A corroborare un coinvolgimento del terzo acquirente di beni oggetto di frode “carosello” non vi sono soltanto evidenti parallelismi tra le fattispecie sin qui esaminate, ma anche pronunce che, sebbene espresse in vicende di rilievo penale, risultano particolarmente calzanti.
In via preliminare ricordiamo che le frodi in materia di iva sono punite penalmente, in quanto le relative condotte integrano i reati tributari previsti dagli artt. 2, 8 e 10 ter D.Lgs. n. 74/2000[14].
Le imprese devono predisporre modelli organizzativi idonei a prevenire la commissione di reati (D.Lgs. n. 231/2001), pure con riferimento a quelli tributari (art. 25 quinquiesdecies) e societari (art. 25 ter). Più in generale devono dotarsi di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla loro natura e dimensioni (artt. 2086, 2381 co.5, 2403 e 2428 c.c.).
Tutto ciò comporta una mappatura dei rischi da parte dell’impresa acquirente di beni che potrebbero rientrare nelle frodi, tanto più che è solidalmente obbligata a pagare l’iva se il venditore non la versa relativamente a determinati beni (auto, telefonini, computer, bestiame vivo etc.) venduti a prezzo inferiore al loro “valore normale” (art. 60 bis D.p.r. 633/1972)[15].
In diverse pubblicazioni la Banca d’Italia ha esposto alcuni indicatori per individuare le società “cartiere”: recente costituzione, assenza di organizzazione, capitale al minimo legale, amministratori di dubbio profilo, flussi vorticosi di denaro in breve tempo, vendite sotto costo, vendite a un solo cliente o a pochi clienti, acquisto da fornitori esteri (senza addebito d’iva), indici di bilancio anomali etc.[16]
Quanto ai profili fallimentari, a norma dell'art. 223, 2° comma, n. 2 l.fall. si applicano agli amministratori di società (tra gli altri) le pene previste per la bancarotta fraudolenta, quando hanno cagionato con dolo, o per effetto di operazioni dolose, il fallimento della società. Per la Cassazione le due fattispecie non sono assimilabili: mentre nell'ipotesi di causazione dolosa del fallimento questo è voluto specificamente, nel caso di fallimento come effetto di operazioni dolose la condotta non è intenzionalmente diretta a produrre il dissesto, ma il soggetto attivo ne accetta anche solo il rischio.
La prima è quindi una fattispecie caratterizzata da un dolo specifico, sotto forma di intenzione di causare il fallimento, mentre per la seconda è sufficiente un dolo generico, che può concretarsi in un mero dolo eventuale (ovvero nella semplice accettazione del rischio, da parte dell'agente o del concorrente nel reato, che si verifichi l'evento fallimento)[17].
Gli amministratori della società “cartiera” rispondono sicuramente del delitto ex art. 223, 2° comma, n. 2 l.fall., visto che le operazioni di frode dell'iva - quale che sia la loro attuazione – sono compiute consapevolmente e quindi sono operazioni dolose che hanno come conseguenza possibile, quando non probabile o inevitabile, la dichiarazione di fallimento della società stessa[18].
Oltre alla responsabilità penale, a carico dei suddetti amministratori sussiste anche una responsabilità civile, che discende anzitutto dalla commissione del reato e quindi da quanto prevedono gli artt. 185 c.p. e 2059 c.c., che obbligano al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.
La responsabilità discende pure dal compimento di operazioni gestionali che possono concretarsi in forme diverse (ad es. vendita sotto costo, omesso versamento delle imposte, distrazione delle disponibilità liquide sociali) e che caratterizzano comunque invariabilmente tutte le truffe “carosello”.
Come già evidenziato, si tratterà però di amministratori privi di beni aggredibili, scelti per rivestire incarichi di gestione proprio perché nullatenenti o latitanti. Perciò è rilevante notare che, per la giurisprudenza penale, del reato di cui all’art. 223, 2° comma, n. 2 l.fall. rispondono, oltre ai soggetti indicati nella norma (amministratori, direttori generali, sindaci), pure gli estranei che hanno concorso alla commissione dell’illecito.
In altre parole possono rispondere del delitto, a titolo di concorso, anche gli amministratori delle società che hanno acquistato i beni dalla società fittiziamente interposta, a condizione che fossero consapevoli del rischio che le operazioni determinavano per i suoi creditori[19]. I presupposti della responsabilità del terzo vengono tratti anche solo “dall'esistenza di stabili rapporti economici con società prive di qualunque struttura aziendale ed operanti per un lasso di tempo limitato, in rapida successione”[20].
Le frodi in esame hanno come probabili collusi i terzi acquirenti, che sono poi spesso i beneficiari diretti o indiretti del meccanismo fraudolento. Del resto è arduo ipotizzare che la frode si attivi senza coinvolgere imprese che traggono vantaggio dall'acquisto dei beni a prezzi concorrenziali proprio in virtù del programmato omesso versamento dell'iva da parte del venditore[21].
Sul punto valgano le considerazioni della Cassazione: “la messa in opera di un carosello fiscale richiede l'accordo di tutti i soggetti economici che lo formano ed è quindi la consapevolezza, in capo a tali soggetti, di agire come parte di un meccanismo teso a recuperare e ripartire i vantaggi economici derivanti dal mancato versamento dell'IVA che fonda il giudizio di colpevolezza in ordine ai reati fallimentari. In altri termini, poiché il "carosello" si fonda sull'accumulo del debito IVA da parte della società cartiera importatrice, tutti i protagonisti ne sono necessariamente consapevoli, così come, del resto, sono consapevoli delle vendite sottocosto che la cartiera effettua in favore del soggetto”[22].
La responsabilità penale del soggetto che concorre nella truffa ha conseguenze civili, obbligando il concorrente a risarcire il danno arrecato ai creditori della fallita (art. 185 c.p.). In sede civile si tratterà di responsabilità aquiliana, nella quale è onere dell’attore (ovvero del curatore fallimentare) offrire prova del consapevole coinvolgimento, anche mediante presunzioni[23], salvi i vantaggi derivanti dall’applicazione dell’art. 185 c.p.[24]
Al fine di decidere la domanda risarcitoria, peraltro, il giudice civile non necessita di un previo accertamento in sede penale, potendo riscontrare in via autonoma la sussistenza degli elementi della fattispecie di reato[25]. Può quindi valutare se la condotta dell'extraneus integri i presupposti del delitto di cui all'art. 223 l.fall., condannandolo perciò al risarcimento del danno che ne è conseguito.
Sebbene in taluni casi la dimostrazione del concorso nell'operazione fraudolenta possa apparire difficile, è indubbio che solo il coinvolgimento dei terzi beneficiari della truffa rappresenta un efficace deterrente a sfruttare questi meccanismi e può consentire ai creditori (e alla società fallita) di conseguire un ristoro per il pregiudizio subito.
Si noti poi che in sede civile la responsabilità ex art. 2043 c.c. è anche quella meramente colposa, tanto che l’extraneus rischia di essere convenuto in giudizio pure laddove non emerga una sua collusione dolosa con la “cartiera”[26].
D’altra parte il soggetto estraneo agli organi sociali – che sfrutta a proprio vantaggio la frode – potrebbe invece essere il vero e proprio gestore (di fatto) dell’impresa missing trader, laddove il suo amministratore sia un mero prestanome. In proposito ricordiamo che per i reati societari è prevista la responsabilità di chi esercita una determinata funzione senza esserne formalmente investito (art. 2639 c.c.). Regola che si riconnette, in ambito civilistico, alla responsabilità dell’amministratore di fatto per i danni causati alla società e ai creditori[27].