Saggio
Osservazioni chiaroscurali sui risvolti giuslavoristici della procedura di composizione negoziata*
Fabrizio Aprile, Consigliere della Corte d’Appello di Torino
3 Novembre 2021
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Sommario:
Ciò precisato, si tratta ora di mettere a fuoco l’esatta portata dell’informazione dovuta alle organizzazioni sindacali. Il fatto stesso che ne sia ribadito l’obbligo è una delle cose più piacevoli, pur essa in linea con i princìpi della citata Dir. 2019/1023/UE; anche senza scomodare questa direttiva, si rammenta che un obbligo del tutto simile è già sancito dal (misconosciuto) D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 25 (recante l’attuazione della Dir. 2002/14/CE), che impone alle imprese con più di cinquanta dipendenti (!) di informare i sindacati delle decisioni “che siano suscettibili di comportare rilevanti cambiamenti dell’organizzazione del lavoro [e] dei contratti di lavoro” – per cui, in verità non si è di fronte a nulla di radicalmente nuovo.
Risulta abbastanza chiaro che i soggetti sindacali destinatari dell’onere informativo, secondo il richiamo all’art. 47, comma 1, L. n. 428/1990 (dettato nella tutt’altra materia di trasferimento d’azienda), sono le r.s.u. o le r.s.a. ex art. 19 Statuto dei Lavoratori costituite presso le unità produttive interessate, nonché i sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato dall’impresa – mentre “in mancanza delle predette rappresentanze aziendali, resta fermo l’obbligo di comunicazione nei confronti dei sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi”; non è altrettanto chiaro, invece, quali debbano essere le “rilevanti determinazioni” da comunicare alla parte sindacale. L’ambito del possibile intervento determinativo dell’imprenditore è definito, in prima battuta, in maniera ‘negativa’ e residuale, trattandosi di quelle materie per le quali non sono previste altre e diverse procedure informative e consultive – sicché ne rimane escluso un larghissimo spettro che spazia dalla cessione d’azienda ai licenziamenti collettivi (le cui specifiche procedure di consultazione sindacale sono quelle disciplinate, rispettivamente, dal citato art. 47 L. n. 428/1990 e dagli artt. 4 e 24 L. 23 luglio 1991, n. 223), dalla cassa integrazione guadagni ai contratti di solidarietà e al distacco collettivo, finanche ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo “economico”, la cui irrogazione deve essere assistita dalla procedura prevista dall’art. 7 L. 15 luglio 1966, n. 604. Non devono essere necessariamente procedure di consultazione di fonte legislativa, potendo discendere anche dai contratti collettivi “di cui all’articolo 2, comma 1, lettera g), del [riesumato] decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 25”, rinvio stereotipico ai contratti stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; a dire il vero il richiamo a tale norma appare un tantino anacronistico, poiché, invece, sarebbe stato più utile e doveroso rinviare all’art. 51 D.Lgs. n. 81/2015, il quale – e il dato è estremamente rilevante e, per certi aspetti, anche grave – richiama non solo i contratti collettivi nazionali ma anche quelli aziendali stipulati dalle r.s.u. o dalle r.s.a., che invece, ai sensi dell’altra norma, resterebbero esclusi.
È da notare, fra l’altro, come le determinazioni dell’imprenditore sulle quali insiste l’obbligo informativo debbano incidere “sui rapporti di lavoro”, non propriamente (e formalmente) sul contratto di lavoro in sé considerato e, quindi, anche ben oltre l’eventuale perimetro creditorio; devono, cioè, essere idonee a incidere apprezzabilmente sul quotidiano ménage lavorativo e, pertanto, anche iniziative su aspetti non regolamentati contrattualmente con i lavoratori (si pensi, ad esempio, alla soppressione di un certo servizio aziendale, alle modifiche strutturali apportate al capannone industriale o agli uffici, alla cessazione di un appalto endoaziendale) dovrebbero essere oggetto della previa informazione sindacale. In questo senso, l’espressione “rilevanti determinazioni” è di scarsissimo aiuto, perché è arduo dire cosa sia irrilevante nei rapporti di lavoro, ove tutto, in verità, è importante e cose anche di trascurabile valore oggettivo possono nondimeno rivestire un forte significato simbolico; se non fosse esagerato, si potrebbe dire che nel mondo del lavoro vale il principio paretiano degli effetti che sopravanzano le loro stesse cause, giacché la qualità delle relazioni sindacali prevale sovente sul dato quantitativo. È, dunque, un’espressione insidiosa e troppo generica che si presta facilmente a malintesi hinc et inde [3]. Così come l’altrettanto infelice espressione “pluralità di lavoratori”, che – oltre a negare un sicuro riferimento oggettivo e a offrire, invece, un seducente criterio numerico simile a quello usato dalle popolazioni amazzoniche che contano solo con la scansione “uno-due-molti” – non chiarisce se la “pluralità” vada intesa in senso assoluto, per cui varrebbe anche solo per due lavoratori (e, francamente, sembra un po’ poco) o in senso relativo (nel senso, cioè, di parte maggiore di un quantum determinato), per cui varrebbe per la maggioranza dei lavoratori occupati nel settore aziendale interessato dalla determinazione datoriale (e, francamente, sembra un po’ troppo).
La norma, come se non bastasse, tace inoltre sul contenuto della comunicazione da far pervenire alle associazioni sindacali. Poiché, secondo le prescrizioni ‘etiche’ indicate all’art. 4, commi 4, 5 e 7, le parti impegnate nelle trattative compositive devono fare le brave e comportarsi secondo buona fede e correttezza, e poiché grava sull’imprenditore un preciso obbligo di parresia, essendo tenuto a “rappresentare la propria situazione all’esperto, ai creditori e agli altri soggetti interessati in modo completo e trasparente”, la comunicazione alle parti sociali non può evidentemente risolversi in una mera indicazione di stile della determinazione da compiersi, ma deve fornirne una descrizione analitica ed esaustiva ed esplicitare, in riferimento pseudo-analogico all’art. 47, comma 1, L. n. 428/1990 (cui pure l’art. 4, comma 8 dimostra d’ispirarsi), la data in cui ne è prevista l’attuazione, l’eventuale durata, le conseguenze giuridiche, economiche e sociali che essa comporta sui lavoratori interessati e le eventuali misure previste per questi ultimi. Peraltro, anche questo non sarebbe in sé sufficiente (e, soprattutto, non sarebbe serio e non consentirebbe un’adeguata verifica critica e un adeguato monitoraggio delle intenzioni datoriali) se i rappresentanti dei lavoratori non fossero stati “a monte” informati (a prescindere, perciò, dalla specifica determinazione che li riguarda) dello stato delle trattative di composizione in corso con gli altri creditori (nei limiti di quanto l’imprenditore non ritenga, fondatamente, di assoggettare a vincolo di riservatezza), non avessero potuto visionare la documentazione allegata all’istanza di nomina dell’esperto[4] e non avessero ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del datore e sul complessivo piano industriale e finanziario che questi intende adottare per scongiurare la crisi o l’insolvenza.
Si può anche arrivare a dire di più: poiché le “rilevanti determinazioni” lavoristiche (come si vedrà infra, n. 5) non sono poi tanto diverse da quelle rinegoziative previste dall’art. 10, allora non c’è un ragionevole motivo per escludere (se non con grossi dubbi di compatibilità costituzionale) che pure le prime, lungi dal poter essere estemporanee e decontestualizzate, debbano invece dimostrarsi indispensabili e funzionali “alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori”.
Note: