1. Il codice della crisi con una innovazione sostanziale rispetto al passato è intervenuto in modo molto incisivo nell’organizzazione dell’impresa societaria in crisi con il duplice obiettivo (i) di favorire il percorso di ristrutturazione sottraendolo agli interessi (talvolta egoistici) dei soci e, nel contempo (ii) di non emarginare totalmente i soci nella soluzione della crisi.
L’art. 84, comma 3, afferma che la proposta di concordato deve prevedere per ciascun creditore un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile (che può consistere anche nella prosecuzione o rinegoziazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa) e l’art. 120 quarter, comma 1, afferma che il piano può prevedere che il valore risultante dalla ristrutturazione sia riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda e senza che agli stessi vengano richieste nuove prestazioni. Il tutto con la precisazione contenuta nell’art. 84, comma 2, che la priorità del concordato in continuità aziendale è la tutela dell’interesse dei creditori e la salvaguardia, nella misura del possibile, dei posti di lavoro.
Occorre quindi armonizzare il primario interesse dei creditori con quello (subordinato) dei soci che con le nuove norme non possono ostacolare la ristrutturazione.
2. In primo luogo, occorre osservare che con il recepimento della direttiva insolvency, il legislatore italiano ha colto l’occasione per meglio precisare (e in qualche modo inasprire) la governance delle società allo scopo di far emergere tempestivamente eventuali situazioni di difficoltà che consentano non solo l’accesso ai quadri di ristrutturazione preventiva ma anche la loro rapida esecuzione una volta che il percorso di ristrutturazione sia stato approvato. Con l’occasione si è anche ribadito che gli unici soggetti che hanno il diritto/dovere di gestire il percorso di ristrutturazione in tutti i suoi aspetti sono gli amministratori.
L’art. 3, comma 3, CCII integra il disposto dell’art. 2086 c.c. (come modificato dal CCII) attraverso una serie di obblighi comportamentali molto puntigliosi per gli amministratori di società che in qualche modo si collegano al test pratico contenuto nel decreto dirigenziale 28.9.2021, che come è noto, è finalizzato alla verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento (basti leggere la sezione II dell’allegato al decreto dirigenziale che al punto 1 illustra esplicitamente il contenuto dell’organizzazione dell’impresa per essere in grado di cogliere gli indizi di crisi). Non si tratta di un vero e proprio inasprimento degli obblighi organizzativi, ma di una precisazione dei requisiti organizzativi considerati adeguati anche ai fini della tempestiva rilevazione della crisi. Sicuramente sono tutti elementi che, in caso di insuccesso della ristrutturazione o di ritardo nell’accesso a strumenti/procedure, rappresentano violazioni di specifici obblighi legali da parte degli amministratori che integreranno una forma di mala gestio (e la conseguenza civilistica sarà per lo più costituita dal danno nell’aggravamento del passivo). Con una precisazione. E’ possibile che tale danno si verifichi non solo in caso di perdita del capitale sociale ma anche se il capitale è esistente, perché il ritardo potrebbe aver influito nelle prospettive di recupero per i creditori. Sotto questo profilo, il nuovo art. 3, comma 4, CCII, evidentemente ispirato all’art. 24 CCII (vecchio testo ora abrogato), esemplifica i segnali di allarme che gli amministratori devono cogliere e che sono rappresentati da mancati pagamenti degli stipendi ai dipendenti e da imponenti debiti verso fornitori, banche, fisco e previdenza. In presenza di questi segnali di allarme gli amministratori devono intervenire. Tuttavia, mentre il vecchio art. 24 CCII utilizzava questi indici (all’epoca più blandi) in positivo e cioè per valorizzare la tempestività dell’iniziativa del debitore al fine dell’ottenimento delle misure premiali, con il nuovo testo detti indici rappresentano, per così dire, la cartina al tornasole di un’inerzia degli amministratori conseguente, magari, a un difetto di organizzazione con rischi di responsabilità non solo per gli amministratori ma anche per gli organi di controllo.
Probabilmente il nuovo art. 3 CCII non viola la cd. business judgment rule degli amministratori, ma se gli amministratori, in presenza dei segnali di allarme previsti dall’art. 3, comma 4, non ricorrono a strumenti di composizione della crisi, saranno obbligati a fornire spiegazioni della loro scelta (che potrebbe anche essere giustificata, ad es., da una situazione congiunturale negativa che però gli amministratori ritengono sia solo temporanea).
