente dalla S. Corte[114] quando ha ribadito che “Il curatore fallimentare che intenda promuovere l'azione revocatoria ordinaria, per dimostrare la sussistenza dell'eventus damni ha l'onere di provare tre circostanze: la consistenza del credito vantato dai creditori ammessi al passivo nei confronti del fallito; la preesistenza delle ragioni creditorie rispetto al compimento dell'atto pregiudizievole; il mutamento qualitativo o quantitativo del patrimonio del debitore per effetto di tale atto; solo se dalla valutazione complessiva e rigorosa di tutti e tre questi elementi dovesse emergere che per effetto dell'atto pregiudizievole sia divenuta oggettivamente più difficoltosa l'esazione del credito, in misura che ecceda la normale e fisiologica esposizione di un imprenditore verso i propri creditori, potrà ritenersi dimostrata la sussistenza dell'eventus damni”. Sicchè mentre nella revocatoria ordinaria l’esistenza di un danno rientra tra i presupposti applicativi la cui prova spetta al creditore agente e anche al curatore che esercita una tale azione, al contrario, nella revocatoria fallimentare è implicitamente ricondotto all’inefficacia dell’atto compiuto nel periodo sospetto legale. Ed egualmente, mentre nella revocatoria ordinaria è valorizzato lo stato soggettivo del debitore (scientia damni o consilium fraudis) oltre che quello del terzo (partecipatio fraudis), questi elementi, come accennato, sono superati dalla presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza o nella prova dello stesso nella revocatoria fallimentare. 
La concessione al liquidatore della liquidazione controllata della possibilità di esperire soltanto la revocatoria ordinaria è, quindi, fortemente punitiva per i creditori non solo per il più severo onere probatorio cui tale organo deve sottostare, ma anche perché l’azione revocatoria ordinaria, non potendo travalicare i limiti applicativi segnati dall’art. 2901 c.c. neanche quando è esercitata da un organo di una procedura concorsuale, non è utilizzabile al fine di ottenere la dichiarazione di inefficacia dei pagamenti dei debiti scaduti, giusto il disposto del comma 3 della citata norma civilistica[115]. 
Perché il legislatore non ha previsto per il liquidatore l’azione revocatoria fallimentare? 
La risposta ovvia è che la liquidazione controllata essendo una procedura destinata a soggetti non assoggettabili a fallimento o liquidazione giudiziale non può consentire uno strumento tipico di queste ultime, ma la spiegazione non è appagante perché, non è tanto la qualificazione nominalistica che conta, quanto la struttura e le finalità che si intendono perseguire. Se, infatti, si è ritenuto di predisporre per i soggetti non fallibili una procedura liquidatoria con le caratteristiche della concorsualità, modellata sulle tracce della procedura di liquidazione giudiziale, ma caratterizzata da una struttura più semplificata, nulla avrebbe impedito una più seria tutela della massa dei creditori attraverso la previsione della revocatoria fallimentare, ove le esigenze di rapidità, economicità e minor complessità processuale rispetto alla sorella maggiore avrebbero potuto giustificare diverse modalità di esercizio[116]. Ed, invece, non solo il nuovo codice restringe la legittimazione del liquidatore alla sola azione revocatoria ordinaria, ma sottopone l’autorizzazione all’esercizio della stessa “quando è utile per il miglior soddisfacimento dei creditori”, subordinando, così, come giustamente è stato detto[117], l’iniziativa giudiziale che il liquidatore intende intraprendere a un’analisi costi-benefici, tale per cui soltanto laddove i benefici che in concreto possono essere apportati alla massa superino i costi legati all’iniziativa (probabilmente da valutarsi anche in relazione alle tempistiche entro cui l’iniziativa può essere compendiata), il giudice delegato potrà disporre per l’autorizzazione della medesima”. 
È evidente che il legislatore, focalizzando ancora una volta l’attenzione sulla posizione dei debitori civili, quali il consumatore e il professionista, ha considerato i creditori non come una massa unitaria da tutelare collettivamente attraverso una efficace ricostruzione patrimoniale basata sulla parità di trattamento, ma ha visto i creditori come singoli soggetti la cui tutela può diventare appannaggio dell’organo procedurale nella tradizione della revocatoria ordinaria. E’ una scelta che, come altre fatte nello stesso senso, non tiene sufficientemente conto che la stessa normativa si applica anche alle imprese sotto soglia e alle imprese agricole ammesse alla liquidazione controllata, le quali possono quindi continuare a pagare i debiti scaduti anche nell’imminenza dell’apertura della procedura, senza correre il rischio che gli stessi possano essere oggetto di revocatoria; il che costituisce il massimo esempio della rinuncia alla principio antiindennitario nella procedura in esame e, quindi, del rifiuto ad attuare la parità di trattamento tra tutti i creditori, in netto contrasto il criterio della concorsualità che viene proclamata come caratteristica della liquidazione minore. 
Se, come afferma la Corte Costituzionale nelle decisioni all’inizio richiamate, “l’apertura della liquidazione controllata introduce il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore, i cui beni compresi nella procedura devono soddisfare le ragioni creditorie in attuazione della par condicio creditorum”, o che “rispetto alla liquidazione giudiziale, la liquidazione controllata si atteggia a procedura minore, ma di struttura equivalente” essendo entrambe rivolte alla liquidazione del patrimonio del debitore e al soddisfacimento del ceto creditorio, se, insomma, il codice della crisi nella sua ultima versione ha operato una ulteriore svolta all'insegna della “generalizzazione soggettiva” della concorsualità, diventa chiaro che anche nella procedura in esame, di fronte al fenomeno dell’insolvenza che apre il concorso per la collettività dell’intero ceto creditorio e che coinvolge l’intero patrimonio del sovraindebitato come nella liquidazione giudiziale, debba trovare applicazione il principio della parità di trattamento non solo tra i creditori concorrenti ma, anche, nei confronti di coloro che lo sarebbero stati se il debitore non avesse estinto i debiti scaduti; e questo scopo, come visto, non può essere raggiunto attribuendo al liquidatore la legittimazione all’esercizio della sola azione revocatoria ordinaria. 
A questo punto, o si mette in dubbio la concorsualità della liquidazione controllata, il che per quanto detto non è affatto agevole, oppure bisogna pensare ad una scelta non sufficientemente ponderata del legislatore nella formulazione dell’art. 274; ai fini del presente lavoro interessa sottolineare questa sostanziale differenza tra le due procedure quanto a tutela dei creditori e la sicura inapplicabilità a quella minore della disciplina sulla revocatoria fallimentare stante la dizione dell’art. 274 che, seppur implicitamente, esclude in modo chiaro e inequivoco, la possibilità che il liquidatore possa azionare un tale strumento, e la mancanza di qualsiasi richiamo a tale disciplina. 
Completamente diversa è la situazione delle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci dal momento che l’art. 274, non solo non esclude l’esercizio da parte del liquidatore di tali azioni, ma addirittura la prevede, al comma 1, lì dove dispone che l’organo gestorio della procedura, “autorizzato dal giudice delegato, esercita e se pendente prosegue, ogni azione prevista dalla legge finalizzata a conseguire la disponibilità dei beni compresi nel patrimonio del debitore e ogni azione diretta al recupero dei crediti”; espressioni queste che abbracciano qualsiasi attività giudiziaria finalizzata al ripristinino della integrità del patrimonio attraverso il recupero crediti, siano questi derivanti da rapporti contrattuali che da illeciti e, quindi, anche le azioni di risarcimento danni che costituiscono l’oggetto di tutte le azione oggi compendiate nell’art. 255 CCII[118]. 
 Ma, in disparte questo dato già di per sé esaustivo, è la stessa struttura delle azioni di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci che conduce alle medesime conclusioni. Queste, invero, quando proposte dal curatore nei confronti degli amministratori ai sensi dell'art. 146 L. fall. come dell’art. 255 CCII, trovano giustificazione nel contenuto unitario e inscindibile delle stesse, quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale previsto a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali, nel quale confluiscono, con connotati di autonomia e con la modifica della legittimazione attiva, sia l'azione prevista dall'art. 2393 c.c. che quella di cui all'art. 2394 c.c. Ossia, come esaurientemente chiarito da tempo dalla giurisprudenza, l’affermazione per cui le azioni di responsabilità previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., quando sopravvenga il fallimento della società e siano congiuntamente esercitate dal curatore a norma dell’art. 146 L. fall., costituiscono un’azione unica ed inscindibile, finalizzata al risultato di acquisire all'attivo fallimentare ciò che è stato sottratto per fatti imputabili agli amministratori. “... sta solo a significare che il medesimo curatore non potrebbe pretendere di esercitare separatamente tali azioni al fine di conseguire due volte il ripristino del patrimonio della società fallita, cui dette azioni concorrono; e significa che l’eventuale mancata specificazione del titolo per il quale il curatore agisce fa presumere che egli abbia inteso esercitare congiuntamente entrambi tali azioni…”[119]. Tuttavia, ancorché congiuntamente esercitate, le predette azioni implicano una modifica della legittimazione attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti in quanto l’azione unitaria in sede concorsuale deriva da quelle già previste in capo alla società ed ai creditori; di modo che la posizione legittimante il curatore è determinata da quel soggetto i cui interessi fa valere in quanto egli, pur nella sua veste pubblica di organo della procedura, tutela le posizioni soggettive spettanti alla società dichiarata insolvente e ai creditori, tant’è che le azioni di responsabilità della società e dei creditori sociali, pur quando proposte dal curatore, non sono, in concreto e per nessun aspetto, regolate in modo diverso rispetto al caso in cui le stesse azioni siano proposte, fuori della procedura e separatamente, dalla società o dai creditori sociali a norma, rispettivamente, degli artt. 2392-2393 c.c. e dell’art. 2394 c.c. 
Ne segue che quando al curatore passa la disponibilità del patrimonio sociale in esso trova anche l’azione che avrebbe potuto esercitare la società per il reintegro del proprio patrimonio, sicché qui il curatore assume o subentra nella posizione processuale “volta alla tutela di un rapporto sostanziale che vede protagonisti gli amministratori e i sindaci da un lato e la società dall’altro mentre l’oggetto della tutela riguarda l’esatto adempimento con il quale amministratori e sindaci devono assolvere l’obbligazione assunta nei confronti della società stessa” [120]. Nel momento in cui, assumendo la legittimazione esclusiva all’esercizio anche dell’azione attribuita ai creditori, il curatore esercita o prosegue l’azione prevista dall’art. 2394 c.c., egli subentra nella posizione processuale di costoro esercitando un diritto sostanziale loro appartenente che, da un lato, presuppone l'insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti, e, dall’altro, richiede un danno causalmente connesso all'inosservanza da parte degli amministratori degli obblighi inerenti alla conservazione del patrimonio sociale, danno che si commisura alla corrispondente riduzione della massa attiva disponibile in favore dei creditori. 
Questi concetti sono integralmente trasferibili nella liquidazione controllata, ove il liquidatore, assumendo al pari del curatore la disponibilità dei beni del liquidato, può esercitare l’azione di responsabilità sociale e, come concessogli per l’azione revocatoria ordinaria in cui fa valere i diritti dei creditori, può esercitare o proseguire l’azione di responsabilità di cui all’art. 2394 c.c. utendo juribus dei creditori; utilizzando, nei confronti dei sindaci, il nuovo art. 2407 c.c., come modificato dalla L. n. 35 del 2025, (qualora sia applicabile ratione temporis) quanto a entità del danno risarcibile, al dies a quo del decorso della prescrizione, alla eliminazione del vincolo di solidarietà. ecc.
11 . Liquidazione, conto gestione, riparto
Il comma 2 dell’art. 275, nell’affermare che l’amministrazione dei beni del debitore passa al liquidatore, precisa che “Si applicano le disposizioni sulle vendite nella liquidazione giudiziale, in quanto compatibili”. Trattasi di un rinvio integrale alla disciplina dettata per la liquidazione giudiziale di cui agli artt. 214-219, con tutto quello che dette norme comportano; pertanto. anche nella procedura in esame, a seguito dello spossamento, la disponibilità dei beni confluisce nel patrimonio da liquidare a cura del liquidatore e la liquidazione deve essere informata ai princìpi di competitività delle vendite incentrata sul portale delle vendite pubbliche, con esclusione (in linea di massima) di ogni forma di trattativa privata; anche le vendite competitive che si concludono con un contratto di trasferimento sono quindi di vendite coattive[121], con conseguente effetto purgativo sancito dallo stesso comma 2 dell’art. 275. 
Ovviamente il rinvio integrale alla disciplina delle vendite nella liquidazione giudiziale ha come punto di riferimento centrale l’art. 216, con applicazione alla liquidazione controllata di tutti i poteri da tale norma concessi per la stima, per la liberazione dell’’immobile, per la “delega” al giudice di eseguire la vendita secondo le disposizioni del Codice di procedura civile qualora il liquidatore l’abbia proposto nel programma di liquidazione (art. 216, comma 3), ecc., compresa la facoltà per il liquidatore di subentrare nelle esecuzioni pendenti di cui al comma 10 di detto articolo. 
Uno dei primi compiti del liquidatore è, come già emerso in precedenza, la formazione del programma di liquidazione in ordine ai tempi e alle modalità della liquidazione, che, a norma dell’art. 272, comma 2, è approvato dal giudice delegato, mancando nella liquidazione controllata l’organo del comitato dei creditori, cui nella liquidazione giudiziale è demandato tale compito dopo una preventiva valutazione del giudice delegato (art. 213, comma 7). A parte questa differenza ed altre riguardanti i tempi della formazione e realizzazione del programma, il nucleo dello stesso corrisponde a quello concepito per la liquidazione giudiziale in quanto il citato comma 2 dell’art. 272 dispone che si applicano, in quanto compatibili, i commi 2, 3 e 4 dell’art. 213. 
Il richiamo del comma 2 è di particolare rilevanza in quanto consente al liquidatore di non acquisire all’attivo i beni del debitore qualora i costi da sostenere per la loro acquisizione e conservazione risultino superiore al presumibile valore di realizzazione dei beni stessi (ipotesi contemplata dall’art. 142, comma 3, fatto salvo dall’art. 213 e, peraltro già richiamato dal comma 5 dell’art. 270) oppure di dismettere, rinunciando alla liquidazione, la disponibilità di beni già acquisiti all’attivo quando risulta antieconomica la conservazione e liquidazione, probabilmente a seguito di autorizzazione del giudice delegato e non del comitato dei creditori, come previsto negli artt. 142 e 213. I commi 3 e 4 dell’art. 213 richiamati descrivono il contenuto che il programma deve presentare, nel mentre è il comma 5 di detto articolo- non richiamato- che stabilisce la tempistica della liquidazione, su cui l’art. 272, comma 3, si limita a dire che il programma deve assicurare la ragionevole durata della procedura e tratta della durata della stessa, di cui si dirà. 
