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Commento

I versamenti a un fondo di previdenza integrativa, l’ammissione del credito del lavoratore a una procedura concorsuale e gli accessori

Enrico Gragnoli, Ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Parma

9 Settembre 2021

Visualizza: Cass., Sez. Un., 9 giugno 2021, n. 16084, Pres. Spirito, Est. Torrice

I versamenti del datore di lavoro nei fondi di previdenza complementare, sia che il fondo abbia personalità giuridica autonoma, sia che consista in una gestione separata del datore di lavoro stesso, hanno natura previdenziale e non retributiva. 
Al credito correlato alle contribuzioni dei datori di lavoro ai fondi di previdenza complementare non è applicabile il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria e di interessi previsto dall’art. 16, comma 6, della L. n. 412/1991, in quanto il trattamento non è corrisposto da un ente gestore di forme di previdenza obbligatoria, ma da un datore di lavoro privato. 
Nella procedura della liquidazione coatta amministrativa, in virtù dell’art. 55 del regio decreto n. 267/1942, dell’art. 201 dello stesso regio decreto e dell’art. 83, comma 2, del decreto legislativo n. 385/1993, nel testo applicabile ratione temporis, il corso di interessi e di rivalutazione monetaria sui crediti non assistiti da privilegio si deve arrestare alla data del provvedimento che abbia disposto la liquidazione (principi di diritto ricavati dalla sentenza). 
Riproduzione riservata
1 . La natura previdenziale e non retributiva del credito del lavoratore in ordine a versamenti a un fondo di previdenza integrativa
L’importante sentenza è stata provocata da una delle ripetute questioni sollevate con riguardo a una procedura siciliana di liquidazione coatta amministrativa. Si discute dell’ammissione allo stato passivo del credito di un lavoratore relativo ai contributi non versati al fondo pensionistico integrativo dal datore di lavoro, poi sottoposto a liquidazione. Sulla base della decisione del giudice di secondo grado[1], il credito era stato ammesso in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis cod. civ.. Inoltre, erano stati ammessi il credito agli interessi legali fino al saldo e quello alla rivalutazione monetaria sino alla data di deposito dello stato passivo. A dire il vero, il problema inerente alla complessiva natura del credito e, quindi, all’applicabilità dell’art. 2751 bis cod. civ. era alquanto scontato (poiché il giudice di secondo grado aveva disatteso una consolidata giurisprudenza di legittimità), mentre lo stesso non si sarebbe potuto affermare per i complessi profili attinenti agli accessori, in una necessaria e delicata composizione dei principi di diritto previdenziale e di matrice fallimentare. La decisione non ha deluso le attese. 
Sulla natura previdenziale dei versamenti al fondo di previdenza integrativo, il dibattito era stato acceso molti anni fa e aveva portato a discutibili pronunce di legittimità[2], ma la questione era stata risolta da due fondamentali decisioni, la prima inerente alla mancata computabilità dei versamenti nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto[3], la seconda all’impossibilità di invocare l’art. 16, sesto comma, della legge n. 412 del 1991, in ordine al divieto di cumulo fra interessi e rivalutazione[4]. Del resto, per la stessa giurisprudenza costituzionale[5], la previdenza integrativa risponde agli obbiettivi dell’art. 38, secondo comma, cost.[6], che non si possono confondere con gli scopi dell’art. 36, primo comma, cost., a proposito della retribuzione sufficiente e proporzionata. Né si sarebbe potuto rivendicare ai versamenti al fondo di pensione natura di retribuzione differita[7], poiché ciò si sarebbe dovuto dire di tutti i … pagamenti effettuati in relazione a contributi, fermo il fatto che il destinatario non era il lavoratore, ma un terzo[8]. Quindi, i versamenti rispecchiano una funzione previdenziale[9], né vi è alcuna incompatibilità tra tale oggettiva connotazione e il carattere privatistico dell’intervento, appunto fondato sull’art. 38, secondo comma, cost.[10]. 
Il consolidarsi della tesi nella visione della Corte costituzionale[11] ha contribuito al suo affermarsi nella giurisprudenza di legittimità[12], seppure con qualche difficoltà[13]. In realtà, il problema era di soluzione molto più facile di quanto si potrebbe immaginare a vedere un così intenso dibattito, poiché i pagamenti effettuati dal datore di lavoro non vanno al prestatore di opere, il quale non ha diritto alle somme in quanto tali neppure all’estinzione del suo rapporto di lavoro, così che non è convincente richiamare il concetto di retribuzione differita. Il dipendente ha diritto a eventuali prestazioni, appunto previdenziali, calcolate sulla base della disciplina del fondo e a seconda delle sue vicende, come infine riconosciuto in modo persuasivo[14]. Non è chiaro perché, nel caso di specie, il giudice di secondo grado non si sia attenuto a tale principio, oltre tutto senza dare una innovativa motivazione del suo contrario avviso, a quanto si ricava dalla decisione in esame. 
