Nel Codice il concordato preventivo resta al centro del panorama concorsuale, essendo il più collaudato fra i mezzi di ristrutturazione delle realtà produttive[1]. La continuità è stata marcatamente riveduta. Il D.Lgs. n. 83 del 2022 ne ha operato il riposizionamento sulla carreggiata del diritto unionale, orientato verso forme di intercettazione anticipata delle difficoltà dell’impresa e selezione tempestiva di contromisure per il risanamento[2].
La rimodulazione del sistema avviene già a livello classificatorio. Il concordato viene iscritto nel recinto largo degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza di cui al nuovo art. 2, lett. m bis), nozione eterea e trasversale, che raggruppa l’intera gamma delle misure e procedure per il risanamento dell’impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale[3].
La trama delle principali norme concordatarie viene riannodata ai fili della Direttiva 2019/1023. Gli artt. 84, 85, 86 e 87 CCII cambiano volto e il concordato si veste dell’habitus eurounitario della viability[4]. Che la sostenibilità economica divenga il baricentro del diritto concorsuale si coglie già tra i principi generali del CCII. Nell’art. 3 CCII è previsto, infatti, che l’adeguatezza degli assetti organizzativi in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa sia tarata sull’esigenza costante di “verificare la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale” per i dodici mesi successivi e di rilevarne prontamente i segnali.
La nuova inclinazione del sistema nasce da una presa d’atto. La cessazione dell’attività economica deprime il valore del patrimonio dell'impresa perché fa evaporare gli investimenti programmati e gli affari in itinere, travolge gli intangibles e comporta l’immediata svalutazione dei crediti. La continuità aziendale appare per ciò stesso un obiettivo cui ambire ogni qualvolta l'impresa si mostri sostenibile, ossia capace di tornare a produrre utili in un tempo prospetticamente ristretto, coincidente con la durata ragionevole di un piano di ristrutturazione.
Nell’aprire la sequenza delle norme sul concordato, l’art. 84 CCII esibisce un contenuto polivalente. Non specifica soltanto, come da rubrica, le finalità del concordato, ma indugia sulle declinazioni della continuità aziendale, diretta o indiretta, fissando, inoltre, le condizioni in base alle quali i creditori sono soddisfatti nelle diverse tipologie concordatarie descritte[5].
Sul piano teleologico, l’incipit della norma assegna al concordato l’obiettivo di sempre, il soddisfacimento dei creditori. Un target da perseguire a schema libero, secondo modalità che sull’archetipo dell’art. 160 lett. a) L. fall. possono assumere “qualsiasi forma”, tra cui la continuità o la liquidazione del patrimonio o l’attribuzione dell’attività ad un assuntore.
Non deve ingannare che continuità e liquidazione continuino ad essere poste sul medesimo piano e che l’una sia prescelta in luogo dell’altra solo in ragione della più spiccata attitudine concreta ad approdare alla meta del soddisfacimento dei creditori. Tale meta, pur rimanendo la matrice della concorsualità concordataria, cessa di rappresentarne il totem pressoché esclusivo.
Il filo conduttore del nuovo concordato è, infatti, nella rivisitazione del rapporto – finora subordinato e recessivo, adesso almeno tendenzialmente paritetico – fra continuità aziendale e salvaguardia dei diritti dei creditori.
La prosecuzione dell’impresa non è più cinghia di trasmissione tra procedura concorsuale e tutela del credito. La continuità ora semplicemente “tutela l’interesse dei creditori”, il che vuol dire che non arretra rispetto a quest’ultimo, ma con esso tende almeno in linea di principio ad amalgamarsi.
L’interesse creditorio – al cui conseguimento nella norma originaria era indirizzata la mission concordataria del ripristino dell’equilibrio economico-finanziario dell’impresa – perde l’attributo di “prioritario”. Ciò testimonia come la difesa del going concern attraverso il recupero della viability sia un valore biunivoco rispetto alla tutela del credito; rispetto ad esso, d’altronde, gravita una somma rilevante di posizioni investite dal dissesto dell’impresa, tra cui quelle dell’imprenditore e dei soci.
Il presupposto oggettivo dell’istituto concordatario rimane quello consueto, occorrendo che l’imprenditore versi alternativamente in condizione di crisi o in stato di insolvenza[6]. La proponibilità ai creditori di un piano idoneo a soddisfare consorsualmente i creditori postula l’una o l’altra evoluzione dello squilibrio economico-finanziario. La versione del comma 1 dell’art. 84 rieditata dal D.Lgs. n. 83 del 2022 non contiene più, tuttavia, il succinto rimando al soddisfacimento dei creditori; di tale finalità si premura di chiarire sin da subito il parametro di raffronto, individuandolo nella “misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale”.
Il concordato in continuità, in particolare, mira ora ad assicurare al tempo stesso la sostenibilità economica dell'impresa e ad attribuire a ogni creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello ritraibile nell’evenienza liquidatoria.
La doppia finalità è lumeggiata dall’art. 87, comma 3, CCII sul contenuto del piano, che adesso onera il debitore di depositare a corredo della domanda d’accesso alla procedura la relazione di un professionista indipendente attestativa dell’attitudine del piano a impedire o superare il dissesto, supportando la viability e riconoscendo simultaneamente a ciascun creditore un trattamento che ribadisce necessariamente non inferiore rispetto a quello ottenibile nell’alveo della liquidazione giudiziale[7].
La clausola del miglior soddisfacimento dei creditori cessa di rappresentare un principio limitativo dell’accesso al concordato in continuità, scomparendo dal palinsesto delle relative norme e cedendo il passo al meno intransigente criterio dell’assenza di pregiudizio[8].
A fronte dell’art. 186 bis, comma 2, L. fall. che commissionava al professionista attestatore una prognosi di funzionalità della prosecuzione dell'impresa alla maggior soddisfazione possibile per i creditori, quindi la stima ragionata di un risultato per loro ottimale, l’art. 87 CCII abbassa la soglia delle pretese. La norma si accontenta dell’attestazione di un risultato equipollente a quello raggiungibile sullo sfondo della liquidazione giudiziale.
Non si tratta di un aspetto di poco momento. Nel quadro dell’art. 186 bis L. fall. la verifica dell’attestatore era tesa ad appurare che la continuità aziendale generasse valore rispetto alla liquidazione, e che in base alla proposta del debitore detto valore fosse messo almeno pro quota a disposizione dei creditori. Quale che fosse la forma di continuità prescelta, la relazione attestativa doveva certificare la convenienza dell’ipotesi concordataria per i creditori (comma 2, lett. b). Ciò implicava che l’esercizio d’impresa dovesse obbligatoriamente generare un quid pluris rispetto alla liquidazione e che almeno una parte di esso dovesse ridondare a beneficio dei titolari delle pretese. Perciò, non occorreva solo che una parte dell’impresa rimanesse in esercizio, ma che ciò creasse più proficue opportunità di soddisfazione per i creditori. Vi era un persistente collegamento della continuità al miglior soddisfacimento dei creditori, che finiva per atteggiarsi a presupposto di ammissibilità della domanda concordataria[9].
La pregnanza della tutela del credito erompeva, del resto, anche al comma 7 dell’art. 186 bis, che legittimava il tribunale a dare impulso al procedimento di revoca dell’ammissione al concordato allorché l’esercizio dell’attività d’impresa fosse cessato o risultasse “manifestamente dannoso per i creditori”.
Nell’economia dell’art. 87, comma 3, CCII l’elemento rappresentato da valore aggiunto della continuità viene scardinato e la consistenza economica della prestazione offerta, i tempi di adempimento e l’utilità economicamente rilevante prospettati nei confronti dei creditori sono scrutati in relazione al solo scenario underground della liquidazione giudiziale. Non rileva l’impellenza di una valutazione in termini assoluti, correlata all'ammontare del debito, quanto un apprezzamento parametrato alla misura del soddisfacimento ricavabile nello scenario “fallimentare”, avuto riguardo all’entità del patrimonio monetizzabile al momento del deposito della proposta concordataria.
In termini ancor più espliciti, nella primigenia versione dell’art. 84 CCII, affinché il mantenimento della continuità aziendale e il ripristino dell’equilibrio economico-finanziario fossero intonati all’interesse dei creditori e non perseguiti in loro pregiudizio, la continuità avrebbe dovuto innescare un valore supplementare rispetto a quello correlato all’alternativa della liquidazione giudiziale. Pertanto, l’impresa avrebbe dovuto alternativamente essere in grado di produrre utili immediati o di tornare a produrli in un tempo breve, realizzando flussi finanziari tali da permettere di soddisfare progressivamente i creditori in misura maggiore rispetto a quella ottenibile con la vendita immediata degli assets patrimoniali. L’eliminazione del riferimento al miglior soddisfacimento dei creditori implica ora un confronto a “bocce ferme”, che fa venir meno la necessità di reperire un qualsiasi appannaggio prospettivo dei creditori, implicando solo l’esigenza di rintracciare un risultato all’attualità per loro non penalizzante.
L’assenza di pregiudizio allarga il territorio del going concern, privando di rilievo alternative possibili diverse dal perimetro fallimentare, l’unico entro il quale i creditori sarebbero legittimati a trascinare il debitore inadempiente. È un punto decisivo: quand’anche fosse ipotizzabile un trattamento più favorevole per i creditori in un alternativo scenario negoziale, esso non avrebbe rilevanza alcuna nell’ottica valutativa del tribunale[10].
Il principio dell’equivalenza del trattamento in luogo della miglior soddisfazione si riaffaccia anche nel successivo art. 88 CCII in materia di trattamento dei crediti fiscali e contributivi. Sull’onda della continuità, nei concordati non liquidatori pure erario ed enti di previdenza perdono la rassicurazione della maggior convenienza, dovendo accontentarsi del trattamento non deteriore.