In conclusione, il programma di liquidazione nelle due procedure ha la stessa funzione programmatica di razionalizzare la fase di liquidazione dell’attivo, per cui uguale è il contenuto, nel mentre divergono le procedure di approvazione e i tempi di attuazione in considerazione delle diverse categorie di debitori assoggettabili all’una e all’altra. 
Anche il riparto segue in linea di massima la disciplina dettata per la liquidazione giudiziale, ad eccezione di una significativa differenza sulla gestione delle osservazioni, la decisione sulle quali è rimessa al giudice solo nel caso in cui il liquidatore non riesca a superarle lui direttamente, in assonanza con il ruolo attribuito all’organo gestorio nella formazione del passivo, e comunque senza alcun accantonamento o previsioni di rilascio di fideiussioni[122]; e questo spiega perché nel richiamo contenuto nel comma 6 bis dell’art. 275 alle norme sul riparto della liquidazione giudiziale non sia compreso anche l’art. 220. 
La tendenza ad una regolamentazione autonoma, tesa ad escludere i creditori da ogni coinvolgimento, riprende nel procedimento di approvazione del conto gestione, dato che l’art. 275, comma 3, prevede che “terminata l’esecuzione, il liquidatore presenta il rendiconto al giudice, il quale, verificata la conformità degli atti dispositivi al programma di liquidazione, approva il rendiconto e liquida il compenso; se non approva il conto, il giudice- precisa il comma 4- indica gli atti necessari al completamento della liquidazione ovvero le opportune rettifiche ed integrazioni del rendiconto, nonché un termine per il loro compimento. 
A queste operazioni, come si vede, i creditori, come anche il debitore, sono completamente estranei non essendo prevista, a differenza della disposizione di cui all’art. 231, la fissazione di una udienza per la discussione del conto, la comunicazione ai creditori e al debitore di detta udienza e della possibilità di presentare osservazioni, ecc.; previsioni evidentemente non estensibili alla liquidazione controllata nella quale il legislatore ha scelto un diverso meccanismo di approvazione del conto, improntato alla semplificazione che, nel caso, risulta essere fin troppo spinta, al punto da riversarsi a scapito di tutte le parti coinvolte; non solo dei creditori, ma dello steso debitore, che non può interloquire sulla gestione che il liquidatore ha effettuato del suo patrimonio, se non, presumibilmente, promuovendo autonoma e successiva azione di responsabilità. 
A differenza dell’art. 231, che precisa che il rendiconto è presentato “prima del riparto finale”, l’art. 275, comma 3, nulla dice in proposito se non che il liquidatore presenta il conto “terminata l’esecuzione”; espressione da intendere nel senso che anche nella liquidazione controllata la presentazione e l’approvazione del rendiconto devono avvenire alla fine della liquidazione e prima del riparto finale, anche perché per la redazione di quest’ultimo è necessario che il giudice liquidi i compensi dovuti e si determini il netto disponibile da distribuire ai creditori. Ed infatti il comma 3 dell’art. 275 continua disponendo che il giudice delegato “se approva il rendiconto, procede alla liquidazione del compenso dell'OCC, in caso di nomina quale liquidatore e tenuto conto di quanto eventualmente convenuto dall'organismo con il debitore, o del liquidatore se diverso dall'OCC”. Se, invece il giudice non approva il rendiconto- precisa il comma 4-, egli “indica gli atti necessari al completamento della liquidazione ovvero le opportune rettifiche ed integrazioni del rendiconto, nonché un termine per il loro compimento. Se le prescrizioni non sono adempiute nel termine, anche prorogato, il giudice provvede alla sostituzione del liquidatore e nella liquidazione del compenso tiene conto della diligenza prestata, con possibilità di escludere in tutto o in parte il compenso stesso”. 
Si tratta di disposizioni che nel confermare la irrilevanza della partecipazione dei creditori e del debitore, alle operazioni di approvazione del rendiconto, anche nel caso in cui il giudice ritenga di non approvarlo, (con possibilità in tal caso per il liquidatore di impugnare il provvedimento ex art. 124) evidenziano la collocazione della liquidazione del compenso al liquidatore, che sia stato anche gestore o che abbia svolto solo le funzioni di liquidatore, prima del riparto finale e al completamento delle operazioni di liquidazione del patrimonio, indipendentemente dal fatto che il conto sia approvato o non; nel primo caso per la definizione delle spese in vista del riparto finale, nel secondo per la revoca del liquidatore che cessando dal suo incarico ha diritto alla liquidazione del compenso (che nell’ottica del comportamento tenuto potrebbe anche essere pari a zero). La conferma viene dal comma 2 dell’art. 276, per il quale, “con il decreto di chiusura, il giudice su istanza del liquidatore, autorizza il pagamento del compenso liquidato ai sensi dell’art. 275, comma 3”, sicché la liquidazione avviene ai sensi di quest’ultima norma al momento in precedenza detto e solo il pagamento è rinviato alla chiusura della procedura. 
La fase della chiusura è, invece, incentrata sul richiamo dell’art. 233 da parte dell’art. 276, comma 1, che il terzo decreto correttivo ha reso più completo individuando i soggetti legittimati a chiedere la chiusura (“su istanza del liquidatore o del debitore” e, per sopperire alla eventuale inerzia di costoro” è aggiunto “ovvero d’ufficio), in analogia a quanto previsto dall’articolo 235 per la liquidazione giudiziale, e prevedendo il deposito di una relazione finale da parte del liquidatore contenente ogni fatto rilevante ai fini della esdebitazione per agevolare il relativo procedimento[123]. 
Il richiamo dell’art. 233 consente, quindi, di chiudere la procedura minore in presenza delle stesse condizioni che giustificano la chiusura della liquidazione giudiziale, con le conseguenze contemplate nei commi 2 e 3 dell’art. 233 quando assoggettata alla liquidazione controllata è una società impresa minore. 
A questo punto già sorge un primo problema, che riguarda la possibilità di chiudere la liquidazione controllata con un concordato (che viene definito endoliquidatorio in assonanza con il pregresso concordato fallimentare e per distinguerlo da quello preventivo). La risposta affermativa viene immediata in quanto il primo comma dell’art. 233- richiamato dal pari comma dell’art. 276- fa riferimento anche al concordato quale mezzo di chiusura, ma a un esame più attento si rileva che l’art. 233 non prevede tra le cause di chiusura il concordato, ma si limita a far salve le disposizioni dettate per il concordato endoliquidatorio; distinzione di non poco conto ai fini del discorso che si sta conducendo in quanto rileva che non è l’art. 233 a disporre e regolare quale causa di chiusura della procedura di liquidazione giudiziale il concordato, ma che detta norma fa salva la possibilità di chiudere la procedura attraverso il concordato endoliquidatorio, che è istituto previsto e regolamentato a parte negli artt. 240 e segg., allo scopo di chiarire che la chiusura per le cause indicate nel primo comma dell’art. 233 non escludono che si possa pervenire alla chiusura anche a mezzo del concordato. 
Questa operazione interpretativa non presenta ostacoli nella liquidazione giudiziale in quanto in questa procedura, come detto, è previsto e regolamentato l’istituto del concordato endoliquidatorio, nel mentre trasporre lo stesso criterio interpretativo nella liquidazione controllata, che non contiene alcun riferimento al concordato quale mezzo di chiusura della procedura, significherebbe attribuire all’art. 233 l’innovativo valore costitutivo dell’introduzione di tale istituto nella procedura minore e, di conseguenza, significherebbe importare in questa per analogia l’istituto del concordato come regolato dagli artt. da 240 a 253 e da 265 a 267, in quanto compatibili (e molte non lo sono, a cominciare da quelle che richiedono l’intervento determinante del comitato dei creditori, inesistente nella procedura in esame). 
Orbene, il trapianto di un intero istituto, che ha quale suo imprescindibile presupposto applicativo una sentenza di liquidazione giudiziale, nel contesto della liquidazione controllata, richiederebbe qualcosa di più del silenzio o del semplice richiamo dell’art. 233. La differente struttura delle due procedure, la presenza tra i sovraindebitati dei consumatori e professionisti ai quali il concordato pensato per l’imprenditore assoggettato alla liquidazione giudiziale mal si adatta, la tipizzazione degli strumenti di regolamentazione della crisi, che costituiscono un numero chiuso, tra i quali si fa rientrare il concordato nella liquidazione giudiziale, la semplificazione della disciplina della procedura minore, sono elementi tutti che, nel confermare l’interpretazione sopra data, inducono a ritenere che la normativa sul concordato in esame trovi applicazione esclusivamente nell’ipotesi in cui sia stata aperta una procedura di liquidazione giudiziale nei confronti di un imprenditore e che, pertanto, la mancanza di una chiara previsione normativa che estenda la stessa possibilità nella procedura di liquidazione controllata “costituisce indice significativo della volontà del legislatore di non consentire, in generale, ai sovraindebitati di risolvere la propria crisi attraverso questo strumento”[124]. 
Il richiamo del solo art. 233 da parte dell’art. 277 fa sorgere l’ulteriore problema dell’applicabilità alla liquidazione controllata delle norme di cui agli artt. 234, 235 e 236 che, pur riguardando la chiusura della liquidazione giudiziale, non sono richiamati. 
Mi sembra del tutto naturale il trasferimento nella procedura in esame degli artt. 235 e 236 in quanto questi specificano le modalità e gli effetti della chiusura di cui all’art. 233, nel mentre l’art. 234 disciplina in modo autonomo l’ipotesi della c.d. chiusura anticipata, prevedendo che questa non è impedita, in presenza delle condizioni di cui alle lett. c) e d) del comma 1 dell’art. 233, dalla pendenza di giudizi o procedimenti esecutivi che proseguono, con una ultrattività degli organi procedurali del giudice e del curatore, per il quale è previsto una integrazione del compenso per l’attività svolta in questa fase (art.137, comma 2) e accantonamento per eventuali spese future e oneri relativi ai giudizi pendenti, ecc. Si tratta di una chiusura che deroga alle regole generali che l’impediscono in presenza di attivo ancora da liquidare; che non comporta la cancellazione della società dal registro delle imprese sino alla conclusione dei giudizi in corso e alla effettuazione dei riparti supplementari, anche all’esito delle ulteriori attività liquidatorie che si siano rese necessarie, dopo di che si procede all’archiviazione (figura nuova nel panorama concorsuale) della procedura; che comporta, ai sensi della previsione dell’ult. comma dell’art. 236, il divieto per i creditori di agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi allo scopo di sottolineare, quale forma di eccezionale ultrattività della concorsualità, che, benché la procedura sia chiusa, ciò che proviene dai giudizi che hanno impedito la chiusura definitiva, non va restituito al debitore tornato in bonis, ma va distribuito tra i creditori, come consacrati nello stato passivo esecutivo e definitivo, per cui va anche sottratto al potere di aggressione dei singoli creditori 
Si tratta, insomma, di un innovativo tipo di chiusura, completamente diverso, sia quanto a tipologia che ad effetti, da quella ordinaria, introdotto nella legge fallimentare con il D.L. n. 83 del 2015 ed ispirato a necessità acceleratorie per le quali la chiusura del fallimento non deve essere ritardata dalla necessità di ricorrere alle vie giudiziali per l’acquisizione di utilità destinate a integrare le liquidità da destinare ai creditori, anche allo scopo di evitare le numerose pretese risarcitorie alimentate dalla legge Pinto. Orbene, una tale novità, derogatoria della regola generale, non può essere trasposta nella liquidazione controllata senza un richiamo della fattispecie normativa interessata, pensata, tra l’altro, con riferimento agli imprenditori commerciali soggetti alla liquidazione giudiziale e non certo per il consumatore o il professionista, ai quali, come più volte detto, si ispira la disciplina della procedura minore. E’ pertanto logico ritenere che, anche in questo caso, il silenzio sulla chiusura anticipata nel contesto della norma che pur tratta della chiusura nella liquidazione controllata, non costituisca un vuoto da colmare in via analogica, ma una scelta fatta dal legislatore di non consentire ai sovraindebitati di chiudere la procedura attraverso questo strumento, probabilmente perché la semplificazione del rito della procedura è ritenuta sufficiente ad accorciare i tempi della stessa in quello strabismo che guarda anche alle imprese minori e all’impresa agricola ma si accentra sulla posizione del consumatore e del professionista. 
Anche l’istituto della riapertura della procedura è sconosciuto nella disciplina della liquidazione controllata, ove i termini minimo e massimo triennale costituiscono un limite invalicabile a tutela del soggetto sovraindebitato, dettato, come affermato anche dalla Corte Costituzionale n. 6 del 2024, dalla necessità di attuare un equo contemperamento degli interessi in gioco: da un lato la par condicio, che postula il diritto al pari concorso dei creditori sui beni e le attività del debitore e dall’altro la ragionevole durata del procedimento, il cui eccessivo prolungamento conculcherebbe i diritti dei singoli creditori di coltivare autonomamente le azioni esecutive individuali[125]. 
Inoltre la riapertura mal si concilia con la esdebitazione, tant’è che anche la riapertura della liquidazione giudiziale è condizionata dall’art. 237 dalla mancanza di intervenuta esdebitazione. Questa, come si dirà, prima dell’intervento del correttivo del 2024, nella liquidazione controllata era automatica alla chiusura della procedura, il che giustificava la mancata previsione della riapertura in continuità con il disposto dell’art. 237; ora l’esdebitazione non segue più di diritto neanche alla chiusura della procedura minore, ma essendo, come più volte ricordato, questa procedura finalizzata proprio alla esdebitazione, un tale scopo è rimasto determinante nella costruzione della disciplina, oltre che essere presente nelle intenzioni del debitore sovraindebitato, che a questo strumento fa sempre ricorso. 
12 . Esdebitazione e durata della procedura
L’istituto della esdebitazione, introdotto con la riforma del 2006 della legge fallimentare inserendo nel contesto di questa gli artt. 142–144, consentiva per la prima volta al fallito persona fisica di essere liberato, a determinate condizioni, dai debiti concorsuali residui dopo la chiusura del fallimento[126], allo scopo di permettere un reinserimento del debitore nel mondo economico, anche in una prospettiva di politica sociale che rispondeva all’esigenza di allineare l’Italia ai principi internazionali del fresh start (ed, infatti, con la L. n. 3 del 2012 lo stesso beneficio era stato esteso ai debitori non fallibili in condizioni di sovraindebitamento). 
Il Codice della crisi ha riordinato integralmente la materia, unificando in un testo unico sia la disciplina del fallimento sia quella del sovraindebitamento dettando alcune disposizioni di carattere generale di cui agli artt. 278-280, applicabili sia alla liquidazione giudiziale che alla liquidazione controllata, tra cui spicca la definizione dell’istituto, che “consiste nella liberazione dei debiti e comporta la inesigibilità dal debitore dei crediti rimasti insoddisfatti nell’ambito di una procedura di liquidazione giudiziale o di liquidazione controllata” nonché la possibilità di accedere all’istituto dell’esdebitazione anche alle società, sia di persone sia di capitali[127]; a queste seguono una specifica norma dedicata alla procedura maggiore (art. 281) ed una alla procedura minore (art. 282), prima di trattare di quella particolare figura che è l’esdebitazione del sovraindebitato incapiente, di cui all’art. 283. 