3. Come afferma la relazione di accompagnamento al decreto legislativo di recepimento della direttiva Insolvency, proprio in esecuzione del disposto dell’art. 2086 c.c., spetta in via esclusiva agli amministratori (e non ai soci che devono solo essere informati) la decisione sul contenuto del piano di ristrutturazione e sulla proposta da sottoporre ai creditori oltreché la decisione sull’accesso a un quadro di ristrutturazione preventiva (v. art. 120 bis CCII). E sempre agli amministratori è demandata l’adozione di ogni operazione societaria straordinaria (che normalmente sarebbe di competenza dei soci), quali ad es. aumenti o riduzioni di capitale, ma non solo, che sia esecutiva del piano di ristrutturazione. Con addirittura un potere sostitutivo di nomina di un amministratore giudiziario da parte del tribunale in caso di inerzia degli amministratori (art. 120 quinquies CCII).
In sostanza, non solo gli amministratori devono organizzare la società al fine di cogliere tempestivamente gli indizi di crisi, non solo devono intervenire tempestivamente per superare la crisi, ma sono gli unici soggetti chiamati a scegliere il percorso di ristrutturazione ed eventualmente ad attuare le operazioni societarie straordinarie esecutive del piano. A conferma del loro ruolo centrale nella ristrutturazione, l’art. 120 bis, comma 4, CCII vieta ai soci la revoca degli amministratori se non per giusta causa dopo che gli amministratori abbiano assunto la decisione di accesso a un quadro di ristrutturazione. Al fine di evitare l’aggiramento di tale divieto, la norma precisa che la presentazione della domanda di accesso a un quadro di ristrutturazione, in presenza delle condizioni di legge, non costituisce una giusta causa di revoca.
Occorre chiedersi la ragione di tale inasprimento e ampliamento dei poteri/doveri degli amministratori: la normativa comunitaria e ora italiana spinge con forza verso i quadri di ristrutturazione preventiva e quindi obbliga gli amministratori ad intervenire tempestivamente perché così facendo la crisi ha maggiori chances di essere superata soprattutto con minori costi per tutti gli stakeholders. E la rigidità delle regole comportamentali degli amministratori risponde proprio a questa finalità con un oggettivo restringimento della discrezionalità gestoria e con un obbligo di motivazione quando gli amministratori intendono discostarsi dal percorso normativo tracciato che è molto stringente. Ancorchè, in linea generale, il dirigismo normativo susciti delle perplessità, in questo caso, da un lato, il fine (sicuramente condivisibile) giustifica il mezzo utilizzato (forse un po' didascalico), e, dall’altro lato, affranca opportunamente gli amministratori da condizionamenti interessati che potrebbero essere loro imposti dai soci. In sostanza, come è stato recentemente scritto (di ciommo, in Fall., 2022, 413), il legislatore ha introdotto un nuovo criterio di imputazione della responsabilità civile non certo incentrato sul concetto di colpa in capo a imprenditori e amministratori con la finalità di indurre le imprese a dotarsi degli assetti più efficaci e adeguati alla propria realtà più che di assicurare il giusto risarcimento.
4. Se la gestione della crisi spetta esclusivamente agli amministratori, ciò non significa che i soci siano diventati un corpo quasi estraneo rispetto alla società, come se ormai la società appartenesse economicamente ai creditori il cui mancato integrale pagamento sancirebbe la perdita di ogni valore patrimoniale per i soci.
La direttiva insolvency mira, infatti, nel netto favor per la continuità, a incentivare i soci a favorire il percorso di ristrutturazione e a investire nella continuità diretta che a medio termine valorizza l’impresa in modo economicamente superiore rispetto alla liquidazione o anche rispetto alla continuità indiretta, perché l’impresa subisce minori traumi.
L’art. 120 quater, comma 1, prevede espressamente che il valore risultante dalla ristrutturazione possa essere riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda. Questa previsione rappresenta un incentivo ai soci nel mantenimento della proprietà dell’impresa sotto forma non solo del diritto al mantenimento dell’eventuale valore di liquidazione della partecipazione, ma soprattutto del diritto a beneficiare dei flussi futuri. Anche in questo caso, come già nell’art. 84, comma 6, CCII con riferimento ai creditori, il legislatore, nel trattare della posizione dei soci, fa ricorso alla relative priority rule per la parte eccedente il teorico valore di liquidazione dell’attivo.
