Carlo
Carbone,Avvocato e Dottore Commercialista in Roma
L’espressione “imprenditore onesto ma sfortunato” venne utilizzato per la prima volta dal Candian, giurista dei primi del ‘900, durante i lavori preparatori alla legge fallimentare la quale, come è noto, adottò un’immagine dell’imprenditore insolvente molto diversa da quella a cui allude il concetto che forse all’epoca era all’avanguardia.Si accolse, infatti, l’idea dirigista di colpevolezza dell’imprenditore insolvente con il suo carico di effetti personali legati allo status di fallito. Prevalse la tesi che l’imprenditore in stato d’insolvenza danneggiasse il sistema commerciale e che, dunque, dovesse essere espunto prima possibile per evitare che pregiudicasse gli altri operatori economici in termini di inadempimento delle obbligazioni e di concorrenza sleale perché, si pensava, che l’imprenditore in siffatta condizione, pur di rimanere sul mercato, applica prezzi inferiori alle marginalità sul prodotto o sui servizi e spesso si rende moroso verso il fisco, primo segnale ancora oggi di insolvenza dell’impresa. Tale espressione, tuttavia, tornò in auge con la Riforma della legge fallimentare del 2005, che ridisegnò il concordato preventivo, all’epoca poco o quasi mai utilizzato, che venne visto quale strumento utile per aiutare l’imprenditore ad uscire dalla crisi, forse con un accento di troppo perché, come si ricorderà, complice un sistema di voto particolarmente favorevole, vi fu una corsa al suo utilizzo che, per fortuna, durò poco, in danno dei creditori disorientati dalle nuove regole. Si puntava al concordato preventivo, più volte riformato, che però ancora adesso viene spesso utilizzato tardivamente ed al ribasso provocando effetti negativi sugli operatori sani, che si dovrebbe tutelare, i quali subiscono la falcidia dei loro crediti talora anche in misura superiore rispetto alla proposta fatta loro e sulla quale avevano espresso il consenso. Dunque, il concetto di imprenditore onesto ma sfortunato si attaglia perfettamente al nuovo corso del legislatore, di cui da ultimo il Codice della Crisi porta alto il vessillo di siffatta categoria di imprenditori che sono “meritevoli” in quanto sfortunati e degni di umana compassione ai quali ergere ponti d’oro. Allora vediamolo il profilo di siffatta categoria di imprenditori. Concentriamoci su costoro, vediamo se esistono davvero imprenditori che si possano qualificare, quando l’azienda va male, sfortunati.Intendiamoci, non si intende mettere in discussione gli strumenti di risoluzione della crisi dell’impresa oggi a disposizione, i quali sono importanti e financo necessari perché assolvono all’espressione del mercato di agevolare i trasferimenti dei componenti produttivi. Come è noto, i giuristi si sono affrettati a sposare il concetto – di vena romantica – dell’imprenditore sfortunato e con buona pace della realtà economica hanno consumato fiumi d’inchiostro per richiamare il sillogismo tra il suddetto imprenditore ed i nuovi strumenti di risoluzione della crisi. Ebbene, diciamolo subìto, secondo l’Autore di questi scritti l’imprenditore onesto ma sfortunato in economia aziendale non esiste e, d’altra parte, non esiste neppure giuridicamente per quello che si dirà. Siffatti imprenditori, che evidentemente non rappresentano una categoria, sebbene sopra così l’abbiamo definita (perché la crisi è una condizione nella quale l’impresa si può trovare occasionalmente e se gestita correttamente è transitoria), è sempre il risultato di scelte o non scelte – ed è questo il punto – che sono direttamente riconducibili all’imprenditore medesimo. Un’impresa cade in crisi per mille motivi, sia per fattori endogeni che esogeni, ma sono le scelte dell’imprenditore, le sfide che deve affrontare, che fanno la differenza. La sfortuna nell’economia aziendale non rientra tra i concetti ponderabili perché gestire un’impresa non è come giocare alla lotteria: se un determinato prodotto o servizio non ha più marginalità, ad esempio per la concorrenza di altri operatori economici, l’imprenditore avveduto chiude quella linea produttiva; se la clientela cambia gusti e va verso altri beni l’imprenditore capace si allinea, insomma adotta strategie d’impresa versatili seguendo, mantenendo, e permanendo sul mercato in modo profittevole, a costo di arrivare a porre l’impresa in liquidazione se è diventato impossibile proseguire l’attività. Viceversa, l’imprenditore che non riesce ad intercettare i cambiamenti del mercato si ritrova o può ritrovarsi in una condizione di crisi, anticamera dell’insolvenza, la cui gravità sarà direttamente proporzionale al tempo entro il quale si renderà conto di tale condizione.Ebbene, l’imprenditore che si trova in crisi non rendendosene conto e, dunque, non agisce, od agisce in ritardo, può essere l’individuo più onesto della terra, ma purtroppo, per costui, e per l’economia nazionale in ottica macroeconomica, non possiamo qualificarlo “sfortunato”. Non solo non possiamo qualificarlo “sfortunato”, ma egli è anche potenzialmente responsabile di negligenza perché sappiamo tutti che oggi l’imprenditore deve adottare, ai sensi dell’art. 3 CCII e dell’art. 2086 c.c. assetti organizzativi, amministrativi e contabili tesi ad intercettare tempestivamente la crisi dell’impresa, individuale o collettiva.Responsabilità