L’intera materia ha subito modifiche con il terzo decreto correttivo e le più profonde hanno interessato proprio l’art. 282, in virtù del quale per le insolvenze di minore portata era prevista la possibilità di un’esdebitazione di diritto, che non richiedeva la pronuncia di un apposito provvedimento del giudice, conseguente alla chiusura della procedura di liquidazione controllata, salva la possibilità di eventuale opposizione da parte dei creditori i quali contestassero la sussistenza delle prescritte condizioni, che il giudice era chiamato in tal caso a verificare. Secondo la nuova versione dell’art. 282 la concessione del beneficio dell’esdebitazione, sia in caso di provvedimento chiusura della procedura che sia in caso di decorso di tre anni dalla sua apertura, non opera di diritto in quanto è collegata ad una decisione del tribunale su istanza del debitore o segnalazione del liquidatore; è stato, altresì introdotta una forma di contraddittorio anticipato sulla richiesta di esdebitazione tant’è che l’istanza del debitore va comunicata ai creditori, i quali possono presentare osservazioni nei quindici giorni successivi, fermo restando il reclamo contro il provvedimento di concessione. 
Queste, ed altre modifiche di minore portata, avvicinano di molto le regole dell’esdebitazione nelle due procedure in esame; in entrambe, infatti, è concesso anche alle società, sia di persone sia di capitali, di avvalersi di tale misura premiale[128] ed in entrambe il debitore ha diritto a conseguire l’esdebitazione decorsi tre anni dall’apertura della procedura di liquidazione o al momento della chiusura della procedura, se antecedente“ (art. 279), il che comporta che l’esdebitazione va pronunciata contestualmente al provvedimento di chiusura, ma può essere disposta anche anteriormente decorsi tre anni dalla sua apertura seguendo le regole, ormai affini dell’art. 281 nella liquidazione giudiziale e quelle di cui all’art. 282 nella liquidazione controllata. Soluzione già anticipata nella liquidazione controllata dal comma 3 dell’art. 272 laddove, nel prevedere che il programma di liquidazione deve assicurare la ragionevole, durata della procedura, aggiunge nella ultima versione che “La procedura rimane aperta sino alla completa esecuzione delle operazioni di liquidazione e, in ogni caso, per tre anni decorrenti dalla data di apertura“ e prosegue precisando che “La procedura è chiusa anche anteriormente, su istanza del liquidatore, se risulta che non può essere acquisito ulteriore attivo da distribuire”. È, di conseguenza, pacifico che la procedura di liquidazione controllata resta aperta fino al termine delle operazioni di liquidazione e, comunque, per un termine non inferiore a tre anni, fermo restando che nell’ipotesi di mancanza di attivo e qualora le operazioni di liquidazione e di riparto siano completate prima del decorso del triennio, la procedura può essere chiusa anche prima e il debitore può accedere all’esdebitazione, in presenza dei requisiti indicati nell’art. 282[129]. 
Come si vede il tema della esdebitazione si interseca con quello della durata della liquidazione controllata, ma è anche chiaro che una tale tematica si pone principalmente nelle procedure a vocazione meramente reddituale, aperte a carico di debitori che non abbiano altre utilità da offrire ai creditori, se non una quota delle future entrate stipendiali o pensionistiche; in questi casi, infatti, l’affermazione dell’esistenza di una durata minima e massima della procedura è fondamentale in quanto la chiusura preclude l'acquisizione al concorso dei redditi del sovraindebitato di successiva maturazione. 
Questa esigenza di delimitazione dell'orizzonte temporale di destinazione delle future frazioni disponibilidi tali entrate alla realizzazione concorsuale dei crediti, come acutamente osservato[130], nelle liquidazioni giudiziali o nelle liquidazioni controllate degli imprenditori minori “quasi non si apprezza, in quanto in esse una vocazione reddituale fa solitamente difetto del tutto, sì che, esaurite le operazioni di vendita e di riparto, la procedura non risulta più idonea ad apportare ulteriori risultati utili a beneficio dei creditori concorsuali; di modo che, ove, decorso il triennio, ricorra la necessità di portare a compimento la liquidazione dei beni che formavano la garanzia patrimoniale del debitore, la procedura continua a questo scopo, nonostante l’intervenuta esdebitazione, per cui, in questi casi, la chiusura della procedura è “neutrale” rispetto all'interesse dei creditori concorsuali e al conseguimento stesso della esdebitazione. 
La problematica della connessione nella liquidazione controllata con sola apprensione di quote di reddito o di pensione tra esdebitazione e durata della procedura è stata, come già ricordato, oggetto di esame da parte della Corte Costituzionale, su sollecitazione del Tribunale di Arezzo[131] che aveva evidenziato il contrasto coi principi di uguaglianza e di difesa, dell'art. 142, comma 2, CCII, il quale, nel sancire che la liquidazione giudiziale comprende anche i beni che pervengono al debitore durante la procedura, non prevede un termine di durata minima della apprensione dei beni sopravvenuti, dando così, spazio ad una determinazione arbitraria della durata della liquidazione da parte dei liquidatori, con conseguente esposizione dei creditori al rischio di un soddisfacimento non adeguato delle proprie pretese. 
La Corte[132], ammessa la possibilità di accedere alla procedura di liquidazione controllata anche al sovraindebitato privo di beni materiali ma che apporti prestazioni periodiche, corrispondenti a crediti esigibili nel tempo quali stipendi, salari, compensi (situazione tipica del consumatore e professionista), ha dichiarato non fondata la questioni di legittimità costituzionale sollevata in quanto “non è corretto ritenere che non si possa colmare l'asserita lacuna concernente la mancata previsione di un termine di acquisizione dei beni, che pervengono al debitore nel corso della procedura, con un criterio idoneo a fornire adeguate garanzie ai creditori. Il parametro di riferimento deve essere, infatti, costituito proprio dal soddisfacimento dei crediti concorsuali e di quelli aventi a oggetto le spese della procedura, coerentemente con la funzione dell'istituto della liquidazione controllata, correlata alla responsabilità patrimoniale del debitore. Al contempo, il parametro che guarda alla realizzazione di tali pretese, oltre che all'adempimento delle spese della procedura, deve coordinarsi con due ulteriori istanze. Da un lato, deve raccordarsi con l'istituto della esdebitazione, che comporta una responsabilità patrimoniale contenuta nel tempo e, pertanto, limita l'apprensione dei beni sopravvenuti del debitore. Da un altro lato, va considerata l'esigenza di porre un limite alla durata della procedura concorsuale, che indirettamente si riverbera sulla durata del meccanismo acquisitivo, in quanto il procedimento giurisdizionale non può protrarsi per una durata irragionevole. Pertanto, fintantoché vi siano debiti da adempiere nell'ambito della procedura concorsuale, il termine triennale correlato all'esdebitazione finisce per operare non solo quale termine massimo, ma anche quale termine minimo di apprensione dei beni”. 
Questa duplice valenza funzionale del termine triennale quale limite temporale minimo e massimo è stata accolta dal codice della crisi, nel quale, con il D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 è stato espressamente introdotto, coerentemente alla lettura data dalla Corte, nel comma 5 dell’art. 270 anche il richiamo all’art. 142[133] e lo stesso concetto è stato ripreso nel comma 3-bis dell’art. 272[134]- Alla luce di questa nuova normativa la procedura può concludersi anche prima della scadenza del termine triennale qualora risulti che non possa essere acquisito ulteriore attivo da distribuire ai creditori e, decorso il triennio, continua laddove vi siano beni già acquisiti da liquidare, nel mentre non potrà acquisire altre quote stipendiali in quanto la esdebitazione rende inesigibili i crediti rimasti insoddisfatti nell’ambito della procedura. Di conseguenza, se il debitore può contare solo su un reddito di lavoro dipendente, la liquidazione controllata può essere aperta e entro il termine massimo di tre anni dall’apertura deve essere chiusa, nel mentre, ove vi siano beni da liquidare, la procedura, nonostante il verificarsi dell’effetto esdebitatorio, può avere una durata non definita, dipendendo questa dai tempi di liquidazione dei beni presenti nel patrimonio del debitore al momento di apertura della procedura o comunque acquisiti all’attivo prima del decorso dei tre anni. La procedura, infatti, non potrà acquisire altre utilità future, quali beni destinati al sovraindebitato, ad esempio in via ereditaria, dato che il debitore ammesso alla procedura di liquidazione controllata che abbia ottenuto l'esdebitazione può sottrarre all'aggressione dei creditori le utilità future che gli pervengano successivamente al decorso del triennio dalla ammissione alla procedura. 
Sotto questo profilo è difficile rilevare una differenza con la liquidazione giudiziale. Invero, le conclusioni cui si è pervenuti con riferimento alla liquidazione controllata, che non opera più di diritto, sono applicabili anche alla liquidazione giudiziale dato che anche il debitore insolvente ammesso a tale procedura ha dritto ad ottenere l’esdebitazione alla chiusura della procedura o comunque decorsi tre anni dall’apertura della stessa (artt. 279 e 281, commi 1 e 2); sicché deve dedursi che, decorso il triennio dall’apertura della liquidazione giudiziale, qualora il debitore abbia ottenuto l’esdebitazione, non possano essere acquisiti all’attivo beni sopravvenuti, con una forte contrazione della portata dell’art. 142, comma 2, giacché anche la procedura di liquidazione giudiziale può continuare soltanto per la liquidazione dei beni preesistenti e le altre necessità recuperatorie e ricostruttive del patrimonio del debitore[135]. 
Ne dovrebbe seguire anche per le azioni revocatorie, stante la natura costitutiva delle relative statuizioni, l’inammissibilità dell’esercizio delle stesse non intraprese prima della esdebitazione. Conclusione di scarso rilievo nella liquidazione giudiziale dal momento che l’art. 170, comma 1, comunque inibisce al curatore l’esercizio delle azioni revocatorie e di inefficacia[136] decorsi tre anni dall’apertura della liquidazione giudiziale, sicché il curatore, dopo questo termine, comunque non potrebbe esercitare la revocatoria indipendentemente dall’esdebitazione. Conclusione rilevante, invece, nella liquidazione controllata, alla quale non si applica l’art. 170 riguardante la liquidazione giudiziale, ma la norma generale dettata dall’art. 2903 c.c. per le revocatorie ordinarie, che fissa in cinque anni il periodo di prescrizione; di modo che, sebbene sia intervenuta dopo un triennio l’esdebitazione, il liquidatore potrebbe comunque esercitare la revocatoria ordinaria che, in tal caso, troverebbe il debitore già esdebitato, con la conseguenza che, pur trascrivendo la domanda giudiziale cui risalgono gli effetti della sentenza revocatoria, l’acquisizione dei beni oggetto dell’atto revocato conseguente al vittorioso esercizio dell’azione sarebbe una acquisizione di beni successivo alla intervenuta concessione del beneficio della esdebitazione[137].
13 . Considerazioni finali
A conclusione di questa disamina della normativa sulla liquidazione controllata, raffrontata con quella della liquidazione giudiziale, mi sembra di poter dire che il fatto che entrambe le procedure siano rivolte alla liquidazione del patrimonio del debitore e al soddisfacimento del ceto creditorio non costituisca il lasciapassare per l’applicazione generalizzata della normativa dettata per la procedura maggiore alla procedura minore per colmare le lacune di questa perché il legislatore ha dettato per ciascuna di esse una disciplina. 
Questa è molto più semplificata nella parte che riguarda la liquidazione controllata, ma, come spiegato ripetutamente nelle varie relazioni ai provvedimenti legislativa, si tratta di una scelta voluta, dettata dal fatto che “la liquidazione concerne patrimoni tendenzialmente di limitato valore e situazioni economico finanziarie connotate da limitata complessità”. Questa scelta, non ottimale in quanto, come detto, indirizza i medesimi istituti verso categorie profondamente diverse di soggetti, accumunate dalla sola circostanza di non essere assoggettabili ad una procedura di liquidazione giudiziale, evidenzia disfunzioni sia nell’applicazione della medesima ed unica normativa, valevole oltre che ai consumatori e professionisti anche alle imprese, seppur sotto soglia, e alle imprese agricole, sia nell’applicazione a tutti i sovraindebitati di norme della procedura maggiore pensate solo con riferimento agli imprenditori commerciali; ma si tratta di disfunzioni calcolate dal legislatore, che ha dettato una disciplina non solo unica per la liquidazione controllata - che trova applicazione indipendentemente dal soggetto che vi accede, che come detto, sono molto variegati - ma anche diversa molto spesso da quella della liquidazione giudiziale. 
In tal modo i silenzi non sempre possono essere apprezzati quali vuoti normativi da riempire con applicazione analogiche, dato che il legislatore, quando ha ritenuto opportuno applicare norme della procedura maggiore, ha effettuato i dovuti richiami a queste con rinvii secchi o con la clausola della compatibilità. Non va, infatti, dimenticato che il codice costituisce un ambizioso intervento di integrale riscrittura della materia in precedenza trattata dalla legge n. 3/2012 sulla liquidazione del patrimonio e dalla legge fallimentare del 1942 e che lo stesso codice ha subito più modifiche, tra cui quelle ultime attuate con il D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136, con l’idea proprio di eliminare le incertezze interpretative e applicative pregresse e di razionalizzare alcuni istituti in adeguamento ai principi unionali, per cui è lecito ritenere che, proprio nell’ottica ricostruttiva di un sistema, i redattori abbiano utilizzato il lungo periodo di gestazione non per improvvisare un lacunoso complesso normativo, ma abbiano inteso realizzare un disegno sistematico teso a positivizzare una complessiva ed esaustiva disciplina della procedura di liquidazione controllata articolata in una normativa specifica alla fattispecie, con ricorso a richiami ove ritenuti necessari. 
In questo quadro può certamente essere presente qualche vuoto normativo, ma non è accettabile pensare che ogni istituto o aspetto non regolamentato debba essere integrato con le norme della procedura maggiore in via analogica per il solo fatto che entrambe le procedure abbiano natura concorsuale liquidatoria perchè il ricorso alla analogia è consentito dall'art. 12 preleggi, solo quando manchi nell'ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria e non quando il silenzio è voluto dal legislatore. Situazione questa che, come visto, si riproduce in tutte quelle fasi della procedura (presupposti soggettivi ed oggettivi, legittimazione, contratti pendenti, accertamento del passivo, azioni revocatorie, conto gestione, ecc.) che sono regolate secondo criteri che differiscono completamente da quelli che sono a fondamento della liquidazione giudiziale, in quanto ispirati ad una diversa ratio, che impedisce il ricorso all’analogia per applicare le norme dell’una procedura all’altra, salvo a snaturare aprioristicamente la procedura minore ad una sottospecie di quella maggiore priva di una propria autonomia. 
