Nell’unico precedente giurisprudenziale noto l’interrogativo è stato risolto positivamente sulla base della considerazione che “il fallimento ed il concordato con cessione dei beni hanno il medesimo obiettivo, ovvero la liquidazione dell’impresa, e non la sua continuazione” oltre che molti altri “punti in comune” di tal che non vi sarebbe “motivo, se si vuol [volesse] dare della norma un’interpretazione costituzionalmente orientata, che ne rispetti, appunto, la ratio, per non far rientrare sotto il dominio della stessa … il concordato preventivo con cessione dei beni” [19].
Le conclusioni cui sono giunti i giudici tributari emiliani appaiono, pur nella loro sinteticità, convincenti per le ragioni che saranno esposte, e che saranno illustrate avuto riguardo principalmente alle critiche mosse dal commento che ha accompagnato la pubblicazione della suddetta sentenza[20].
Sulla eadem ratio delle due procedure va sgombrato subito il campo dall’equivoco che il concordato preventivo con cessione dei beni determini in capo al debitore un mero “spossessamento attenuato”, affermazione che, come abbiamo già in precedenza spiegato, vale solo per la fase strettamente procedurale intercorrente tra il deposito della domanda e il decreto di omologazione, ma non certo successivamente a questo momento, quando la disponibilità dei beni ceduti passa, proprio in forza del decreto di omologazione, in capo al liquidatore giudiziale, che li porrà sul mercato nell’interesse dei creditori al fine di assicurare loro il soddisfacimento offerto dal debitore con la proposta di concordato.
Significativo a riguardo l’arresto della Corte di cassazione – correttamente richiamato, nella sua esatta portata, dai giudici emiliani – che aveva negato, poco tempo prima, l’applicabilità della norma in questione alla procedura di amministrazione straordinaria in considerazione della diversa finalità che la contraddistingue rispetto al fallimento: la conservazione del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali e non la sua liquidazione[21]. Ovviamente le stesse considerazioni valgono rispetto alla liquidazione giudiziale.
Confermata l’esistenza di una medesima finalità, e anche di identiche procedure di liquidazione dell’attivo e di distribuzione del suo ricavato ai creditori, occorre domandarsi quali potrebbero essere le ragioni che ostano all’applicazione del disposto del comma 768 dell’art. 1, L. 27 dicembre 2019 – apparentemente riservato al “fallimento” e alla liquidazione coatta amministrativa – anche alla fase della liquidazione dei beni del concordato preventivo.
Si potrebbe sostenere, in antitesi a quanto abbiamo argomentato nel paragrafo precedente, che la norma, integrando una deroga al regime impositivo generale, sia da ritenersi di stretta interpretazione, ai sensi dell'art. 14 preleggi, e quindi non suscettibile di applicazione analogica[22]. Come noto, però, estendere l’applicazione di una determinata norma a fattispecie simili non significa sempre ricorrere al rimedio dell’interpretazione analogica: “non semplicemente perché una disposizione normativa non preveda una certa disciplina, in altre invece contemplata, costituisce ex se una lacuna normativa, da colmare facendo ricorso all'analogia ai sensi dell'art. 12 preleggi. Ciò tanto più quando si tratti di estendere l'applicazione di una disposizione specifica oltre l'ambito di applicazione delineato dal legislatore, ovvero di applicarla "analogicamente" a vicenda concreta da questi non contemplata ed in presenza di diversi presupposti integrativi della fattispecie”[23].
Si è, infatti, affermato, che l'art. 14 delle preleggi vieta – e solo negli specifici casi ivi contemplati – unicamente l’interpretazione analogica e non quella estensiva. L'interpretazione estensiva, infatti, non è altro che il riconoscimento degli esatti confini d'attività della legge, i quali di primo impatto possono apparire più limitati. Rifiutare l'interpretazione estensiva della legge significherebbe, infatti, restringerne arbitrariamente la portata.
Non solo. La giurisprudenza di legittimità ha anche affermato che in materia tributaria l'interpretazione analogica non sarebbe affatto esclusa, in quanto le norme fiscali non appartengono alle categorie contemplate dall'art. 14 preleggi[24]; piuttosto essa troverebbe un ostacolo alla sua applicazione nella loro formulazione solitamente rigida[25].
L' interpretazione estensiva – che tende, cioè, a comprendere nella portata concreta della norma tutti i casi da essa anche implicitamente considerati, quali risultanti non solo dalla lettera ma anche dalla ratio della disposizione – è stata sempre ritenuta ammissibile, sia con riguardo alle norme di imposizione[26], sia alle disposizioni - queste sì di natura derogatoria e quindi eccezionale - che accordano benefici fiscali[27].
Analogamente è stato ritenuto anche riguardo alla cd. interpretazione evolutiva, la quale si limita a adeguare la formula legislativa ai mutamenti (economico-sociali o tecnici) intervenuti nel tempo. Nel caso specifico, la specialità sempre più marcata impressa dal legislatore alle regole del concordato con cessione dei beni, rispetto alle altre tipologie di concordato, via via sempre più conformate in guisa di quelle “fallimentari”, con assonanze certamente assenti ai tempi – l’anno 1992 – in cui il sesto comma dell’art. 10 del D.lgs. n. 504 – i cui contenuti sono stati pedissequamente traslati nel comma 768 dell’art. 1, L. 27 dicembre 2019, era venuto alla luce[28].