Il “miglior soddisfacimento dei creditori”, benché non condizioni più l’accesso al concordato, continua, già in virtù della presentazione della domanda e fino all’omologa, permea la gestione dell’impresa. La disciplina delle autorizzazioni al compimento degli atti di straordinaria amministrazione, contenuta nell’art. 94 CCII, dà evidenza del come il c.d. “spossessamento attenuato” effetto del concordato postuli un esercizio dell’attività economia in grado di armonizzare libertà d’impresa e aspettative dei creditori.
Sempre in un’ottica finalistica, l’art. 84, comma 1, CCII, prevede che il concordato preservi “nella misura possibile, i posti di lavoro”. Sono state valorizzate le tante controindicazioni emerse e si è azzerata la controversa norma sul rispetto dei livelli occupazionali dell’ultimo biennio come elemento fondante una presunzione di continuità[11]. La via eletta è ora quella di una ben più elastica mozione d’ordine. Il concordato non insegue più un obiettivo algebrico, ma al più si incarica, nei margini entro cui i numeri lo consentano, di sfumare gli effetti della crisi per i più fragili fra i soggetti coinvolti. L’impresa è una realtà della quale i lavoratori rappresentano un valore immanente che la dissoluzione dell’azienda disperderebbe. La salvaguardia delle loro posizioni è aspetto suscettibile di positivo riverbero sull’economia in generale. La norma di nuovo conio, tuttavia, al pari del considerando n. 2 della Dir. 1023/2019 cui si ispira, sembra simmetricamente priva di un reale valore precettivo[12]. Che la norma finisca per risolversi in un pur lodevole auspicio si comprende dall’assenza di un criterio utile a conteggiare il “possibile”, a meno di non adottare come parametro di raffronto ancora una volta la liquidazione giudiziale, comodamente argomentando che in quell’evenienza i lavoratori finirebbero, per il calcolo delle probabilità, con l’esser licenziati tutti.
Alla centralità assunta dalla continuità aziendale e dalla viability si lega la prescrizione di cui all’art. 87, lett. f, CCII, che esige a livello di contenuto del piano l'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività di impresa, delle risorse finanziare indispensabili e delle relative modalità di copertura. La disposizione assicura una discosure integrale sullo stato di salute dell’impresa e sulla sua dimensione operativa. L’ostensione di tutti i dati permette di comprendere, sulla scorta di una previsione ragionevole, innanzitutto, se la prosecuzione dell’attività economica sia prognosticamente redditizia e il superamento della crisi raggiungibile; nel contempo, se il percorso prescelto valga ad assicurare, sul piano dei numeri, una qualche forma di soddisfazione per i creditori.
Il piano deve tra l’altro esplicitare, ex art. 87, lett. i, CCII “le iniziative da adottare nel caso di scostamento dagli obiettivi pianificati”. È in ammessa, in tal modo, “la previsione di ‘piani B’” [13], con un eloquente favor per le soluzioni di regolazione concordata della crisi secondo i modelli liquidi della continuità aziendale. La disposizione, tuttavia, non è soltanto la conferma della legittimità di piani che adombrano soluzioni alternative per l’ipotesi in cui, arenandosi il programma principale, s’imponga come doveroso un cambio di rotta. Il precetto è la positivizzazione dell’obbligo di stress test per ciascuna impresa che aspiri alla concorsualizzazione concordataria dei debiti. Delineare le iniziative in rapporto agli scostamenti significa, infatti, simulare la capacità del soggetto di fronteggiare gli scenari avversi, misurandone i riflessi sull’operatività dell’impresa e gli effetti in termini di contrazione di liquidità, redditività e patrimonializzazione. L’impresa è chiamata ad illustrare attraverso quali interventi governerebbe, in termini di sana e prudente gestione, prestabilite congiunture sfavorevoli, rischi di recessione, pericoli di chiusura o di rallentamento dei mercati, emergenze internazionali, penetrazioni sul mercato di prodotti concorrenziali, aumenti dei costi del denaro, dell’energia e delle materie prime.
Il rango di extrema ratio della liquidazione giudiziale si coglie anche in una disposizione d’impatto simbolico, l’art. 53 CCII, che viene arricchito di un comma 5 bis, a mente del quale la sentenza di omologazione del concordato in continuità resiste addirittura all’accoglimento del reclamo, di fatto vanificandolo. Ciò succede qualora l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevalga, per così dire “ai punti”, sul pregiudizio subito dall’impugnante. Il riferimento spazioso all’interesse generale, unito a quello dei dipendenti dell’impresa, è evocativo dell’opportunità della prosecuzione dell’attività economica e dell’esigenza collettivamente avvertita di un mantenimento delle posizioni, opportunità ed esigenza sulle quali la situazione creditoria del singolo finisce per infrangersi quando portatrice di una minuta ragione.