a) Sforzi profusi in giurisprudenza
In giurisprudenza una bella definizione di procedure concorsuali (che potrebbe offrire un assist al Legislatore) è adombrata (a livello di obiter dictum) dal decreto Moby[52] dove si legge che le stesse vanno «intese non come semplici rimedi ex post a situazioni dannose, al pari delle revocatorie ad esempio, ma, soprattutto» (in perfetta sintonia con le indicazioni provenienti dagli organismi dell’Unione Europea e sovranazionali, sulle quali v. infra) «come strumento di emersione tempestiva della crisi per ridurre al minimo l’impatto della stessa ed il pregiudizio delle ragioni creditorie». Da tale nozione viene desunto, come corollario, il potere-dovere di «ricorrere ad una procedura che presuppone l’insolvenza non solamente in caso di insolvenza conclamata e risalente, ma anche quando essa si sta per manifestare all’esterno in tutta la sua gravità».
È poi doveroso ricordare la famosa metafora dei «cerchi concentrici»[53], caratterizzati dal progressivo aumento dell’autonomia delle parti man mano che ci si allontana dal nucleo (la procedura fallimentare) fino all’orbita più esterna (gli a.d.r.), passando attraverso le altre procedure di livello intermedio, quali la liquidazione degli imprenditori non fallibili, le a.s., le l.c.a., il concordato fallimentare, il c.p., gli accordi di composizione della crisi da sovraindebitamento, gli a.d.r. con intermediari finanziari e financo le convenzioni di moratoria. Resterebbero all’esterno di questo perimetro immaginario solo gli atti interni di autonoma riorganizzazione dell’impresa, come i piani attestati di risanamento e gli accordi di natura esclusivamente stragiudiziale che neppure richiedono un intervento giudiziale di tipo omologatorio.
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b) Segue: e in dottrina
Anche la più impegnata dottrina giuridica (non aziendalistica, alla quale, in compenso, si deve il riempimento della categoria degli assetti[54]) ha offerto una sorta di decalogo[55] dei tratti che connotano indistintamente le procedure concorsuali, ossia:
1) l’accertamento di una situazione di patologia dell’impresa (insolvenza, crisi, irregolarità);
2) la previsione che detto accertamento sia rimesso all’apprezzamento di un’autorità pubblica (giurisdizionale o amministrativa);
3) l’affidamento della - o di un controllo sulla - gestione ad un organo nominato dall’autorità pubblica;
4) il coinvolgimento dell’intero patrimonio dell’imprenditore nella gestione sostitutiva (con poche e non rilevanti deroghe);
5) la collettivizzazione delle tutele (cioè limiti alle iniziative individuali dei singoli creditori) e l’inibizione alla creazione di posizioni di preferenza (divieto di azioni esecutive e controllo sull’acquisizione di cause di prelazione);
6) l’applicazione tendenziale delle regole di parità di trattamento;
7) l’imposizione di un vincolo sui beni del debitore con formazione di una massa funzionalizzata alla soddisfazione dei creditori (segregazione patrimoniale);
8) la deviazione del trattamento dei crediti dalle regole ordinarie (ad es., in tema di produzione degli interessi);
9) il potenziale concorso fra creditori (potenziale perché la pluralità degli stessi non è un elemento qualificante);
10) l’esistenza di regole di distribuzione verticale del valore.
Ma attenzione[56]: non è scritto da alcuna parte che debbano ricorrere tutti questi fattori selettivi per ravvisare una p.c. e non si può escludere a priori che anche agli istituti concorsuali possano applicarsi i riflessi disciplinari delle vere e proprie procedure concorsuali (intuizione dirimente per risolvere l’enigma, di recente avallata da un importante arresto delle Sezioni unite reso a fine 2021[57]).