Ai sensi dell’art. 120 quater, comma 2, per valore riservato ai soci si intende “il valore effettivo, conseguente all’omologazione della proposta, delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquistarle, dedotto il valore che essi eventualmente hanno apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto”. Da tale previsione deriva, per quanto riguarda i nuovi investimenti, che i soci sono liberi di allocarli come vogliono anche senza rispettare l’ordine dei privilegi (si tratta, infatti, di risorse esterne), ferma restando la necessità che la proposta sia poi approvata da parte dei creditori. Viene quindi finalmente superata quella giurisprudenza della Cassazione un po' dogmatica che limitava enormemente la nozione di risorse esterne, al punto che anche un aumento di capitale non avrebbe potuto essere considerato una risorsa esterna in quanto le somme entrano a far parte del patrimonio della società (Cass. 10884/2020, Cass. 12864/2019 e Cass. 9373/2012).
Viceversa, per la parte relativa all’investimento originario dei soci (che non investono ulteriori risorse in società), se il piano prevede che il valore risultante dalla ristrutturazione sia riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda, è necessaria la formazione di una o più classi di soci (art. 120 ter, comma 1) e il concordato “in caso di dissenso di una o più classi di creditori, può essere omologato se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore” (art. 120 quater, comma 1).
Per “valore risultante dalla ristrutturazione” (art. 120 quater, comma 1), sulla base della relazione illustrativa al decreto legislativo, si deve intendere il valore eccedente quello di liquidazione. Da ciò deriva che il valore di liquidazione debba essere destinato secondo l’ordine dei privilegi, mentre il valore eccedente la liquidazione, che potrà essere anche rappresentato dai flussi di cassa, non necessariamente deve essere riconosciuto ai creditori, ma può essere anche appannaggio dei soci. Se poi i soci investono nuovo risorse, potranno destinarle come meglio credono.
L’art. 120 ter, comma 1, prevede la possibilità di classamento dei soci e l’art. 120 ter, comma 2, rende il classamento obbligatorio “se il piano prevede modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci e, in ogni caso, per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio”. L’art. 120 ter, comma 3, prevede poi che i soci votino proporzionalmente alla quota di capitale posseduta anteriormente alla presentazione della domanda e che per essi valga il silenzio-assenso.
Si tratta di una previsione molto importante che riprende e sviluppa il contenuto dell’art. 84, comma 2, CCII nel testo originario ora modificato. Tale norma stabiliva infatti genericamente che il piano deve prevedere il ripristino dell’equilibrio economico-finanziario dell’impresa nell’interesse prioritario dei creditori, oltreché dell’imprenditore e dei soci. Se nel “vecchio” art. 84 si dava dignità all’interesse dei soci, il nuovo testo in modo molto opportuno delimita i diritti dei soci superando quelle interpretazioni giurisprudenziali (non condivisibili) che vedevano nei flussi della continuità un bene aziendale e che, quindi, portavano ad emarginare i soci che – secondo alcune interpretazioni non condivisibili – non potevano ottenere la distribuzione di utili derivanti dalla continuità fino alla completa esecuzione del concordato, con la conseguenza che se anche l’esecuzione della proposta fosse regolarmente attuata, ciononostante i soci non potrebbero distribuirsi gli eventuali utili. Addirittura, alcune interpretazioni massimalistiche, ritenendo che i flussi di cassa sono un bene aziendale e che l’art. 2740 c.c. impone al debitore di pagare i creditori con il patrimonio attuale e futuro, dubitavano della legittimità di proposte che limitassero quantitativamente i flussi di cassa a favore dei creditori.
Sono state sollevate perplessità sul ruolo attribuito ai soci che potrebbero condizionare l’approvazione del concordato o del piano di ristrutturazione soggetto ad omologa (v. A. Rossi, Fall., 2022, 945). Non sono d’accordo perché l’emarginazione dei soci (che sicuramente non vogliono perdere l’investimento) talvolta può rilevarsi non conveniente per i creditori, tanto più che l’ordinamento offre una serie di contromisure per colpire l’egoismo dei soci.