Questa non ha addotto argomentazioni originali e, a dire il vero, non ve ne era alcuna necessità, confermando[15] che la previdenza obbligatoria e quella integrativa o complementare sono diverse per il “carattere generale, necessario e non eludibile della prima, a fronte della natura eventuale delle garanzie della seconda”, fonte “di prestazioni aggiuntive rivolte a vantaggio esclusivo delle categorie di lavoratori aderenti ai patti incrementativi dei trattamenti ordinari”[16]. Anzi, si è ricordato come lo stesso principio di diritto fosse stato enunciato in numerose sentenze originate dalla procedura coinvolta nella specifica vicenda[17], fermo il fatto che l’art. 9 bis, primo comma, della legge n. 166 del 1991 esclude che i versamenti ai fondi di pensione rientrino nell’imponibile previdenziale, salvo un ridotto contributo di solidarietà del dieci per cento[18]. 
Da tale qualificazione dei versamenti del datore di lavoro deriva l’inesistenza di alcun privilegio applicabile, poiché l’art. 2751 bis, n. 1, cod. civ. riguarda i crediti retributivi e gli artt. 2753 e 2754 cod. civ. attengono a quelli di natura previdenziale, ma degli enti pubblici[19]. Se mai, il legislatore si dovrebbe chiedere se non si debba intervenire con la fissazione di un ulteriore privilegio, con specifica considerazione dell’ipotesi di mancato versamento al fondo di pensione integrativa o complementare. Una simile iniziativa normativa sarebbe giustificata, ma non vi sarebbe stato spazio per la rimessione della questione alla Corte costituzionale, poiché il punto rinvia alla discrezionalità del legislatore stesso, se non altro perché non può essere dedotta dal sistema la collocazione dell’eventuale privilegio nella trama e nella graduazione di quelli esistenti. Pertanto, la decisione è condivisibile. 
2 . Gli accessori del credito del lavoratore e la contrapposizione fra sistemi di previdenza pubblica e privata
Alla mancanza di natura retributiva dei versamenti ai fondi di pensione integrativa si aggiunge l’inapplicabilità dell’art. 16, sesto comma, della legge n. 412 del 1991 e, anche sul punto, il compito della sentenza è stato abbastanza semplice, poiché la questione era stata risolta nella giurisprudenza di legittimità[20], secondo un orientamento consolidato[21]. Se l’art. 16, sesto comma, della legge n. 412 del 1991 mira al riequilibrio delle spese degli enti previdenziali pubblici[22], non si vede perché dovrebbe essere applicato ai fondi di pensione integrativa, del resto in sintonia con le tesi della Corte costituzionale, la quale ha confermato il necessario operare della disposizione solo a favore degli enti pubblici[23]. 
La decisione si attiene alle indicazioni tradizionali e fa bene, osservando che “la previdenza complementare presenta, pure sempre, caratteristiche strutturali che la differenziano rispetto a quella obbligatoria: le risorse necessarie al perseguimento delle sue finalità sono estranee al bilancio pubblico”[24], così che “non trova applicazione, sui crediti correlati alla contribuzione e alle (…) prestazioni, il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria e interessi”[25]. La tesi è persuasiva, soprattutto per l’esatta ricostruzione dell’azione proposta dal lavoratore, ai sensi dell’art. 10 del decreto legislativo n. 124 del 1993[26], per cui, in caso di cessazione del fondo, si provvede al “riscatto della posizione individuale” o, sulla base dell’art. 11, A PROPOSITO DELLA “intestazione diretta della copertura assicurativa in essere per coloro che fruiscono di prestazioni in forma pensionistica”. Tali istituti sono nel perimetro del sistema previdenziale, seppure privato, con la connessa impossibilità di invocare l’art. 16, sesto comma, della legge n. 412 del 1991[27], funzionale al soddisfacimento di interessi finanziari pubblici. 
3 . Il mancato maturare degli interessi e della rivalutazione sul credito del lavoratore in pendenza della procedura di liquidazione coatta amministrativa e a fini del concorso
Se mai, con riguardo ai crediti derivanti dall’art. 10 e dall’art. 11 del decreto legislativo n. 124 del 1993, la giurisprudenza precedente aveva adottato soluzioni un po’ sorprendenti in tema di accessori, riconoscendo il maturare degli interessi e della rivalutazione monetaria in pendenza di una procedura concorsuale[28], nonostante l’opposta indicazione desumibile dall’art. 55 del regio decreto n. 267 del 1942, applicabile alle procedure di liquidazione COATTA in virtù dell’art. 201[29]. Vi erano stati precedenti rispettosi dell’art. 55[30] e, soprattutto, non si comprende come l’esatto riconoscimento della natura previdenziale e non retributiva del diritto del dipendente si possa accompagnare alla tesi della maturazione in pendenza della (… liquidazione coatta amministrativa e nei suoi confronti[31], poiché il credito ha natura chirografaria e osta l’art. 55[32]. Non vi è una possibile deroga al principio desumibile dagli artt. 54 e 55 del regio decreto n. 267 del 1942[33] e, riconosciuta l’inesistenza di un privilegio, gli accessori non possono maturare ai fini del concorso, a tacere dell’astratta meritevolezza sociale di una diversa considerazione delle ragioni del lavoratore ai sensi degli artt. 10 e 11 del decreto legislativo n. 124 del 1993, poiché, se mai, il problema può essere devoluto al solo legislatore. 
Non a caso, con l’evidente intento di modificare precedenti orientamenti, per la decisione in esame, “il corso di interessi e di rivalutazione monetaria deve arrestarsi alla data del provvedimento che ha disposto la liquidazione coatta amministrativa (…) e non, come affermato dalla sentenza impugnata, alla data di deposito dello stato passivo”[34]. L’opposta tesi[35] non trova riscontro rispetto alle univoche indicazioni dell’art. 55 del regio decreto n. 267 del 1942[36], poiché un credito non assistito da privilegio o da altra causa di prelazione deve seguire la sorte sancita dall’art. 55, né vi può essere una deroga dovuta a pretese ragioni equitative[37]. 
Non si può invocare il principio della giurisprudenza costituzionale per cui, “nell'ambito della procedura fallimentare, l'omessa estensione (risultante dal coordinamento degli artt. 54, terzo comma, e 55, primo comma, del regio decreto n. 267 del 1942) del diritto di prelazione, che assiste i crediti da lavoro, agli interessi su detti crediti, è lesiva degli artt. 3 e 36 cost., in quanto la garanzia costituzionale per il lavoratore subordinato opera non soltanto per le somme oggetto dei crediti da lavoro, ma anche per gli interessi sulle somme stesse. Sono pertanto illegittimi gli artt. 54, terzo comma, e 55, primo comma, del regio decreto n. 267 del 1942, nella parte in cui non estendono la prelazione agli interessi dovuti sui crediti privilegiati da lavoro nella procedura di fallimento”[38]. Nonostante sia stata invocata a proposito dei contributi ai fondi di pensione[39], la sentenza fa espresso riferimento all’art. 36 cost. e alla natura privilegiata dei crediti e, quindi, non può valere in difetto di tali presupposti[40]. 
4 . La dichiarata applicabilità dell’art. 429, terzo comma, cod. proc. civ.
Il problema più discutibile posto dalla sentenza è l’applicazione dell’art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., nonostante la natura previdenziale e non retributiva del credito, con il conseguente cumulo fra interessi e rivalutazione; con motivazione sintetica, si esclude l’operare dell’art. 1224, secondo comma, cod. civ., poiché “il diritto alla rivalutazione monetaria del credito previdenziale di natura non pubblicistica deriva dall’intervento della Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 156 del 1991, ha dichiarato illegittimo l’art. 442 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale, deve determinare gli interessi a tasso legale dovuti e il maggiore danno eventualmente subìto dal titolare del credito per la diminuzione di valore a causa della svalutazione”[41]. 
Poiché l’art. 442 cod. proc. civ. riguarda ogni “forma” di previdenza sociale[42], il suo astratto operare è poco discutibile e ciò comporta l’applicabilità della connessa disciplina nell’ipotesi di procedure concorsuali, come ritenuto a proposito dell’istanza di ammissione allo stato passivo fallimentare e della sospensione feriale[43], con un principio a maggiore ragione da riferire all’art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., con natura di norma sostanziale. Non a caso a fronte di una questione sollevata sulla base dell’art. 38 cost., la giurisprudenza costituzionale ha esteso l’art. 429, terzo comma, cod. proc. civ. alle decisioni di condanna in materia di previdenza sociale, senza distinzione fra quella privata e quella pubblica, a tacere dell’inesistenza all’epoca dei fondi di previdenza integrativa o complementare[44]. Quindi, non vi è contraddizione fra la natura previdenziale del credito derivante dagli artt. 10 e 11 del decreto legislativo n. 124 del 1993 e l’operare dell’art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., una volta sancita l’inapplicabilità dell’art. 16, sesto comma, della legge n. 412 del 1991. 
Non a caso, in situazioni paragonabili, cioè per crediti previdenziali sottratti all’art. 16, sesto comma, della legge n. 412 del 1991, per esempio in quanto la fattispecie era anteriore alla sua entrata in vigore, si è fatto riferimento all’art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., con la precisazione per cui interessi e rivalutazione sono “componenti essenziali di una prestazione unitaria” e non accessori in senso pieno[45]. In sostanza, dopo l’intervento citato della giurisprudenza costituzionale, in materia previdenziale “la rivalutabilità” è “una proprietà intrinseca del credito”, al punto che si può prescindere da una domanda specifica[46]. 
Pertanto, non vi è contraddizione fra la riconduzione del diritto alla previdenza sociale e l’operare dell’art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., poiché, superata la questione posta dall’art. 16, comma sesto, della legge n. 412 del 1991, rimane il precedente principio della giurisprudenza costituzionale; seppure estranea alla materia retributiva, l’azione derivante dagli artt. 10 e 11 del decreto legislativo n. 124 del 1993 resta di originaria e strutturale connotazione previdenziale, poiché disciplina la sorte degli accantonamenti[47], venuta meno la funzionalità del fondo e realizzatisi i presupposti indicati dalle due disposizioni[48]. Quindi, qualora, alla stregua degli artt. 10 e 11 del decreto legislativo n. 124 del 1993, il lavoratore possa agire per la corresponsione dei contributi versati[49], il credito rientra nella sfera di operatività dell’art. 442 cod. proc. civ. e a nulla rileva in merito la liquidazione coatta amministrativa del datore di lavoro, né avrebbe importanza il suo fallimento[50]. E’ persuasiva la decisione in esame sia per la conferma del cumulo fra interessi e rivalutazione, sia per l’applicazione degli artt. 54 e 55 del regio decreto n. 267 del 1942, e i principi di diritto enunciati meritano una valutazione positiva. 