Il ricorso all’analogia può principalmente porsi nei casi in cui manchi una regolamentazione propria o non vi siano rinvii o richiami a norme della liquidazione giudiziale, ma questa operazione richiede uno sforzo di accertamento in concreto, indirizzato a valutare di volta in volta se e dove la normativa trattata lasci delle lacune da colmare, se esistono norme di carattere generale applicabili a tutte le procedure (e il riferimento è principalmente a quelle contenute nel capo II del titolo I, oltre che alle norme codicistiche), se esistono richiami secchi o con la clausola della compatibilità, nel qual caso va appurata la ricorrenza di tale condizione tra le norme richiamate con la procedura minore, e, infine, se siano equiparabili la ratio della norma da applicare alla fattispecie concreta in esame alla luce della regolamentazione che di questa è comunque data.
È sforzo da fare perché si tratta di un problema di grande rilevanza consistente, in ultima analisi, nello stabilire qual è la disciplina applicabile alla liquidazione controllata; problema che interessa quasi tutti gli aspetti di questa, posto che, anche per quelli espressamente regolati, vi è - come si è detto - chi va oltre le regole specifiche ritenendo applicabile per analogia la disciplina della procedura maggiore.

Note:

[1] 
Spesso si trova in dottrina la qualificazione della liquidazione controllata come la sorella minore di quella giudiziale (G. Covino-L. Jeantet-I. Gobbo, Legittimazione del creditore a proporre domanda di apertura della liquidazione controllata anche in pendenza di procedure esecutive individuali, in jus crisi d’impresa, agosto 2025; S. Sanzo, D. Burroni, Il nuovo Codice della crisi dopo il Correttivo ter, Bologna, 2024, 803; M. Montanari, Il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza: profili generali e processuali, in Riv. dir. proc. civ., 2020, 272; F. Accettella, La liquidazione controllata del sovraindebitato: un primo commento, in Nuove leggi civ., 2020, 59-660). 
[2] 
Il primo riguarda il trasferimento della disponibilità dei beni presenti e sopravvenuti al curatore, nonché la rinuncia all’acquisizione dei beni non convenienti e il secondo attiene all’interruzione dei rapporti processuali pendenti. 
[3] 
L’art. 150 dispone il blocco, salva diversa disposizione, delle azioni esecutive e cautelari anche dei creditori con causa o titolo successivo al momento dell’apertura della liquidazione giudiziale; l’art. 151 determina l’apertura del concorso dei creditori sul patrimonio del debitore per cui ogni credito, anche quello esentato dal blocco delle azioni esecutive e cautelari, deve essere accertato secondo il procedimento di accertamento del passivo. 
[4] 
La sezione II contiene le regole del procedimento unitario per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alla liquidazione giudiziale: artt. 37-53 e la sezione III quella delle misure cautelari e protettive: artt. 54 e 55. 
[5] 
Eccezione che, come correttamente sottolineato da R. Brogi, Le modifiche del d.lgs. n. 136/2024 alla disciplina sul sovraindebitamento, in Procedure concorsuali e crisi d’impresa, 2025, 133, evidenzia una distonia sistematica con la diversa previsione che nell’ambito dell’art. 271 consente al debitore, in caso di domanda di apertura della liquidazione controllata del sovraindebitato proposta dai creditori, di presentare domanda di accesso alla ristrutturazione dei debiti del consumatore o al concordato minore o chiedere un termine per presentare una di tali domande. 
[6] 
Cass. sez. un. 6 dicembre 2021, n. 38596. 
[7] 
F. Cesare, La liquidazione controllata, in Dirittodellacrisi.it, aprile 2023. 
[8] 
Corte Cost. 4 luglio 2024, n.121, in Giurisprudenza Costituzionale 2024, 4, 1251, che, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo l'art. 146 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nella parte in cui non prevede la prenotazione a debito delle spese della procedura di liquidazione controllata, afferma che “L'attuazione del principio di uguaglianza impone eguale trattamento delle situazioni omogenee, e le due procedure concorsuali della liquidazione giudiziale, per la quale è prevista la prenotazione a debito delle spese della procedura, e della liquidazione controllata sono connotate dalla stessa struttura e hanno la medesima funzione di comporre i rapporti tra creditori e debitore, liquidando il patrimonio di quest'ultimo in attuazione della par condicio creditorum”. I differenti presupposti soggettivi, comportando un valore più limitato dei patrimoni interessati e una limitata complessità delle situazioni economico-finanziarie coinvolte, “giustificano la semplificazione di alcuni aspetti della disciplina della liquidazione controllata, che però condivide con la liquidazione giudiziale gli aspetti sostanziali di fondo”. Cfr. anche Corte cost. 19 gennaio 2024, n. 6, (in Procedure concorsuali e crisi d’impresa, 2024, 1084, con nota di C. Pegoraro, Sulla gestione degli incrementi di patrimonio determinati dalla formazione di nuovi redditi: note minime sui limiti allo spossessamento del sovraindebitato; e in Riv. dir. fall., 2024, 329, con nota i M. Spiotta, Durata della liquidazione controllata: tre (anni) è il numero perfetto) che, nell’affrontare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 142, comma 2, CCII “per come applicabile nell'ambito della liquidazione controllata del sovraindebitato”, nella parte in cui “non prevede un limite temporale all'acquisizione di beni sopravvenuti all'apertura della procedura concorsuale, ha dichiarato infondata la questione sollevata sostenendo che l’asserita lacuna poteva essere superata facendo riferimento ad un criterio idoneo a fornire adeguate garanzie ai creditori, dovendosi fare riferimento al parametro “costituito proprio dal soddisfacimento dei crediti concorsuali e di quelli aventi a oggetto le spese della procedura, coerentemente con a funzione dell’istituto della liquidazione controllata, correlata alla responsabilità patrimoniale del debitore”…. posto che “l’apertura della liquidazione controllata introduce il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore (art. 151 CCII, richiamato dall’art. 270, comma 5, dello stesso CCII), i cui beni compresi nella procedura devono soddisfare le ragioni creditorie”. 
Sulla stessa linea si è mossa anche la Corte di Cassazione (Cass 19 agosto 2024, n. 22914, in Riv. esec. forz., 2024, 582 ss., con nota di A. Didone, La Cassazione sulla persistenza del privilegio processuale fondiario ex art. 41 T.U.B. e sulla sua applicabilità alla liquidazione controllata; in Jus crisi d’impresa, dicembre 2024, con nota di Ricci, La S. Corte e il privilegio processuale fondiario nella liquidazione giudiziale e nella liquidazione controllata) quando ha statuito che il creditore fondiario può avvalersi del “privilegio processuale” di cui all'art. 41, comma 2, D.Lgs. n. 385/1993 sia nel caso di sottoposizione del debitore esecutato alla procedura concorsuale di liquidazione giudiziale sia nel caso di sottoposizione del debitore esecutato alla procedura concorsuale della liquidazione controllata. In realtà la Cassazione è giunta a questa conclusione attraverso una interpretazione basata sulla lettura dell’art. 270, comma 5 CCII, il quale, nel prevedere che alla liquidazione controllata "si applicano l'art. 143 in quanto compatibile e gli artt. 150 e 151, opera un rinvio materiale e recettizio ad altra norma, quella di cui all’art. 150, per effetto del quale l'apertura della liquidazione controllata, al pari della "procedura maggiore", determina "il divieto di intraprendere o proseguire azioni esecutive individuali salvo diversa disposizione della legge”. Ciò nonostante, la Corte non ha saputo resistere alla tentazione di affermare che è chiara l'intenzione del legislatore delegato del 2019 non solo di conservare il privilegio processuale nella liquidazione giudiziale, “ma anche di estenderlo alla liquidazione controllata, così da trattare in modo analogo la liquidazione controllata e la liquidazione giudiziale, ormai avvinte da una comunanza di disciplina, in relazione alle procedure esecutive promosse dai creditori fondiari”; affermazione del tutto superflua rispetto all’interpretazione data, posto che, come afferma la stessa Corte, l’art. 270 contiene un “rinvio materiale e recettizio ad altra norma” (rinvio “secco”, nel senso che non è assoggettato neanche alla valutazione di compatibilità), in forza del quale la disciplina di una determinata fattispecie è attuata mediante il richiamo alle disposizioni di un altro atto normativo per esigenze di sintesi, così appropriandosi del contenuto prescrittivo della disposizione di rinvio, da cui la conseguenza che l’art. 270, comma 5, CCII va letto come se vi fosse trascritto l’intero art. 150 richiamato.
[9] 
In tal senso, F. Cesare, La liquidazione controllata, cit.; G. Covino-L. Jeantet-I. Gobbo, Legittimazione del creditore…cit., per i quali “il rinvio alle norme disciplinanti la procedura maggiore induce a ritenere che nel caso in cui vi sia una lacuna nella liquidazione controllata, o anche quando una disciplina o un istituto non siano previsti, potranno applicarsi gli articoli della liquidazione giudiziale (F. Cesare, La liquidazione controllata, cit.,; A. Pezzano- M. Ratti, L’esercizio dell’impresa nella liquidazione giudiziale e nella liquidazion4 controllata, in Fallimento 2024, 309. Del resto anche i precedenti della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione in precedenza richiamati si pongono in questa ottica interpretativa.
[10] 
Mentre nella legge n. 3/2012 il sovraindebitamento indica la situazione in cui si trova un soggetto che ha accumulato debiti eccessivi rispetto alle sue capacità di rimborso ed in cui lo stato di crisi e quello di insolvenza sono solo indirettamente evocati attraverso il riferimento alle “rilevante difficoltà di adempiere” e allo squilibrio patrimoniale, nel nuovo codice è offerta una definizione del sovraindebitamento che si collega allo stato di crisi o di insolvenza dei soggetti elencati nell’art. 2, comma 1, lett. c), , i quali quindi possono accedere alle procedure loro riservate sia quando versino in una di queste situazioni. Nell’attuale codice, quindi, il sovraindebitamento, accennato genericamente nell’art. 268 e definito indirettamente attraverso il richiamo della situazione di crisi e di insolvenza di cui alla lett. c) del comma 1 dell’art. 2, che sono i presupposti oggettivi anche degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e il secondo della liquidazione giudiziale, assume un valore qualificatorio attraverso la individuazione dei soggetti destinatari della procedura, che sono espressamente indicati nel consumatore, nel professionista, ecc.. Questa precisazione assume la sua importanza quando si discute della estensione della liquidazione controllata a soggetti diversi da quelli espressamente indicati e che non siano assoggettabili “alla liquidazione giudiziale, alla liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste nel codice civile o nelle leggi speciali”, sicchè ove un debitore sia ad esempio assoggettabile ad altre procedure liquidatorie non può accedere alla liquidazione controllata. Di questo principio ha fatto uso il Trib. Bergamo 24 luglio 2025 (in Dirittodellacrisi.it, ottobre 2025) per negare l’apertura della procedura in esame all’associazione non riconosciuta in quanta questo è “debitore assoggettabile ad altre procedure liquidatorie previste dal Codice civile per il caso di crisi o insolvenza”. 
[11] 
Prima del D.Lgs. n. 136/2024 potevano accedere alla liquidazione del patrimonio e poi alla liquidazione controllata anche le start up innovative che superavano i limiti dimensionali di cui all’art. 1 comma 2 L. fall. in virtù della disciplina contenuta negli artt. 25-31, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni nella l. 17 dicembre 2012, n. 221. Con il D.Lgs n. 136/2024 è stato modificato il primo comma dell’art. 37 CCII, che ha assunto ora la seguente versione: “In deroga a quanto previsto dall’articolo 31 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, le start-up innovative diverse dalle imprese minori possono richiedere, con domanda proposta esclusivamente dal debitore, l’accesso agli altri strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza previsti dal presente codice nonché l’apertura della liquidazione giudiziale.” Nel dare atto, quindi, che le start up innovative possono anche superare i parametri dimensionali previsti nell’art. 2, lett. d), CCII, la nuova norma chiarisce che, quando ciò accade, queste possono accedere alla liquidazione giudiziale, e non alla liquidazione controllata, sebbene inspiegabilmente soltanto su istanza del debitore e non di un creditore. 
[12] 
Sicchè solo se l’impresa agricola, al di là della iscrizione nel registro delle imprese, svolge un'attività commerciale in misura prevalente rispetto alle attività agricole, può essere assoggettata, superando le soglie di legge, alla liquidazione giudiziale. Giur. pacifica. Cfr. tra le ult. Cass. 7 febbraio 2023, n.3647; Cass. 28 febbraio 2023, n. 32977; Cass. 21 gennaio 2021 n. 1049; per le quali l'esenzione dell'imprenditore agricolo dal fallimento postula la prova - da parte di chi la invoca in ossequio all'art. 2697, comma 2, c.c. e del principio di vicinanza della prova – della sussistenza delle condizioni per ricondurre l'attività di commercializzazione dei prodotti agricoli esercitata nell'ambito di cui all'art. 2135, comma 3, c.c., dovendosi segnatamente dimostrare che essa ha come oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo e propri e non ceduti o coltivati da terzi. Nel caso l’impresa agricola sia organizzata in forma di cooperativa e, per tale motivo, sottoposto a liquidazione coatta amministrativa ai sensi dell’art. 2545 terdecies c.c., non potrebbe essere assoggettata alla liquidazione controllata alla luce di quanto previsto dalla lett. c) del comma 1 dell’art. 2 CCII che espressamente esclude l’accesso alle procedure da sovraindebitamento degli imprenditori assoggettabili a liquidazione coatta amministrativa. 
[13] 
 M. Fabiani, Il sistema e i principi del diritto della crisi dell’impresa, in Dirittodellacrisi.it, ottobre 2024. 
[14] 
In tal senso si è espressa, come detto, anche la Corte costituzionale 4 luglio 2024, n.121, e 19 gennaio 2024, n. 6; nonché Cass. 19 agosto 2024, n. 22914, in precedenza richiamate. 
[15] 
Così Trib. Milano, 23 luglio 2024 in Dirittodellacrisi.it. 
[16] 
Successivamente modificata dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, e dall’art. 4 ter del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni nella legge, 18 dicembre 2020, n. 176. Sono, inoltre intervenuti il D.M. della Giustizia, 24 settembre 2014, n. 202, che disciplina la costituzione, l’organizzazione ed il funzionamento degli Organismi di composizione della crisi e il D.L. 27 giugno 2015, n. 85, convertito nella L. 6 agosto 2015, n. 132, che impone l’obbligo per il creditore, munito di titolo esecutivo, di indicare, nell’atto di precetto notificato al debitore, l’avviso relativo alla possibilità, per il debitore stesso, di rivolgersi ad un OCC qualora trovi una situazione di sovraindebitamento, allo scopo di tentare di risolvere la crisi attraverso la presentazione di una proposta di accordo di composizione della crisi, piano del consumatore o liquidazione del patrimonio.
[17] 
Con il D.L. 26/10/ 2020 n. 137 fu inserito nel corpo della legge n. 3/2012 l’art. 14 quaterdecies, che trattava della esdebitazione del debitore incapiente. Questo nuovo istituto offriva al debitore, persona fisica meritevole, la possibilità di liberarsi integralmente dei propri debiti, anche nelle ipotesi in cui non era in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta neanche in prospettiva futura; pertanto esso era svincolato dall’apertura di una procedura concorsuale tendente alla ristrutturazione del debito o alla liquidazione attraverso cui pervenire alla esdebitazione, ma era direttamente finalizzata ad ottenere l’esdebitazione da parte di chi non ha nulla da offrire ai creditori e nulla da liquidare. 
[18] 
Non a caso, infatti, le condizioni dettate per l’esdebitazione sono di carattere abbastanza personale che indirizzano l’istituto, che pur è applicabile a tutti i sovraindebitati che usufruiscono della procedura di liquidazione controllata, prevalentemente verso il debitore soggetto individuale; non a caso, nella prassi, l’apertura della procedura in esame per un consumatore o un professionista è riconducibile, il più delle volte, all’iniziativa del debitore, anche perché l’istanza del creditore è corredata da una serie di condizioni limitative (di cui si dirà), a cominciare dalla situazione di insolvenza, che si confanno al debitore imprenditore. 
[19] 
Valore questo portato alle sue estreme conseguenze dalla “esdebitazione del debitore incapiente” di cui al citato art. l’art. 14 quaterdecies della L. n. 3/2012 ed ora all’art. 283 CCII, che consente l’eliminazione delle obbligazioni senza alcun soddisfacimento dei creditori, superando il precetto scolpito nell’art. 2740 c.c., in virtù a mente del quale il debitore risponde col suo patrimonio attuale e futuro di tutte le obbligazioni. 
[20] 
S. Leuzzi, La liquidazione del patrimonio dei soggetti sovraindebitati fra presente e futuro, in Ilcaso.it, 9 marzo 2019. p. 9. Sul punto cfr., altresì, G. D. Mosco, Le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, in Luiss Law Review, 2019, I, p. 7, il quale ben evidenzia come il vero obiettivo della disciplina in tema di sovraindebitamento si racchiuda essenzialmente nell’esdebitazione: istituto che può considerarsi, nel caso di specie, sinonimo di «limitazione della responsabilità; una limitazione della responsabilità non più appannaggio solo di alcuni enti, anzitutto delle società di capitali, ma alla portata di tutti i soggetti di diritto a cominciare dalle persone fisiche, dunque ormai generalizzata». 
[21] 
L. Romualdi, La sostenibilità e la crisi dell’impresa: quale ruolo per gli amministratori? in Banca Borsa Titoli di credito, 2024, 932; F. Cesare, Le novità del Codice della crisi in materia di sovraindebitamento, in Jus Crisi d’impresa, ottobre 2022. 
[22] 
Per App. Brescia, 4 ottobre 2023, in Dirittodellacrisi.it, “La condizione di sovraindebitamento necessaria per l’avvio della liquidazione controllata su istanza del debitore stesso si identifica con l’incapacità attuale o prospettica di provvedere all’estinzione dei debiti esistenti, anche a prescindere dalla configurazione di una condizione di radicale e irreversibile impotenza finanziaria”. F. De Santis, Il giudizio per l’accesso …. cit. 438. 
[23] 
M. Fabiani, Il ruolo delle parti e dei professionisti nel film della crisi d’impresa, in Dirittodellacrisi.it, ottobre 2025. 
[24] 
Trib. Milano, 1 giugno 2023, in Dirittodellacrisi.it, Conf. F. De Santis, Il giudizio per l’accesso …. cit. 439; G. Covino-L. Jeantet-I. Gobbo, Legittimazione del creditore a proporre …. cit. 
[25] 
L’iniziativa del P.M. è stata, tuttavia mantenuta nel caso di revoca conseguente ad atti di frode o ad inadempimento di una procedura di regolazione della crisi da sovraindebitamento (ristrutturazione dei debiti del consumatore o concordato minore) allorquando, appunto, anche il P.M. può chiedere la conversione nella procedura di liquidazione controllata (artt. 73 e 83). 
[26] 
Per effetto del richiamo contenuto nell’art. 270, comma 5, alle disposizioni contenute nel titolo III, sezioni II e III, trova applicazione nella liquidazione controllata anche la norma di cui all’art. 42, relativa alle informazioni che vanno assunte dalla Cancelleria a completamento della istruttoria e dei relativi atti. In tal senso, A. Ghedini, La liquidazione controllata, in Dirittodellacrisi.it, aprile 2024. 
[27] 
Cass., 31 luglio 2017, n. 18997 in Unijuris.it. 
[28] 
F. De Santis, Il giudizio per l’accesso …. cit., 438, nota 27. 
[29] 
F. De Santis, Il giudizio per l’accesso …. cit. 438, che richiama Cass. Civ. 21 luglio 2010, n. 17116, in Il Fall., 2011, 448, con nota di P. Vella. 
[30] 
In tal senso, a mio avviso correttamente, Trib. Ferrara 5 novembre 2024 (in Procedure concorsuali e crisi d’impresa 2025, con nota di R. Ranucci, Liquidazione controllata ed esdebitazione dell’incapiente: due istituti alternativi), per il quale “È doveroso interpretare la norma di cui all'art. 283 CCII in senso complessivo e avendo riguardo al sistema unitario degli istituti del sovraindebitamento, non fermandosi al dato puramente letterale disegnato dal secondo comma, valorizzando la definizione che il primo comma dà dell'incapiente e il sistema della alternatività fra i due istituti in commento: con il risultato che dovrà essere di volta in volta il giudice, previa identificazione della somma necessaria al mantenimento del debitore e della sua famiglia avendo riguardo alle necessità specifiche ed al costo della vita del luogo di residenza, a valutare se il debitore sia in grado di offrire qualche utilità ai propri creditori, tenuto conto delle spese e della durata della procedura liquidatoria di riferimento, ovvero della liquidazione controllata: con ciò rispettando il parametro di uguaglianza sostanziale che impone al giudice di non fermarsi alla eguaglianza formale ma di trattare in maniera diversa situazioni diverse”. Per Trib. Bergamo. 9 aprile 2025, in Dirittodellacrisi.it, “la presenza di garanzie del credito non osta alla concessione del beneficio dell’esdebitazione poiché, ai sensi dell’art. 278, comma 6, CCII), la stessa non si estende nei confronti dei diritti vantati dai creditori verso i coobbligati e fideiussori del debitore, nonché gli obbligati in via di regresso”; per Trib. Bologna 28 gennaio 2024, ivi, “Deve considerarsi incapiente, ai sensi dell’art. 283, comma 1, CCII, la persona fisica che possiede un bene mobile registrato, di valore limitato ed essenziale per il proprio spostamento verso il luogo di lavoro e per le necessità di vita”; ecc. 
In ogni caso, a tacere di altre considerazioni, proprio la previsione che la liquidazione controllata su iniziativa del debitore persona fisica è subordinata alla possibilità di acquisire attivo da distribuire ai creditori evidenzia la differenza con l’esdebitazione del sovraindebitamento incolpevole, pensata quale mero strumento per l'esdebitazione senza alcun beneficio per i creditori. 
[31] 
L’espresso e ripetuto richiamo nel terzo comma dell’art. 268 al debitore persona fisica comporta che la norma non trovi applicazione per le persone giuridiche, proprio a causa del collegamento creato con l’istituto della esdebitazione dell’incapiente, riservato appunto alle sole persone fisiche prive di beni o crediti futuri da destinare al pagamento delle spese di procedura ed al soddisfacimento, pur parziale, dei creditori. 
[32] 
Nella precedente versione del codice della crisi, nel prevedere l’innovativa legittimazione dei creditori, si disponeva che costoro avevano la facoltà di depositare un'istanza di liquidazione del patrimonio solamente nel caso in cui fossero in essere procedure esecutive individuali.
[33] 
F. De Santis, Il giudizio per l’accesso …. cit. 438. 
[34] 
F. Cesare, Liquidazione controllata del sovraindebitato (L. fall.), in IUS Crisi d'impresa (ius.giuffrefl.it) – Ilfallimentarista.it, 22 maggio 2020. 
[35] 
Trib. Monza, 4 gennaio 2023 in Ilcaso.it
[36] 
Trib. Gela, 7 aprile 2025 in Dirittodellacrisi.it, ottobre 2025; Trib. Padova 9 luglio 2024 in Ilcaso.it; Trib. Brescia 9 febbraio 2024; Trib. Verona 30 giugno 2024 in Ilcaso.it
[37] 
Argomentazioni sviluppate nella decisione del Trib. Verona, 30 giugno 2024, cit
[38] 
Se, invero, la modifica attiene alla constatazione che il debitore versa in stato di crisi e non di insolvenza verrebbe meno la legittimazione dl creditore, per cui la modifica anche in tal caso può riguardare o la presa d’atto che l’impresa ritenuta minore superi le soglie, o che l’impresa ritenuta agricola svolga attività commerciale o che il debitore civile, ad esempio, il professionista abbia organizzato l’attività come impresa sopra soglia.
[39] 
Le pur interessanti riflessioni di C. Carbone, La liquidazione controllata: una procedura opportuna, su cui è necessario (ancora) intervenire, in Dirittodellacrisi.it, gennaio 2025, per sostenere che il consumatore è il solo legittimato a chiedere l’apertura della liquidazione controllata, nel mentre l’imprenditore minore è soggetto anche all’azione del creditore, si scontrano, a mio avviso, con la dizione legislativa che, per i motivi spiegati in precedenza, utilizza giustamente il termine di sovraindebitamento nel primo comma, comprensivo della situazione di crisi e di insolvenza in cui possono trovarsi i vari soggetti elencati nell’art. 2, comma 1, lett. c), e di insolvenza nel secondo comma, per evidenziare che solo questa condizione giustifica la domanda del creditore, seppur è probabile e comprensibile che la domanda in proprio provenga prevalentemente da un consumatore o professionista e quella formulata da un creditore sia rivolta verso una impresa minore o agricola, alle quali meglio si attaglia il concetto di insolvenza. 
[40] 
A. Napolitano, Alcune questioni in tema di liquidazione controllata della persona fisica sovraindebitata e di esdebitazione dell’incapiente, in Procedure concorsuali e crisi d’impresa 2025, 680, in nota a App. Torino 27 agosto 2024, il quale giustamente evidenzia come questo principio, ora codificato chiaramente, già si poteva dedurre dalla pregressa disciplina antecedente all’ultimo correttivo attraverso una convincente ricostruzione, cui si rinvia per approfondimento. Per Trib. Treviso, 7 agosto 2025, in Dirittodellacrisi.it, settembre 2025, “la promessa, da parte di un terzo, di una somma di denaro a titolo di ‘finanza esterna, in vista dell’apertura della liquidazione controllata, non può essere valutata come incremento del patrimonio del sovraindebitato, sicché la procedura non può essere aperta, per mancanza di un patrimonio responsabile, quando il debitore persona fisica prospetti quale attivo soltanto la somma oggetto della promessa in questione. Solo nel caso- spiega il Tribunale- vi sia un apporto liberale fornito dal terzo al sovraindebitato prima dell’accesso alla procedura, con conseguente incremento del patrimonio di quest’ultimo, la finanza esterna si trasformerebbe, arricchendolo, in (parte del) patrimonio responsabile; “l’unico rispetto al quale i creditori vantano le loro pretese, e l’unico che secondo la logica giuridica della liquidazione controllata rileva per la necessaria individuazione dell’attivo distribuibile quale condizione di apertura della procedura”.
[41] 
Cass., 31 luglio 2025, n. 22074 in Dirittodellacrisi.it.
[42] 
Né deve stupire questa differente regolamentazione perché il legislatore ha dato particolare rilevanza al carattere personale e individuale della procedura minore, concentrando la sua attenzione, come già rilevato, sul coinvolgimento in questa dei professionisti e consumatori. 
[43] 
R. Brogi, Le modifiche del d.lgs. n. 136/2024 … cit.; F. De Santis, Il giudizio per l’accesso…, cit. 437.
[44] 
Tale norma infatti dispone: a- che l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza è deciso, in via esclusiva, dagli amministratori o dai liquidatori, unitamente al contenuto della proposta e alle condizioni del piano; b- che la decisione deve risultare da verbale redatto da notaio e deve essere depositata ed iscritta nel registro delle imprese; c- che la domanda di accesso è sottoscritta da coloro che hanno la rappresentanza della società. 
[45] 
R. d’Alonzo – F. De Santis, Il c.d. procedimento unitario per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, in Dirittodellacrisi.it, ottobre 2022. 
[46] 
Secondo cui “nel procedimento di liquidazione giudiziale il debitore può stare in giudizio personalmente” che potrebbe anche essere riferita alla sola ipotesi della difesa personale del debitore nei cui confronti è stata richiesta l’apertura della liquidazione giudiziale. Pacifico essendo che, a seguito della eliminazione del fallimento d’ufficio, non è più compatibile l'equivalenza del ricorso del debitore alla semplice denuncia-segnalazione e che l'accertamento in sede prefallimentare si fonda sulla sussistenza dei presupposti richiesti per l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale, è chiaro che il debitore è titolare di un vero e proprio diritto di azione, espressione dell’esercizio di un potere di azione a contenuto meramente processuale, privo di un diritto sostanziale, unico residuato dopo l’abolizione del fallimento d’ufficio. Invero, seppur la domanda di autoliquidazione giudiziale non richieda l’espletamento di quelle incombenze tecniche di richiesta copie, di notifica, ecc. cui è tenuto il creditore istante e non instauri un contraddittorio come nel caso in cui la domanda sia presentata da questi, pur tuttavia la configurazione della domanda di autoliquidazione giudiziale come esercizio di azione, soggetta all’onere della prova- che si estende anche alla dimostrazione del superamento della soglia di indebitamento - finalizzata all’ottenimento di un provvedimento che incide sullo status della persona, inducono a ritenere che alla fattispecie sia applicabile la regola generale posta dall’art. 82, comma 3, c.p.c.; norma ripresa dal comma 2 dell’art. 9 CCII, per il quale, ”Salvi i casi in cui non sia previsto altrimenti, nelle procedure disciplinate dal presente codice, il patrocinio del difensore è obbligatorio”. Per la richiesta di apertura della liquidazione giudiziale non è prevista alcuna norma in eccezione (anzi l’art. 40, comma 2, richiede che il ricorso, senza precisare se quello presentato da un creditore o dal debitore, sia sottoscritto da un difensore munito di procura) a detto principio, a differenza di quanto indicato dall’art. 269, comma 1, per cui, a mio avviso, è da preferire la tesi che richiede l’assistenza tecnica del difensore anche per il ricorso in autoliquidazione giudiziale con la conseguente inammissibilità della domanda presentata personalmente dalla parte. Cfr. R. d’Alonzo - F. De Santis, Il c.d. procedimento unitario … cit. . È pacifico invece che il creditore che presenta una domanda di apertura di liquidazione giudiziale debba essere assistito da un legale con procura (cfr, art. 40, comma 2).