In due circostanze il CCII dà voce ai soci. Oltre a quella qui esaminata, nell’art. 285, comma 5, relativo al concordato di gruppo, si prevede che i soci di minoranza, in caso di trasferimenti di attivi infragruppo, possano opporsi all’omologa del concordato se ritengono pregiudicato il valore o la redditività della loro partecipazione.
Sono due previsioni molto utili che riconoscono ai soci un ruolo nella società in ristrutturazione. I soci non possono gestire la ristrutturazione, ma possono intervenire nel percorso concordatario per far valere i loro diritti. Si tratta di una tutela dei diritti di natura patrimoniale dei soci, che rappresenta un riequilibrio rispetto all’esclusiva competenza gestoria degli amministratori.
Siccome la determinazione del contenuto della proposta di concordato spetta esclusivamente agli amministratori e siccome potrebbe accadere che la proposta degli amministratori penalizzi i soci, il legislatore da un lato ha previsto che i soci non possono revocare gli amministratori, ma dall’altro lato ha attribuito un diritto di voice a favore dei soci.
Addirittura, l’art. 120 bis, comma 5, prevede opportunamente che i soci che rappresentano almeno il 10% del capitale siano legittimati alla presentazione di proposte di concordato concorrenti. In tal modo i soci possono addirittura presentare un “contropiano” rispetto a quello degli amministratori. Mi sembra un intelligente compromesso che favorisce il percorso di risanamento ad opera degli amministratori, ma non impedisce ai soci non solo di esprimere la loro opinione sul piano, ma di assumere una loro iniziativa (basti pensare a un piano di continuità indiretta presentato dagli amministratori al quale i soci anche di minoranza – basta il 10% del capitale - contrappongono un piano di continuità diretta che, ove approvato, verrà eseguito dagli amministratori).
Si tratta di novità normative che favoriscono la contendibilità delle imprese, senza accantonare il ruolo dei soci, con la finalità “di tutelare l’interesse dei creditori e preservare, nella misura possibile, i posti di lavoro” (art. 84, comma 2, CCII).
5. Ma veniamo al merito della possibile proposta di concordato in continuità per lo più diretta nel quale il ricavato della continuità venga riservato ai creditori (o direttamente o attraverso la dazione di sfp) entro un certo limite di soddisfazione dei creditori stessi. Con la conseguenza che oltre tale limite la continuità produrrà benefici esclusivamente a favore dei soci.
Con riferimento alla eventuale dazione di sfp, sempre più diffusa nella prassi delle ristrutturazioni (e quasi mai utilizzata al di fuori delle procedure concorsuali), la giurisprudenza ha ormai pacificamente ritenuto che non solo sono ammesse la ristrutturazione del debiti e la soddisfazione dei crediti anche mediante sfp sotto forma di datio in solutum a favore dei creditori o di singole classi di essi, ma soprattutto che “con l’assegnazione degli sfp il concordato per quel creditore è eseguito integralmente” (v. Trib. Ravenna, 29.5.2020, in Fall., 2021, 83 con nota di Rinaldi e Trib. Roma 15.7.2020, inedita).
E la ragione del successo degli sfp nel percorso di ristrutturazione consiste fondamentalmente nella patrimonializzazione della società conseguente alla conversione di crediti in sfp (è questa la forma pressoché unanime di utilizzo degli sfp nelle ristrutturazioni) tutte le volte in cui la liquidità a disposizione della società – vuoi perché generatasi in corso di procedura dalla gestione corrente, vuoi perché frutto di dismissioni – non è sufficiente a pagare in denaro i debiti ancorché in percentuale.
Generalmente gli sfp sono destinati ai creditori finanziari, ma non ci sono limiti nella loro destinazione né con riferimento alla natura del creditore né con riferimento alla natura dei crediti. Anzi, per le banche, l’avvenuta integrale esecuzione dello strumento di ristrutturazione attraverso la dazione di un sfp potrebbe essere paradossalmente preferibile rispetto a un pagamento in denaro dilazionato. La chiusura della ristrutturazione libera, infatti, la banca dagli obblighi di accantonamento o di trasferimento a terzi del credito posti dalle autorità di vigilanza perché la ristrutturazione si è chiusa. Ovviamente la banca dovrà valutare l’sfp secondo il prudenziale valore sottostante (essendo l’sfp, come l’azione, un bene di secondo grado), per cui, ragionevolmente, in sede di conversione del credito dovrà consuntivare una perdita, ma la circostanza che la banca non sia più creditrice della società consente di chiudere un passato. Inoltre, nel momento in cui la società chiude il concordato, ritorna sul mercato anche finanziario come una qualunque società in bonis.