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Passando dalla teoria alla pratica, è innegabile che, a rigore e secondo l’accezione tradizionale, gli a.d.r. (“normali”) dovrebbero rimanere, coltivando la metafora, “fuori dal cerchio”, ossia non essere considerati vere p.c. giacché, in sintesi:
i) non è previsto un procedimento, né un provvedimento di apertura;
ii) non è obbligatoria la nomina di organi;
iii) non c’è una regolazione concorsuale (né tanto meno universale) del dissesto (non tutti i creditori sono coinvolti e gli stessi sono organizzati, anziché come collettività, come somma di tante teste);
iv) il debitore resta il dominus dell’impresa perché continua a dirigerla e non vi è alcuna forma di spossessamento, neppure attenuato;
v) la volontà della maggioranza non si riflette su coloro che restano estranei;
vi) non vi è sospensione del corso degli interessi (c.d. cristallizzazione del passivo);
vii) non si applica la regola secondo la quale le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi sono inefficaci rispetto ai creditori se compiute dopo l’apertura della procedura.
Approfondendo il discorso, potrebbero emergere (e sono emersi) tanti “però” legati alla constatazione che (seguendo lo stesso ordine di cui sopra):
i) è possibile (anzi doverosa in presenza di istanze per la liquidazione giudiziale) la nomina di un commissario giudiziale (art. 44, comma 4, il cui contenuto è stato trasfuso, dallo schema di d.lgs. recante modifiche al c.c.i.i., nel corrispondente comma dell’art. 40);
ii) sono coinvolti anche i creditori c.d. non aderenti (che, negli a.d.r. tradizionali, subiscono la moratoria e il divieto di azioni esecutive e cautelari individuali, mentre negli a.d.r. ad efficacia estesa devono obtorto collo accettare la volontà espressa dalla maggioranza delle categorie);
iii) vi è un controllo giudiziale sia iniziale per la concessione dell’automatic stay che finale in sede di omologazione.
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Le stesse considerazioni e perplessità potrebbero ripetersi, mutatis mutandis, per la composizione negoziata della crisi (c.n.c.) che (secondo la stessa Relazione di accompagnamento al d.l. n. 118/2021 e l’interpretazione autentica offerta dalla Presidente e un autorevole membro della Commissione Pagni[58]) non è una procedura concorsuale “vicaria”, perché non vi è:
i) alcuna apertura di un procedimento di regolazione della crisi;
ii) alcun organo della procedura;
iii) alcun blocco di crediti e debiti;
iv) alcuna previsione di un ordine di distribuzione;
v) alcun, neppur minimo, spossessamento;
vi) alcuna necessità di coinvolgimento di tutti i creditori (anzi, la selettività è uno dei tratti che caratterizzano lo strumento);
vii) alcuna formazione di una “massa” segregata a favore di taluni creditori.
Tuttavia, l’autonomia privata dell’imprenditore non è “piena”, ma è stata emblematicamente definita[59] “controllata” e (qualora si avvalga della possibilità di ottenere misure protettive, di contrarre finanziamenti prededucibili o di derogare al capoverso dell’art. 2560 c.c.) “integrata”. La stessa libertà di pagare non è totale stante la necessità d’informare l’esperto dell’esecuzione di pagamenti incoerenti rispetto alle trattative o alle prospettive di risanamento.
Anche se, per ovvie ragioni, il dibattito sulla natura della c.n.c. (a differenza di quello sugli a.d.r.) è solo all’inizio (e si spera possa essere sopito sul nascere dalle modifiche al c.c.i.i. apportate dallo schema di d.lgs. di recepimento della Direttiva Insolvency) se ne è ipotizzata una «doppia personalità»[60] ovvero la possibilità d’inquadrarla tra le procedure concorsuali ove nella fattispecie concreta venga coinvolta l’autorità giudiziaria attraverso la richiesta di misure protettive e/o cautelari (ex artt. 6 e 7 dell’originario d.l. n. 118/2021, trasfusi nei corrispondenti artt. 18 e 19 c.c.i.i.) o di autorizzazioni (ai sensi dell’art. 10 del d.l. n. 118/2021, ripreso dall’art. 22 c.c.i.i.) essendo difficile immaginare che il giudice possa emettere siffatti provvedimenti senza aver prima quantomeno verificato la correttezza del percorso che ha portato alla nomina dell’esperto e alle attività successive.