[47] 
All’epoca vi era contrasto nella giurisprudenza di merito tra chi sosteneva non necessaria l'assistenza di un legale, seppur non preclusa, rappresentando l'istituzione dell'OCC un'evoluzione rispetto al rapporto professionale avvocato-cliente idoneo a garantire la piena tutela del diritto di difesa di cui è espressione l'art. 82 c.p.c. (Trib. Roma, 23 dicembre 2021, in Ilcaso.it; Trib. Torino, 7 dicembre 2019, ivi), e chi, invece, aveva statuito l'inammissibilità della domanda di omologa per assenza di difesa tecnica, osservando che "non sussistono ragioni per derogare alla previsione generale dell'art.82 terzo comma c.p.c., che stabilisce che davanti al Tribunale le parti stanno in giudizio a ministero di un difensore, salvo che la legge disponga altrimenti" (Trib. Mantova, 12 luglio 2018, in Ilcaso.it); la legge n. 3/2012, per ciascuna delle procedure concorsuali ivi previste, rinvia espressamente agli artt. 737 ss. c.p.c. per quanto riguarda gli aspetti processuali”; talché- spiega Trib. Massa, 28 gennaio 2016, in Ilcaso.it;- il procedimento da seguire (tanto in primo grado quanto in grado di reclamo) è il procedimento in camera di consiglio che deve essere introdotto mediante ricorso depositato dalla parte (non personalmente ma) per mezzo di un difensore tecnico, vigendo obbligo di difesa e di rappresentanza tecnica in tale tipologia di procedimento “. Per non parlare delle posizioni intermedie prospettate da Trib. Vicenza, 29 aprile 2014, in Ilcaso.it e Trib. Teramo, 1 ottobre 2018, ivi
[48] 
È stato anche precisato, (Trib. Verona, 25 luglio 2025 in Dirittodellacrisi.it) che “Il debitore deve essere informato dall’OCC, dal gestore della crisi e dal professionista della facoltatività dell’assistenza di un legale ai fini della presentazione del ricorso per la liquidazione controllata. La mancata informazione configura sia una violazione dei doveri primari di assistenza ed informazione gravanti sull’OCC e sul gestore della crisi sia dell’obbligo di informazione preventiva gravante sul legale prima dell’assunzione dell’incarico. L’OCC, inoltre, non può indicare al debitore il nominativo dell’avvocato cui conferire il mandato”. 
[49] 
Cass., 3 luglio 2025, n. 18118, in Dirittodellacrisi.it; Conf. Trib. Santa Maria Capua Vetere, 7 settembre 2023 in Dirittodellacrisi.it
[50] 
Trib. Bologna, 27 settembre 2022, in Ilcaso.it,, per il quale, pur potendo il ricorso per l’apertura della liquidazione controllata essere presentato dal debitore senza l’assistenza obbligatoria di un difensore munito di mandato alle liti, lo stesso non può provenire unicamente dall’OCC, il quale ha solo il compito di assistere il debitore, assistenza che si concretizza, nel caso di domanda presentata personalmente, nella necessità di presentare telematicamente il ricorso, unitamente alla propria relazione ed agli allegati. 
[51] 
Così, A. Ghedini, La liquidazione controllata, in Dirittodellacrisi.it, aprile 2024. Precisa F. De Santis, Il giudizio per l’accesso …. cit. 439, che, quindi “il ricorso è sottoscritto dal debitore, e che può essere, eventualmente, sottoscritto anche dall’OCC, specie nei casi in cui l’assistenza prestata da quest’ultimo sia stata particolarmente intensa”. 
[52] 
Con la stessa relazione, o con altra, da allegare alla domanda, l’’OCC e per esso sempre il gestore, esprime una valutazione sulla completezza ed attendibilità della documentazione depositata a corredo della domanda, una illustrazione della situazione economico patrimoniale e finanziaria del debitore e l’indicazione delle cause dell’indebitamento e della diligenza impiegata dal debitore nell’assumere le obbligazioni (art. 269, comma 2).
Inoltre il comma 3 dell’art. 269 attribuisce all’OCC l’obbligo di comunicare al competente agente della riscossione e agli uffici fiscali il conferimento dell’incarico ricevuto al presumibile scopo di mettere in condizione detti uffici di predisporre la documentazione necessaria a documentare la situazione creditoria verso il sovraindebitato ( M. Montanari, Commento art. 268, in Commentario breve alle leggi su crisi d’impresa e insolvenza, a cura di A. Maffei Alberti e M. Speranzin, Milano 2025, 2022. 
[53] 
Per una critica alla unicità del compenso, cfr. G. Bettazzi, La liquidazione controllata (e l’esdebitazione che ne consegue) nella bozza di correttivo, in Dirittodellacrisi.it, giugno 2024). 
[54] 
La pregressa esenzione da procedure concorsuali dei soggetti non fallibili era giustificata dalla sproporzione dei costi che questa richiedeva rispetto ai ridotti interessi coinvolti ed alla consistenza economica delle capacità patrimoniali del debitore, consumatore o imprenditore minore (G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, III, Torino, 2024, 393; R. Ranucci, Liquidazione controllata ed esdebitazione dell’incapiente: due istituti alternativi, in Procedure concorsuali e crisi d’impresa, 2025, 819); non mi sembra che oggi, con il sistema indicato di liquidazione del o dei compensi, si sia realizzato il fine di economicizzare la procedura in esame. 
[55] 
A. Ghedini, La liquidazione controllata, cit, che giustamente fa leva sia sulla natura eccezionale dell’art. 6 rispetto al principio della par condicio che rende inapplicabile la norma per analogia. Conf., Trib. Forlì, 18 giugno 2024 in Unijuris.it, per il quale mentre Il compenso del soggetto che ha assistito il debitore nella presentazione della domanda di liquidazione controllata costituisce spesa prededucibile, quello spettante al difensore del debitore per l'assistenza nella presentazione del ricorso volto all'ammissione alla liquidazione controllata non può essere considerato quale spesa in prededuzione, non essendo tale voce prevista dall'art. 6 CCII e non risultando peraltro necessaria l'assistenza tecnica per presentare la domanda di apertura di quella procedura, con la conseguenza che il credito professionale del legale dovrà essere oggetto di insinuazione al passivo ed ammesso in base al privilegio ex art. 2751 bis, n. 2, c.c., ove richiesto”. 
[56] 
App. Trento, 16 luglio 2025 in Juscrisid’impresa, settembre 2025 che precisa che “Il quadro normativo vigente configura, dunque, la regola generale dell’assoggettabilità degli imprenditori commerciali alla procedura di liquidazione giudiziale, mentre la non assoggettabilità costituisce un’eccezione, subordinata alla rigorosa dimostrazione, da parte del debitore, del mancato superamento delle soglie dimensionali stabilite dalla legge”. 
[57] 
Di modo che, come è stato da altri sottolineato (A. Ghedini, La liquidazione controllata, in Dirittodellacrisi.it, aprile 2024), nell’ipotesi in cui il debitore non sia un imprenditore, “il criterio della compatibilità consente ed impone di circoscrivere la documentazione da depositare, a: 1) dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni; 2) inventario dei beni del ricorrente (dovendosi intendere in questi termini lo stato delle attività, anche ai fini dell’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 270, comma 2, lett. e) della successiva redazione dell’atto previsto dall’art. 272, comma 2, CCII); 3) elenco nominativo dei creditori, con la specificazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione, oltre che dei terzi titolari di diritti sui beni del debitore, con indicazione, in entrambi i casi, del rispettivo domicilio digitale; 4) elenco degli atti dispositivi compiuti nei cinque anni antecedenti (dovendosi intendere in questi termini il riferimento agli atti di straordinaria amministrazione contenuto nell’art. 39, comma 2, CCII, anche in funzione delle scelte del liquidatore da compiere ai sensi dell’art. 274, comma 2, CCII); 5) lo stato di famiglia e l’elenco delle spese necessarie per il mantenimento del debitore e della sua famiglia (ai fini della tempestiva adozione del provvedimento previsto dall’art. 268, comma 4, lett. b), CCII) come plasticamente evidenziato in Trib. Verona, 20 settembre 2022”. 
[58] 
Più o meno in tal senso F. Cesare e M. De Cesare, voce Liquidazione controllatain Crisi d’impresa e procedure concorsuali, Trattato diretto da O. Cagnasso e L. Panzani, vol. II, Torino, 2025, 1729/1730. 
[59] 
In tal senso F. De Santis, Il giudizio per l’accesso …. cit. 440. 
[60] 
Il comma 3 dell’art. 27 stabilisce che il COMI normalmente coincide per le società e le persone giuridiche con la sede legale, salvo prova contraria; per le persone fisiche esercenti attività di impresa con la sede legale risultante dal registro delle imprese e, in mancanza, con la sede effettiva dell’attività abituale e per le persone fisiche non esercenti attività d’impresa, con la residenza o il domicilio e, se questi sono sconosciuti, con l’ultima dimora nota o, in mancanza, con il luogo di nascita. Questa disposizione, essendo esplicativa del principio affermato nel comma 2, espressamente richiamato, deve intendersi anch’essa compresa nel richiamo di cui al comma 1 dell’art. 268. 
[61] 
F. De Santis, Il giudizio per l’accesso …. cit. 436. 
[62] 
Il caso più comune è che il creditore chieda l’apertura della liquidazione giudiziale e il debitore sostenga che non ne ricorrono i requisiti per essere una impresa agricola, un’impresa sotto soglia, un debitore civile, ecc.; e tra questi, quello più ricorrente ha riguardato l’impresa agricola, su cui la giurisprudenza ha avuto modo di esercitarsi già nel vigore della legge fallimentare essendo questo tipo di impresa sottratta al fallimento, statuendo che chi sollecita la dichiarazione di fallimento di un imprenditore qualificato come agricolo deve allegare e dimostrare, quale fatto costitutivo, l'esistenza di un'attività commerciale che si affianchi eventualmente all'attività agricola (a soddisfazione del presupposto richiesto dall'art. 1, comma 1, L. fall.), grava invece su chi invochi l'esenzione dal fallimento, assumendo la riconducibilità delle attività commerciali svolte nell'ambito dell'art. 2135, comma 3, c.c., il corrispondente onere probatorio di tale fatto impeditivo sicché, in assenza di prova di tale causa esimente, soccombe il soggetto che appaia rientrare, secondo i dati acquisiti nell'istruttoria prefallimentare, nel novero degli imprenditori commerciali (Cass., 28 novembre 2023, n.32977 in Diritto dellacrisi.it; Cass., 4 aprile 2023, n. 9308; Cass., 7 febbraio 2023, n. 3647 in Dirittodellacrisi.it; Cass., 24 gennaio 2023, n. 2153; Cass., 22 marzo 2022, n.9353; Cass., 21 gennaio 2021, n.1049, in Unijuris.it; ecc.). 
[63] 
La domanda di accesso a tali procedure va presentata nel giudizio instaurato dal creditore avanti al tribunale che decide in composizione collegiale, nel mentre competente a decidere sulle domande di ristrutturazione dei debiti del consumatore e sul concordato minore è il tribunale in composizione monocratica, il che, come è stato evidenziato (F. Cesare e M. De Cesare, voce Liquidazione controllata le domande.., cit. 1733) comporta incertezze circa il regime delle impugnazioni. La soluzione proposta di applicare il sistema deducibile dagli artt. 50-55 in tema di impugnazione nel procedimento unitario con reclamo in Corte d’appello è condivisibile rientrando questo complesso di norme tra quelle di cui alla sezione II del capo IV del titolo III, richiamata dal comma 5 dell’art. 271. 
[64] 
Da Trib. Parma, 4 luglio 2024 in Ilcaso.it, e ripresa da F. De Santis, Il giudizio per l’accesso …. cit. 443, nonché da F. Cesare e M. De Cesare, voce Liquidazione controllata…, cit.,1733. 
[65] 
Cessazione che comprende anche la revoca dell’omologazione del piano di ristrutturazione dei debiti (art. 73), o della sentenza di omologazione del concordato minore (art. 83).
[66] 
Per la verità, non è del tutto chiaro il ruolo di detti esperti, o meglio, è chiaro che lo scopo della nomina è quello di affiancare al curatore un professionista che si occupi di alcune fasi o subprocedimenti (che non siano riservati strettamente al curatore - cfr. art. 127, comma 1) della procedura, ad esempio della liquidazione di determinati beni fin dalla fase iniziale della procedura o dell’esercizio provvisorio dell’impresa, consentendo al curatore, come si legge nella Relazione, di concentrarsi sull’attività di analisi dei crediti in vista della redazione del progetto di stato passivo, ove particolarmente complesso; quello che è difficile capire è perché si sia prevista una tale figura in un sistema che, per un verso, già consente la nomina a curatore di studi professionali associati o società tra professionisti e, comunque, non esclude che si ricorra alla nomina di più curatori (almeno secondo la prassi degli ultimi anni, su cui il CCII non ha preso posizione) e, per altro verso, conosce già le figure dei delegati e dei coadiutori. 
[67] 
In caso di domanda presentata da un creditore, infatti, il sovraindebitato non ha già contattato un OCC né si è servito dell’opera di un gestore. 
[68] 
Che individua specifiche ipotesi di incompatibilità per la nomina del curatore, principalmente legate a rapporti personali con i magistrati che conferiscono l’incarico. 
[69] 
Il legislatore delegato non ha dato attuazione all’art. 7, comma 2, della legge delega che prevedeva venissero emanate disposizioni per rendere più efficace la funzione di curatore ed, in particolare, che fosse integrata la disciplina sulle incompatibilità tra gli incarichi assunti nella successione di procedure, per cui è sopravvissuta la prassi che ricorre alla conferma del commissario del concordato cessato quale curatore della conseguente liquidazione giudiziale. 