È, dunque, sulla base di una interpretazione estensiva/evolutiva che le positive conclusioni raggiunte nell’unico precedente giurisprudenziale conosciuto possono essere ampiamente condivise; nel senso che, come ivi si afferma, sarebbe costituzionalmente irragionevole ritenere, nell’ambito di identiche regole di distribuzione dell’attivo rinveniente dalla liquidazione dei beni, che il pagamento dell’IMU prededucibile debba avvenire in tempi diversi nel concordato con cessione dei beni rispetto a quelli fissati per il fallimento/liquidazione giudiziale.
Una diversa regola di distribuzione del ricavato dell’attivo mobiliare potrebbe giustificarsi, sotto il profilo della sua ragionevolezza costituzionale, solo se le due diverse procedure fossero contraddistinte da procedimenti di ripartizione dell’attivo informati a principi diversi, tra loro non conciliabili.
Così, abbiamo già visto, però, non essere, giacché in entrambe le procedure la ripartizione dell’attivo avviene nel pieno rispetto della graduazione delle legittime cause di prelazione e, dunque, seguendo l’ordine di distribuzione delle somme di cui all’art. 111 L. fall. (ora art. 221 CCII), norma i cui principi, seppure non richiamati esplicitamente nel corpo dell’art. 182 L. fall. (ora art. 114 CCII), si è sempre ritenuto dover regolare anche le ripartizioni concordatarie, e ciò in forza della universalmente riconosciuta natura di procedura concorsuale del concordato preventivo, oltre che in considerazione della specifica disposizione contenuta nell’art. 85, quarto comma, CCII (già art. 160, secondo comma, L. fall.) in tema di classi, la cui formazione, come è noto, non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione.
Il rispetto di tale graduazione dovrà caratterizzare non solo la proposta, bensì anche la fase esecutiva dei pagamenti post omologa.
Inoltre, non pare assolutamente eccentrico ritenere che il comma 768 dell’art. 1, L. 27 dicembre 2019, così come il vecchio sesto comma dell’art. 10 del D.lgs. 504, vadano ad integrare, ciascuna ratione temporis,modificandole parzialmente, le disposizioni dell’art. 111 L. fall./art. 221 CCII, la cui autonoma applicazione, diversamente, pretenderebbe che anche nella liquidazione giudiziale il pagamento dell’IMU prededucibile avvenga alla sua scadenza naturale.
Se le regole sull’ordine di distribuzione delle somme fissate dall’art. 111 L. fall./art. 221 CCII si applicano anche al concordato con cessioni dei beni, appare difficile scovare una ragione, costituzionalmente fondata, per cui una norma che vi deroghi e che, in buona sostanza, le integra, non debba anch’essa essere estesa al concordato.
Per altro, sussistono altre ragioni sistematiche per predicare l’estensione della disposizione in questione anche al concordato preventivo con cessione dei beni.
Ad esempio, nell’ipotesi di un concordato di una società immobiliare, la provvista utile al soddisfacimento dei creditori e delle spese di amministrazione dei beni ceduti, IMU compresa, potrebbe pervenire solo dalla vendita degli immobili, sicché non estendere la possibilità differimento del pagamento del tributo a tale momento, introdurrebbe un incremento surrettizio del passivo prededucibile da soddisfare costituito dalle sanzioni e dagli interessi che il liquidatore dei beni dovrebbe pagare in assenza della relativa provvista. Un incremento in ontologica antinomia con la finalità della procedura: il soddisfacimento dei creditori tramite il realizzo dei beni ceduti.
Ancora, si potrebbe osservare che se i creditori potessero davvero contare in un più tempestivo soddisfacimento nell’ipotesi “fallimentare” – dove quanto realizzato dall’attivo mobiliare non sarebbe inciso dal prelievo dell’IMU post omologa – rispetto a quello che offrirebbe loro il concordato, si aprirebbe una falla nel sistema per cui una soluzione concordata sia della crisi sarebbe sempre, ex se, non competitiva rispetto a quella “fallimentare”, e ciò, non in ragione della possibilità di ampliare l’attivo ceduto per via di azioni recuperatorie esercitabili solo nel “fallimento”, bensì in ragione di un diverso “deteriore” trattamento, seppure solo in termini temporali, riservata a una specifica categoria di creditori nella liquidazione giudiziale. Evidente come la massa degli altri creditori, opportunamente informata a riguardo dal commissario giudiziale, tenderebbe sempre a preferire il fallimento al concordato con cessione dei beni.
Ciò che si vuol far osservare con quest’ultima annotazione, è come non sia affatto ragionevole, sotto il profilo costituzionale, sostenere che i criteri di soddisfacimento di un singolo creditore possano variare per disposizione legislativa a seconda della procedura prescelta dal debitore: concordato con cessione dei beni o liquidazione giudiziale.
Da ultimo va affrontato un altro equivoco che sorregge la diversa opinione che ha criticato l’unico precedente giurisprudenziale conosciuto, ossia che l’ente impositore possa incorrere nel rischio di decadenza delle proprie funzioni di accertamento ed esazione ove i tempi della vendita degli immobili perdurasse oltre i termini fissati dalla legge per il loro esercizio[29]. Si tratta di un argomento fallace. Infatti, come chiarito ancora di recente dalla Corte di cassazione, gli enti impositori, fermo il divieto di agire in executivis in costanza di una procedura di concordato preventivo, ben possono compiere tutti gli atti interruttivi dei termini di decadenza/prescrizione, anche tramite l’iscrizione a ruolo del tributo con notifica della relativa cartella di pagamento[30], fermo che la disposizione che ci occupa incide solo sui tempi di pagamento del tributo e non sui presupposti dell’obbligazione tributaria sottostante.