Con riferimento alla natura del credito convertibile in sfp non ci sono limiti: il credito può essere chirografario o anche privilegiato. Nessuna norma vieta la soddisfazione dei creditori privilegiati in modo diverso dal denaro. E l’art. 87, comma 1, lett. (d), che riprende integralmente l’art. 160, comma 1, lett. (a) L. fall., non limita in alcun modo la possibilità di soddisfare i creditori privilegiati in modo diverso rispetto al pagamento in denaro. E’ noto che sotto il vigore della legge fallimentare, questa soluzione, che già all’epoca ritenevo appropriata, era stata criticata da chi vedeva nell’obbligatorio pagamento in denaro dei privilegiati un carattere (implicito) della proposta concordataria. E a conforto di questa tesi si sosteneva che detto “pagamento” dovesse integralmente avvenire entro un anno dall’omologa (poi portato a due dal legislatore) (v. art. 186 bis L. fall.) dimenticando però che in altri articoli della legge fallimentare anche con riferimento ai creditori privilegiati si parla di “soddisfazione” (concetto ben più ampio di pagamento) (v. art. 177, comma 3: “i creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede la soddisfazione non integrale sono equiparati ai soli chirografari per la parte residua del credito”).
Sicuramente il condivisibile orientamento della Cassazione che ha previsto anche la soddisfazione ultrannuale o ultrabiennale dei privilegiati purché venga loro attribuito il diritto di voto in sede di approvazione del concordato ha costituito un elemento a favore della tesi che ammette la dazione di sfp ai creditori privilegiati purchè agli stessi venga attribuito il diritto di voto nel concordato.
E questa tesi viene confermata con forza dal codice della crisi in vari articoli, a cominciare dall’art. 85, comma 3 (i creditori privilegiati “interessati dalla ristrutturazione” sono suddivisi in classi, con la precisazione che i creditori privilegiati sono interessati dalla ristrutturazione se non vengono pagati entro 180 giorni dall’omologa o se non vengono soddisfatti in denaro) per proseguire, soprattutto, con l’art. 109, comma 5 (i creditori muniti di diritto di prelazione non votano se soddisfatti in denaro entro 180 giorni dall’omologa). Da tali norme si arguisce inequivocabilmente che anche i creditori privilegiati possono essere soddisfatti non in denaro, nel qual caso votano.
La dazione di sfp ai creditori privilegiati pone ovviamente un problema di rispetto della par condicio “residua” mantenuta nel CCII che nel concordato con continuità aziendale è declinata nell’art. 84, comma 6. Tale norma limita il rigoroso rispetto delle cause di prelazione al solo valore di liquidazione, e precisa che per il valore eccedente quello di liquidazione è sufficiente che i creditori di grado più elevato ricevano di più di quelli di grado meno elevato.
Come è noto, il titolare di sfp ha la prospettiva di ricevere il pagamento del proprio credito in misura normalmente parziale ma soprattutto il titolare di sfp non è certo di ricevere il pagamento perché lo stesso è condizionato al verificarsi di alcuni eventi societari futuri: nella maggior parte dei casi ai titolari di sfp viene destinata per un certo tempo una quota di utili fino a una determinata percentuale del credito vantato, oppure viene destinato il ricavato dalla liquidazione di determinati beni o, ancora, il ricavato dall’incasso di determinati crediti anche contenziosi. Se la società non consegue utili, non liquida i beni o non incassa i crediti, il titolare degli sfp perde la soddisfazione contenuta nello strumento che ha ricevuto in luogo del pagamento del credito. In altre parole, negli sfp di natura patrimoniale (nell’esperienza pratica lo sono tutti) i creditori non hanno diritto al rimborso dello strumento finanziario loro attribuito ma hanno diritto esclusivamente alla prestazione indicata nel titolo loro attribuito.