[70] 
Per i gestori la disciplina per l’iscrizione e l’aggiornamento è quella di cui all’art. 5 del D.M. 24 settembre 2014, n. 202 e, sebbene il D.Lgs n. 136/2024, nel riscrivere l’art. 356, abbia avvicinato di molto le relative regole a quelle riguardati i curatori, permangono talune differenze. Per i curatori il comma secondo dell’art. 356 prevede che possono ottenere l’iscrizione i soggetti che abbiano assolto gli obblighi di formazione di cui all’art. 4, comma 5, lett. b), c) e d) del citato D.M. n. 202 del 2014. Per gli avvocati, i dottori commercialisti, gli esperti contabili ed i consulenti del lavoro, non si applicano le lettere c) e d) e la durata dei corsi di cui alla lettera b), del medesimo decreto è di 40 ore. Per il mantenimento dell’iscrizione è inoltre previsto un aggiornamento biennale, che per gli avvocati, i dottori commercialisti e i consulenti del lavoro è di 18 ore (in luogo dei 40 previsti dalla lett. d) del comma 5). Anche per coloro che intendono svolgere le funzioni di gestori delle crisi da sovraindebitamento è necessario assolvere alla formazione di cui al medesimo art. 4, comma 5, lett. b), c) e d) del D.M. 202/2014 ed anche in questo caso, per gli avvocati, i dottori commercialisti e gli esperti contabili la durata dei corsi è fissata in 40 ore ed è previsto (come fa l’art. 356 CCII) l’esonero dall’applicazione della lettera c). Non è invece previsto l’esonero dall’applicazione della lettera d), con la conseguenza che per il mantenimento dell’iscrizione il corso biennale deve essere di 40 ore. Infine, solo i programmi dei corsi per la formazione e l’aggiornamento degli iscritti nell’elenco di cui all’art. 356 CCII devono essere conformi alle linee guida elaborate dalla Scuola superiore della magistratura.
[71] 
Del che non c’è da stupirsi se si considera, come si vedrà, che neanche nella fase di approvazione del conto gestione è prevista una interlocuzione con i creditori, per cui gli unici momenti in cui i creditori sono coinvolti è quello della formazione dello stato passivo, ove costoro possono formulare osservazioni al progetto loro inviato e quello dell'approvazione del piano di riparto, da comunicare al debitore e ai creditori. 
[72] 
Questa norma tratta della determinazione del reddito di impresa nei casi di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa prevedendo, tra l’altro, che nel periodo compreso tra l’inizio e la chiusura del procedimento concorsuale, quale che sia la durata, il reddito di impresa è determinato per differenza tra il residuo attivo a fine procedura e il patrimonio netto all’inizio del procedimento determinato a valori fiscalmente rilevanti. 
[73] 
La L. 9 agosto 2023, n. 111 recante "Delega al Governo per la riforma fiscale", che prevede all'art. 9, comma 1, n. 2 una tendenziale omogeneizzazione delle procedure concorsuali (che vengono divise solo tra liquidatorie e non liquidatorie) ad oggi non è stata ancora attuata. 
[74] 
Questo spiega l’inserimento della disposizione richiamata nel contesto del comma 3 dell’art. 274 quale seguito dell’autorizzazione ad esercitare o proseguire azioni giudiziarie, ma è chiaro che la norma non è limitata alla revoca e liquidazione del compenso ai difensori, ma riguarda qualsiasi incarico conferito dal liquidatore. 
[75] 
Cass. 17 febbraio 2020, n.3871, in Unijuris.it; Cass. 8 gennaio 2019, n.193; Cass. 9 maggio 2011, n. 10143. 
[76] 
A meno che non si ritenga che la norma ricordata di cui all’art. 216 valga per il solo stimatore, quale logico sviluppo che a questi viene chiesta non solo la determinazione del valore dei beni, ma, gli vengono demandate anche le tante altre incombenze descritte nel comma 1 dell’art. 216, che fanno capire che la relazione di stima è diventata non solo lo strumento di determinazione del prezzo di vendita del bene, ma, principalmente, il documento informativo delle caratteristiche del bene da liquidare, integrativo dell’avviso di vendita che su essa si fonda, dato che anche tale relazione viene resa pubblica. 
[77] 
Si è detto (M. Montanari, Commento… cit., 2026) che tale disposizione è destinata a venire in rilievo, fondamentalmente, soltanto nelle ipotesi in cui la procedura sia stata aperta su istanza di un creditore, alla luce del già previsto obbligo di deposito di tali documenti gravante sul debitore istante, ai sensi dell’art. 39, ma la norma di cui all’art. 270 non sembra porre detta limitazione avendo ad oggetto la sentenza che apre la procedura di liquidazione controllata senza distinguere tra chi ha chiesto l’accesso ed ha, quindi, anche lo scopo di integrare la precedente previsione per il caso che la documentazione richiesta al debitore istante non sia stata presentata o non sia completa e, ciò nonostante. la procedura sia stata aperta. 
[78] 
È stata così colmata una lacuna del codice nella sua versione originaria che non aveva ripreso l’art. 15, comma 10 L. n. 3/ 2012 né prevedeva altra previsione di indagine. Sull’applicazione della vecchia normativa, cfr. Trib. Rimini, 18 aprile 2023, in Il Fall., 2023, 1566, con nota di F. Angiolini, Sovraindebitamento ed accesso alle banche dati: la reviviscenza dell’art. 15, L. n. 3/2012 nel diritto vivente
[79] 
M. Montanari, Commento art. 268, cit. 
[80] 
Secondo M. Montanari, Commento art. 268, cit., dal contesto normativo indicato dovrebbe derivare la disciplina seguente: a) lo stipendio del debitore, nei limiti di quanto occorre al mantenimento suo e della sua famiglia, è sempre e ineludibilmente escluso dalla parte di attivo che può essere destinata ai fini della liquidazione controllata; b) laddove la differenza tra lo stipendio del debitore e l’importo occorrente al mantenimento sia inferiore al quinto dello stipendio - pignorabile ex art. 545 c.p.c. -, non potrà essere devoluto alla liquidazione l’intero quinto dello stipendio, ma solo la differenza predetta; c) allorché, viceversa, tale differenza sia superiore al quinto, essa non potrà essere interamente devoluta alla procedura, bensì esclusivamente entro il limite del predetto quinto - ovvero delle altre soglie previste all’art. 545 c.p.c. -, che, dunque, assumerà carattere speciale rispetto al limite introdotto dalla suddetta lett. b) (così Trib. Reggio Emilia, 14 maggio 2019, Trib. Verona, 12 gennaio 2023, cit.; in senso radicalmente opposto, Trib. Milano, 10 aprile 2019, in Giustiziacivile.com). 
[81] 
Trib. Piacenza, 28 luglio 2025, in Dirittodellacrisi.it, settembre 2025. 
[82] 
Autorizzazione che può riguardare la permanenza nella casa di abitazione, fino a quando non sia realizzata la vendita della stessa, ovvero a continuare ad utilizzare l’autovettura o altri beni semplicemente strumentali utilizzati per la continuazione dell’attività professionale. 
[83] 
Cfr. Trib. Brescia, 22 marzo 2024, in Il fall., 2024, 259, con nota di F. Canazza, Effetti dell’apertura della liquidazione controllata (e della liquidazione controllata del sovraindebitato) sulle liti pendenti. 
[84] 
Cass., 19 agosto 2024, n. 22914, cit
[85] 
Cfr. L. Baccaglini- L. Calcagno, Le misure protettive e cautelari nel CCII, in Dirittodellacrisi.it, ottobre 2022. 
[86] 
In tal senso, F. De Santis, Il giudizio per l’accesso …. cit., 442. 
[87] 
In tal senso, Trib. Bologna, 14 giugno 2023, in Ilcaso.it; L. Panzani, Le liquidazioni e le vendite nel codice della crisi: caratteristiche e ragionevole durata delle procedure, in Fallimento 2023, 1135. 
[88] 
Espressione tratta da A. Pezzano- M. Ratti, L’esercizio dell’impresa … cit., in Fallimento 2024, 309, i quali, tuttavia, fanno leva principalmente “sulla consustanziale omogeneità e affinità che intercorre tra la procedura incardinata e quella della liquidazione giudiziale”. 
[89] 
Cfr. M. Fabiani, op. cit. 
[90] 
G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino 2024, 273. 
[91] 
M. Montanari, Commento sub art. 270… cit. 2031. 
[92] 
Il riferimento è all’art. 191, col quale il legislatore si è preoccupato di richiamare le norme che regolano il rapporto di lavoro nel caso di trasferimento di azienda disposto (tra l’altro) sia della liquidazione giudiziale che di quella controllata. 
[93] 
Criterio che si adegua anche alla possibilità che venga disposto l’esercizio provvisorio (possibile come detto nel precedente paragrafo anche nella liquidazione controllata) giacchè la disposizione del comma 8 dell’art. 211, (per la quale “durante l’esercizio i contratti pendenti proseguono, salvo che il curatore non intenda sospenderne l’esecuzione o scioglierli”) rimette la sorte dei contratti pendenti alle scelte del curatore, dato che questi, pur nella previsione della continuazione di diritto del rapporto, può sempre sciogliersi o sospenderne l’esecuzione.
[94] 
Peraltro l’unica regola della sospensione operante nella liquidazione controllata corre il rischio di trovare scarsa applicazione anche con riferimento al consumatore o al professionista per la difficoltà a scindere l’utilizzo ad uso personale dei beni da quello non strettamente personale. Ad esempio, il contratto di locazione dell’immobile adibito ad abitazione di un imprenditore assoggettato a liquidazione controllata (o anche giudiziale) rimane estraneo alla procedura, nel mentre questa attrae i rapporti relativi all’impresa assoggettata alla liquidazione controllata e solo per questi ultimi troverà applicazione la disposizione in esame. Lo stesso criterio dovrebbe valere anche per il consumatore e il professionista, ma costoro normalmente non dispongono di beni né sono titolari di rapporti estranei alla loro sfera personale, ai quali applicare la norma di cui al comma 6 dell’art. 270.
[95] 
Relaz. al D.Lgs n. 136 del 2024. 
[96] 
Questo, nell’ultima parte riproduceva la dizione dell’art. 208 per le domande manifestamente inammissibili con un anomalo intervento del giudice, estraneo al procedimento di verifica, che dichiarava con decreto, fuori udienza, la inammissibilità. 
[97] 
L’espressione violazione di legge nell’interpretazione dell’art. 36 L. fall. è stata considerata “assai precisa e più limitata di quella pure presa a campione dal diritto amministrativo laddove la violazione di legge, unitamente alla incompetenza e all’eccesso di potere, rappresenta uno dei tre profili del vizio di legittimità dell’atto” Cfr. Codice commentato del fallimento, a cura di G. Lo Cascio, Milano 2008, Commento art. 36, ed ivi ampi riferimenti.
[98] 
In tal senso, M. Montanari, Commento sub art. 273… cit., 2040. 
[99] 
Irrilevante per una diversa soluzione è la disposizione dell’ultima parte dell’art. 273, comma 4, che, discostandosi dal modello delineato dall’art. 133 espressamente richiamato, prevede avverso il decreto del giudice delegato il ricorso in cassazione, considerando la decisione del giudice delegato alla stregua di quella del tribunale che decide sulle impugnazioni dello stato passivo, in quanto il legislatore ha inteso attribuire alle parti, piuttosto che il reclamo ex art. 124 al collegio- che decide con decreto motivato impugnabile con ricorso straordinario in cassazione ex art. 111 Cost., come prevede l’art. 133- la possibilità di ricorrere direttamente in cassazione trattandosi di un provvedimento non definitivo del giudice che statuisce in funzione decisoria su diritti soggettivi non già quale organo deputato alla decisione sul credito, bensì quale giudice del reclamo avverso il provvedimento del liquidatore, per cui egli non assume in proprio la responsabilità del provvedimento impugnato.
[100] 
Tanto supera la considerazione di Brogi, Le modifiche del d.lgs. n. 136/2024, cit., 142, secondo cui il ricorso alla revocazione “sembra inevitabile se si ritiene che l’esecutività cui fa riferimento l’art. 273, comma 3, CCII quale effetto del deposito dello stato passivo nel fascicolo informatico, ne precluda la modificazione anche al liquidatore”. Pur dando per scontato che il liquidatore non possa più intervenire sullo stato passivo una volta depositato e divenuto esecutivo (come del resto lo stesso giudice delegato che ha dichiarato esecutivo lo stato passivo nella liquidazione giudiziale), rimane il dato che anche per la revocazione dei provvedimenti di accoglimento o di rigetto dei crediti contenuti nello stato passivo formato dal liquidatore della liquidazione controllata l’art. 273, comma 4 richiama l’art. 133.
[101] 
Trib. Terni 17 luglio 2023, n. 16 in OneLegale di Wolters Kluwer. 
[102] 
M. Montanari, Commento sub art. 273 … cit., 2040. 
[103] 
In questa spiccava il ritorno alla definizione delle prededuzioni contenute nell’art. 111, comma 2, L. fall., che attribuisce tale qualifica oltre che ai crediti così qualificati da una specifica disposizione di legge, a quelli “sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge”, non più in linea con la definizione delle prededuzioni contemplata nell’art. 6 CCII, avente carattere generale ed applicabile quindi a tutte le procedure; opportuna, pertanto, l’abrogazione del comma 2 dell’art. 277 ad opera del terzo decreto correttivo.
[104] 
La ragione dell’assoggettamento alla verifica anche dei crediti prededucibili è ben spiegata dalla pregressa giurisprudenza della S. Corte con la corretta considerazione che la contrapposizione tra debiti di massa e debiti concorsuali è solo apparente perchè i primi sono, al pari di quelli contratti dal fallito prima dell'apertura della procedura concorsuale, debiti del fallito, il quale, anche se sono stati assunti dagli organi fallimentari a lui subentrati nell'amministrazione e nella disponibilità dei suoi beni, ne risponde con il suo patrimonio. E, se anche i crediti verso la massa trovano il loro soddisfacimento sul patrimonio del fallito, il loro accertamento, quando questa necessità sussiste, non può essere attuato che attraverso quel procedimento giurisdizionale preordinato all'individuazione dei diritti concorrenti sul patrimonio del debitore, posto che lo scopo finale del fallimento è quello della distribuzione del ricavato di detto patrimonio a tutti i creditori con i quali concorrono anche quelli di massa, sebbene la legge riconosca ad essi una posizione di preferenza assoluta nell'ordine dell'erogazione delle somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo. Giur. unanime, cfr, tra le tante, Cass. 7 settembre 2005, n.17839, in Il Fall. 2006, 475; Cass. 19 maggio 2005, n. 10599, Cass. 29 gennaio 2002, in Il Fall. 2003, 22; Cass. 17 gennaio 2001, n. 553 in Il Fall. 2001, 592; ecc.; principi facilmente riproducibile nelle attuali liquidazioni giudiziale e controllata. Altrimenti; si dovrebbe ipotizzare la soddisfazione dei creditori verso la massa, seppur contestati, fuori del concorso, ma una tale possibilità comporterebbe lo sconvolgimento dell'intero sistema perchè, l’assoggettamento alle comuni regole sull'inadempimento, verrebbe a configurare necessariamente la possibilità di una mora e, con essa, di un'azione esecutiva sui beni avocati al fallimento. Per evitare tanto il legislatore ha previsto in entrambe le procedure in esame (nell’art. 277 e nell’art. 150), il divieto anche per i creditori con causa o titolo posteriore al momento della pubblicità della sentenza (art. 277) o dal giorno della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale (art. 150) di procedere esecutivamente sui beni oggetto della liquidazione, per cui l’unico mezzo per soddisfarsi di questa categoria di creditori è la loro partecipazione al passivo secondo le regole dettate per ciascuna procedura, come è logico che sia dovendo essere presa una decisione sulle contestazioni sollevate.