dell’imprenditore, espressamente prevista dal rinnovato art. 2476, comma 5 c.c. che si declina, dal punto di vista risarcitorio, nel depauperamento progressivo del patrimonio dell’impresa in danno dei creditori che rappresenta l’unica garanzia per il loro soddisfacimento. Epperò, come si diceva sopra, è specialmente a tali imprenditori che il legislatore si rivolge, al punto che costoro non solo possono ottenere misure di protezione e di conservazione dei propri beni, ma addirittura imporre che i soggetti economici con cui sono in affari di non rifiutare l’adempimento di contratti pendenti o provocarne la risoluzione, anticiparne la scadenza, o modificarli in danno per il solo fatto del mancato pagamento di crediti anteriori e per le banche l’obbligo di non sospendere o revocare gli affidamenti (vedi artt. 16, comma 5; 18, comma 5; 94 bis CCII).Si badi bene che, come abbiamo detto, qui non è messa in discussione la necessità di salvaguardare l’azienda, laddove sia profittevole - la quale rappresenta un valore del sistema economico - ma l’imprenditore dal punto di vista soggettivo quale meritevole, appunto, di siffatta massima tutela.È sufficiente, al riguardo, richiamare il trattamento di estremo favore riservato all’imprenditore nella composizione negoziata della crisi, il quale benché onesto, sarebbe andato in crisi od addirittura in stato d’insolvenza, senza volerlo, ergo “sfortunato”.Tuttavia, proprio lo strumento della composizione negoziata della crisi ha il merito di agevolare il trasferimento dell’azienda o dei suoi rami (art. 22, comma 1, lett. d) CCII), che dovrebbe assumere un rilievo ancora superiore alla luce delle presenti considerazioni. Dalla visione di cui stiamo parlando vennero abrogati i sistemi di allerta inizialmente previsti dal Codice della crisi e dell’insolvenza, consegnando (di nuovo) la gestione della crisi all’imprenditore che “non avendo colpa” sarebbe stato in grado di risolverla.La riprova che il profilo dell’imprenditore tracciato sopra sia corretto lo riportano i dati statistici: i soggetti arrivano (ancora) tardi ad utilizzare gli strumenti di risoluzione della crisi; spesso quando non vi è più nulla da fare. Sono gli stessi imprenditori, poco dinamici, che non hanno tempestivamente compreso i cambiamenti del loro mercato e non hanno, dunque, modificato la rotta della propria azienda e che allo stesso qual modo, ove avessero con tempestività utilizzato gli strumenti per uscire dalle secche nella quali erano finiti, non vi sarebbero arrivati o vi sarebbero giunti in condizione meno grave - ossia di precrisi. Si potrebbe sostenere che sì, d’accordo, si può sbagliare e, quindi, è giusto che a quell’imprenditore poco tempestivo, ma dimostratosi almeno solerte nel recuperare la situazione di crisi aziendale, venga offerta una seconda possibilità.Il fenomeno al quale assistiamo ancora troppo frequentemente, però, è quello dei peggiori, ossia dell’imprenditore che fa un uso improprio degli strumenti di risoluzione della crisi, ossia solo per ritardare la liquidazione giudiziale. Il percorso è pressoché lo stesso. Si introduce la composizione negoziata della crisi per poi depositare una richiesta di concordato preventivo in continuità aziendale e laddove quest’ultimo venga omologato quante imprese raggiungono l’obiettivo del risanamento e, dunque, riescono a sopravvivere per almeno un quinquennio, e quante proposte ai creditori vengono rispettate? La risposta ai commentatori. Ad avviso dell’Autore di questi scritti, l’errore del legislatore è stato quello di lasciare all’imprenditore, della cui figura abbiamo parlato, la strategia di risoluzione della crisi. Dal punto di vista macroeconomico l’azienda è un bene collettivo, rappresenta la ricchezza del Paese, che non può essere abbandonata nelle mani del singolo imprenditore. Eppure, la consapevolezza che l’imprenditore non fosse adeguato nella gestione della crisi dell’impresa si era già registrato dopo la Riforma della legge fallimentare, ed è altrettanto chiaro che l’art. 2086 c.c., con il carico di obblighi che abbiamo visto sopra, non rappresenti un deterrente; mentre, al contrario, va detto, lo è la vigilanza dell’organo di controllo per le imprese cui sono assoggettate a siffatto organo. La soluzione? Occorre reintrodurre i sistemi di allerta che sono stati adottati proprio dall’esperienza della scarsa capacità di autodeterminarsi dell’imprenditore, e che rispondeva meglio al concetto che il tema della crisi dell’impresa non è un fatto – o quanto meno non solo un fatto – individuale, ma involge l’intera collettività quanto a conseguenze sociali dirette ed indirette e dalla collettività deve essere risolta.I sistemi di allerta avevano il pregio di mettere l’imprenditore di fronte alla realtà dei fatti aziendali ed obbligarlo ad intervenire con celerità ed in assenza di intervento consentiva al sistema di operare tempestivamente per evitare il propagarsi della crisi agli operatori sani che, in fondo, ne subiscono gli effetti. In definitiva, quei concetti che hanno prevalso nel dibattito del ’42, che vedevano l’imprenditore insolvente una minaccia per il sistema economico, non erano del tutto sbagliati, e la visione dell’imprenditore onesto ma meritevole non rappresentava un’avanguardia per quei tempi, ma un concetto sul quale oggi si sta pagando lo scotto.