Come è noto, contabilmente gli sfp patrimoniali rientrano nel patrimonio netto della società e vengono iscritti in una riserva c.d. “targata” rispetto alla quale si pone il problema della sua imputazione in presenza di perdite. Le lucide argomentazioni svolte da d’attorre in due articoli pubblicati su Dir. Fall., 2017, I, 329 sia su Notariato, 2016, 268, escludono che le perdite possano azzerare le riserve “targate” sfp prima del capitale in quanto in origine il titolare dell’sfp era creditore della società e appare contrario a ogni principio giuridico che i soci possono mantenere la loro partecipazione a scapito dei creditori (seppur “trasformati” in portatori di sfp). D’Attorre dà due soluzioni condivisibili: gli sfp risentono delle perdite pari passu con i soci e, comunque, i loro diritti nei confronti della società permangono anche in caso di azzeramento della riserva “targata”. Nella prassi i regolamenti degli sfp recepiscono le conclusioni appena illustrate.
Con il codice della crisi la delibera di emissione degli sfp, normalmente di competenza dell’assemblea straordinaria, è “sostituita” ai sensi dell’art. 120 quinquies, comma 1, dal provvedimento di omologazione dello strumento di regolazione della crisi (concordato o accordo di ristrutturazione o piano di ristrutturazione soggetto ad omologa) che “determina” l’operazione societaria straordinaria (su questo e su altri punti relativi al ruolo di soci e amministratori v. Brogi, in Fall., 2022, 1290). Ovviamente, per poter efficacemente modificare lo statuto è necessario che il regolamento degli sfp sia stato preventivamente approvato conformemente alla proposta, altrimenti il provvedimento di omologa ne demanda l’adozione agli amministratori la cui inerzia può provocare la nomina di un amministratore giudiziario.
Gli sfp possono attribuire diritti amministrativi ma non il diritto di voto nelle assemblee generali dei soci. Normalmente viene riconosciuto il diritto di voto su alcune specifiche delibere assembleari e/o il diritto di nomina di un amministratore indipendente al quale vengono attribuiti alcuni diritti di veto. Talvolta agli spf viene attribuito il diritto di conversione in obbligazioni , in azioni speciali, in warrant in caso di operazioni societarie straordinarie. In tali casi che incidono sul “diritto di partecipazione dei soci”, ai sensi dell’art. 120 ter, comma 2, è obbligatoria la formazione di una classe di soci i quali votano sulla proposta ciascuno secondo la quota di capitale detenuta e con la formula del silenzio-assenso (art. 120 ter, comma 2).
Infine, il piano di concordato che preveda l’emissione di sfp, la cui dazione, si ripete, estingue il credito e rappresenta istantaneamente la soddisfazione del creditore, è bene che fornisca una stima dello strumento che viene fornito in modo da consentire al creditore una valutazione consapevole della proposta e nella prassi ciò avviene normalmente, in quanto il creditore destinatario dell’sfp è una sorta di investitore in uno strumento di rischio (tant’è vero che per le società quotate o qualora l’offerta supera i 500 destinatari si pone il problema dell’informativa ai destinatari quale sollecitazione al mercato, costantemente esclusa dalla Consob proprio a causa dell’esenzione quale operazione inserita in uno strumento di ristrutturazione).
Il problema che occorre infine porsi è il contenuto dell’attestazione in caso di proposta che preveda l’emissione di sfp. Nel vigore della legge fallimentare, quando l’art. 161, comma 3, e l’art. 186 bis, comma 2, lett. c) limitavano il compito dell’attestazione alla verifica della veridicità dei dati aziendali, alla fattibilità del piano e alla miglior soddisfazione dei creditori, si era ipotizzato (Rinaldi, il Fall. 2021, 95) che, avendo il piano esecuzione istantanea, per la parte relativa alla dazione di sfp, non si ponesse un problema di fattibilità di un piano self executing. Era una affermazione non del tutto convincente che però ora non può più essere fatta. Nel CCII, l’art. 87, comma 3, estende infatti, rispetto al passato, il compito dell’attestatore nel concordato con continuità fino a ricomprendervi non solo la verifica che il piano garantisca la sostenibilità economica dell’impresa, ma che riconosca a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale. Non c’è dubbio, quindi, che l’attestatore debba esprimersi sulla convenienza della dazione degli sfp rispetto al recupero che si potrebbe avere in sede di liquidazione giudiziale. E ritengo che analogo approfondimento debba fare anche il commissario giudiziale. Di qui la necessità che il debitore predisponga una perizia di stima degli sfp.