[105] 
Per il resto l’art. 275 bis riproduce le modalità della distribuzione poste dall’art. 220 proponendo la regola della soddisfazione dei crediti prededucibili non contestati all’infuori del procedimento di riparto, se l’attivo è presumibilmente sufficiente a soddisfare tutti tali crediti (art. 275 bis, comma 3), mentre in caso di insufficienza di attivo la distribuzione deve avvenire secondo i criteri della graduazione e della proporzionalità, conformemente all’ordine assegnato dalla legge (art. 275 bis, comma 4).
[106] 
Alla posizione del coobbligato solidale va equiparata quella del fideiussore sia nel caso in cui non sia stato convenuto il beneficio della preventiva escussione in conformità della previsione di cui al comma 1 dell’art. 1944 c.c., sia nel caso contrario, perché, secondo la più diffusa opinione, non essendo i beni compresi nel patrimonio della liquidazione giudiziale del debitore principale assoggettabili ad esecuzione individuale, , non potrebbe il garante proporre validamente l'eccezione che gli consente il secondo comma dell'art. 1944 c.c. di indicare i beni del debitore principale da sottoporre all'esecuzione. Recentissima Cassazione (Cass. 16 settembre 2025, n. 25268 in Dirittodellacrisi.it), dopo aver riaffermato l’equiparazione della posizione del fideiussore solidale al coobbligato e quindi la possibilità per il creditore di soddisfarsi sul patrimonio del fideiussore fallito mediante insinuazione al passivo, ha sottolineato la differenza tra la fattispecie del fallimento del fideiussore e quella del fallimento del terzo datore di ipoteca: quest’ultima “preclude al creditore ipotecario l'insinuazione allo stato passivo e ne consente, a determinate condizioni, la sola partecipazione alla distribuzione della somma ricavata dalla vendita del bene sottoposto a garanzia ipotecaria”. Ciò in quanto il fallito, proprietario del bene ipotecato, è soggetto diverso dal debitore, mentre con il rilascio della garanzia fideiussoria, il garante diviene titolare di un credito direttamente azionabile nei confronti del fideiussore fallito.
[107] 
Egualmente, come il creditore che sia stato interamente soddisfatto prima del fallimento non ha diritto ad insinuarsi essendo estinto il suo credito, così il solvens che abbia integralmente soddisfatto il creditore potrà far valere il regresso per l'intero (secondo le norme comuni).
[108] 
Il subingresso di cui all'art. 161 è attribuito al creditore solidale non in quanto creditore del coobbligato avente diritto al regresso, ma in quanto creditore del debitore assoggettato alla liquidazione giudiziale, a differenza del subingresso ordinario di cui all'art. 511 c.p.c., che può essere utilizzato soltanto da colui che è creditore del creditore dell'esecutato, al quale si vuole sostituire.
[109] 
Il legislatore, quindi, oltre a fare una distinzione cronologica tra adempimenti anteriori (che, come visto, incidono sul credito) e successivi (che non modificano il credito insinuato) all’apertura della procedura, ha fatto tra questi ultimi una ulteriore distinzione quantitativa, attribuendo soltanto al pagamento integrale efficacia liberatoria, nel senso che soltanto il pagamento integrale del creditore, anche se avvenuto dopo l’apertura della liquidazione giudiziale, conserva il suo effetto liberatorio, consentendo al solvens di azionare il regresso.
[110] 
Il mantenimento dell’insinuazione non significa che al creditore sia dovuto l’intero importo insinuato senza tener conto dei pagamenti parziali ricevuti, ma che le percentuali distribuite vanno calcolate sull’importo insinuato, fermo restando che il pagamento da parte della curatela non può superare il limite del suo effettivo credito residuo.
[111] 
In termini, Cass. 1 marzo 2012, n.3216; Cinf, tra varie, Cass. 11 gennaio 2013, n. 613 in Giust. civ. 2013, I, 2504; Cass. 4 luglio 2012, n. 11144 in Giust. civ. 2012, I, 2309 con nota di A. Didone; Cass. 17 ottobre 2018, n. 26003; Cass., 20 novembre 2019, n. 30198.
[112] 
Si ricorda che, come già detto all’inizio, la Corte Costituzione n. 121/2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 144 e 146 del D.P.R. n. 115/2002, per ingiustificata disparità di trattamento (artt. 3 e 24 Cost.) tra liquidazione giudiziale e liquidazione controllata, sicché anche in questa seconda procedura il liquidatore che promuove una causa può ottenere l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato quando il giudice delegato della procedura ha autorizzato la costituzione in giudizio e attestato la mancanza di attivo per le spese, giusto il disposto dell’art. 144 D.P.R. n. 115/2002, e, a norma dell’art. 146, può ottenere che siano prenotate a debito le spese in tale norma elencate, nel mentre non si è espressa sulle spese anticipate dall'Erario. Per ulteriori chiarimenti in materia, cfr. Circolare Trib. Torino, 17 dicembre 2024, in Dirittodellacrisi.it, ottobre 2025.
[113] 
La S. Corte (Cass. 10 maggio 2025, n.12395) seppur con riferimento alla legge n. 3/2012 ha chiarito che “nell'ambito del sub-procedimento di formazione del passivo disciplinato dall'art. 14 octies, il liquidatore può sollevare in via incidentale l'eccezione di revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., in applicazione del principio generale temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum, posto che ai sensi dell'art. 14 decies, comma 2, L. n. 3/2012 il liquidatore ha il potere di esercitare o proseguire, su autorizzazione del giudice, le azioni dirette a far dichiarare inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori, secondo le norme del codice civile”. Principio riproponibile nella attuale liquidazione controllata.
[114] 
Cass., 29 aprile 2025, n. 11296, in Dirittodellacrisi.it.
[115] 
Inoltre , il comma 2 dell’art. 2902, c.c., nel prevedere che “il terzo contraente, che abbia verso il debitore ragioni di credito dipendenti dall’esercizio dell’azione revocatoria, non può concorrere sul ricavato dei beni che sono stati oggetto dell’atto dichiarato inefficace, se non dopo che il creditore è stato soddisfatto”, fa capire che, in caso di accoglimento della domanda, il terzo è posposto al creditore in sede esecutiva, nel mentre il trattamento paritario del creditore revocato rispetto agli altri (art. 70 L. fall. e 171 CCII), così come la revocatoria dei pagamenti di debiti scaduti, sono principi consolidati della revocatoria fallimentare. 
[116] 
Né varrebbe dire che, poiché la liquidazione controllata si rivolge a soggetti diversi dalle imprese commerciali, spesso con patrimoni di modeste dimensioni, la complessità e i costi di azioni come la revocatoria fallimentare risulterebbero sproporzionati rispetto ai possibili benefici giacché, proprio le accennate caratteristiche della revocatoria fallimentare la rendono molto più agevole e meno dispendiosa rispetto a quella ordinaria, per le incombenze istruttorie che questa richiede.
[117] 
M. Montanari, Commento sub art. 274 …cit., 2043.
[118] 
Norma questa molto più articolata di quella di cui all’art. 146 L. fall., con la quale si prevede che il curatore della liquidazione giudiziale, autorizzato ai sensi dell’art. 128, comma 2, può promuovere o proseguire le azioni di responsabilità nei confronti dei componenti degli organi della società di capitali ammessi alla procedura liquidatoria elencate nello stesso articolo e, cioè, a- l’azione sociale di responsabilità prevista dagli art. 2392 e 2393 c.c. nel caso alla liquidazione giudiziale sia ammessa una s.p.a. e quella prevista dall’art. 2476, comma 1, c.c. nel caso la procedura riguardi una s.r.l.; b- l’azione dei creditori sociali prevista dall’art. 2394 c.c. per gli organi delle s.p.a. e dall’art. 2476, comma 6, c.c. per le s.r.l.: c- l’azione prevista dall’art. 2476, comma 8, c.c. esercitabile nei confronti dei soci della s.r.l.; d- l’azione prevista dall’art. 2497, comma 4, c.c. per il caso di violazione del principio di corretta gestione nella direzione e coordinamento di società; e- tutte le altre azioni di responsabilità che la legge gli attribuisce. In tutti questi casi, precisa il comma 1 bis. introdotto con il D.Lgs. n. 136/2024, la legittimazione del curatore si estende anche alle azioni nei confronti degli eventuali coobbligati. Non viene trasferito al curatore, in quanto non compresa nell’elenco, l’esercizio dell’azione di cui all’art. 2395 c.c. avente ad oggetto il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori.
[119] 
Tra le tante, in termini, Cass., 12 giugno 2007, n.13765, ma cfr. anche Cass., 30 luglio 2025, n. 22005; Cass., 20 settembre 2019 n. 23452; Cass., 21 giugno 2012 n. 10378; Cass., 8 febbraio 2000, n. 1375, ecc. fino a risalire a Cass., Sez. un.6 ottobre 1981 n. 5341 in Giur. comm. 1982, II, 708.
[120] 
U. De Crescenzo, Le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali delle società di capitali secondo il nuovo codice della crisi e della insolvenza, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, Trattato diretto da O. Cagnasso e L. Panzani, Milano 2025, II,1569.
[121] 
Usando le parole della S. Corte (Cass., 16 maggio 2018, n. 11957), è “innegabile” il carattere coattivo delle vendite effettuate anche nelle esecuzioni collettive con adozione di forme diverse da quelle previste dal codice di rito e che si perfezionano con lo strumento privatistico del contratto, anziché con il provvedimento giudiziale del decreto di trasferimento, “dipendendo (tale natura) non dalle modalità adottate ma dall'essere l'atto inserito nel procedimento concorsuale e strumentale alle sue finalità”.
[122] 
La formulazione del comma 4 dell’art. 275 farebbe pensare che non siano ammesse nella liquidazione controllata riparti parziali, ma il comma successivo, con il richiamo dell’art. 227 smentisce questa deduzione.
[123] 
Rimane qualche differenza di poco conto circa il momento del pagamento dei compensi liquidati agli organi della procedura e allo svincolo delle somme accantonate, che, per l’art. 276, comma 2, sono comprese nel decreto di chiusura.
[124] 
Conclusione cui perviene Trib. Milano, 23 luglio 2024, cit.
[125] 
In tal senso, A. Napolitano, Alcune questioni in tema di liquidazione controllata… cit.
[126] 
Come giustamente ricordato da R. Ranucci (Liquidazione controllata ed esdebitazione … cit.) In precedenza, la liberazione dei debiti o della parte di debiti non adempiuti era riservata, quale misura premiale, esclusivamente all’imprenditore “onesto ma sfortunato” che avesse correttamente adempiuto il concordato preventivo ovvero fallimentare omologato, dato che a livello ordinamentale non esistevano altre procedure o istituti che producessero, quale effetto finale, la liberazione dei debiti non adempiuti e che la dottrina classica descriveva con il lemma “esdebitazione”.
[127] 
L’art. 278 CCII dispone che possono accedere all’esdebitazione “tutti i debitori di cui di cui all’art. 1, comma 1”, per cui è chiaro che può avvalersi dell’esdebitazione anche il fallito persona giuridica, come del resto precisato nel contesto della norma lì dove sancisce che, quando il debitore è una società o altro ente le condizioni ostative ex art. 280 CCII, non devono sussistere nei confronti dei soci illimitatamente responsabili e dei legali rappresentanti.
La stessa norma prevede, altresì, al comma 2, che nei confronti dei creditori “per fatto o causa anteriore che non hanno partecipato al concorso l’esdebitazione opera per la sola parte eccedente la percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado”, sicché nei confronti di questa categoria di creditori non opera immediatamente l’esdebitazione, che infatti non ha effetto, a norma sia del comma 5 dell’art. 281 che del comma 2 bis dell’art. 282, neanche nei giudizi in corso, ma al momento del pagamento subiscono gli effetti riduttivi dell’esdebitazione, rapportando la norma richiamata i creditori concorsuali che non hanno partecipato al passivo alla posizione dei creditori di pari grado che sono intervenuti nel concorso. E questo spiega perché il comma 4 dell’art. 281 e il comma 3 dell’art. 282 dispongano che il decreto con cui il tribunale dichiara l’esdebitazione è comunicato “ai creditori ammessi al passivo e al debitore, i quali possono proporre reclamo ai sensi dell’articolo 124 nel termine di trenta giorni”, e non a tutti i creditori, sebbene posti nelle condizioni di partecipare al concorso ma non l’abbiano fatto. 
[128] 
Sono, invece, più severe le condizioni oggettive poste al soggetto sovraindebitato per ottenere l’esdebitazione richiedendo il comma 2 dell’art. 282, oltre al ricorso delle condizioni di cui all’art. 280, che il debitore non sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per uno dei reati previsti dall’art. 344 e che non abbia determinato la situazione di sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode.
[129] 
Così R. Brogi, Le modifiche del d.lgs. n. 136/2024, cit., 141.
[130] 
F. Cappai, La (problematica) durata delle liquidazioni controllate “a mera vocazione reddituale”, in Banca Borsa Titoli di Credito, 2024, 598.
[131] 
Trib. Arezzo, 3 marzo 2023, in Il Fall. 2023, 1417.
[132] 
Corte Cost. 19 gennaio 2024, n. 6, cit.
[133] 
Il cui comma 2, dispone che “sono compresi nella liquidazione giudiziale anche i beni che pervengono al debitore durante la procedura, dedotte le passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi.
[134] 
Per il quale “Sono compresi nella liquidazione controllata anche i beni che pervengono al debitore sino alla sua esdebitazione, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi.
[135] 
Non vi è dubbio che la metabolizzazione di tale principio da parte dei professionisti spingerà a consigliare il ricorso all’esdebitazione quanto prima possibile in base alla normativa richiamata, in modo da preservare il debitore anche dalla acquisizione da parte della procedura di beni sopravvenuti.
[136] 
Questa dizione conferma l’interpretazione corrente nella vigenza dell’art. 69 bis L. fall. della comprensione nella norma sia della revocatoria fallimentare che ordinaria esercitata dal curatore. Cfr. di recente Cass. 29/04/2025, n. 11224 in motivazione.
[137] 
Discorso diverso è da farsi per le azioni non di natura costitutiva ma di condanna, nelle quali conta il fatto genetico del danno, riconducibile ad un periodo antecedente l’esdebitazione.

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