Note:

[1] 
Così si evince dalla sentenza in esame. 
[2] 
V. Cass., sez. un., 1 febbraio 1997, n. 974. 
[3] 
V. Cass., sez. un., 9 marzo 2015, n. 4684. 
[4] 
V. Cass., sez. un., 20 marzo 2018, n. 6928. 
[5] 
V. Corte costituzionale 27 luglio 2001, n. 319. 
[6] 
V. Corte costituzionale 28 luglio 2000, n. 393. 
[7] 
V. Persiani, Aspettative e diritti nella previdenza pubblica e privata, in Arg. dir. lav., 1998, 311 ss.
[8] 
V. G. Santoro Passarelli, Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 2000, 93; Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, 124 ss.
[9] 
V. Corte costituzionale 8 settembre 1995, n. 421. 
[10] 
V. Proia, La Corte costituzionale e la previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 1995, 173 ss.
[11] 
V. Corte costituzionale 3 ottobre 1990, n. 427; Corte costituzionale 8 giugno 2000, n. 178; Corte costituzionale 28 luglio 2000, n. 393; Corte costituzionale 27 luglio 2001, n. 319. 
[12] 
V. Cass. 31 maggio 2012, n. 8695. 
[13] 
V. Cass. 12 gennaio 2011, n. 545; Cass. 30 settembre 2011, n. 20105, sulla pretesa natura retributiva dei versamenti. 
[14] 
V. Cass., sez. un., 9 marzo 2015, n. 4684; Cass., sez. un., 20 marzo 2018, n. 6928. 
[15] 
V. Cass., sez. un., 9 marzo 2015, n. 4684. 
[16] 
Così si esprime la sentenza in esame. 
[17] 
Fra le altre, v. Cass. 14 settembre 2015, n. 18041, per cui “l'art. 16, comma sesto, della legge n. 412 del 1991, con il quale è stata sancita la non cumulabilità di interessi e rivalutazione monetaria sulle prestazioni dovute da enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, si riferisce ai crediti previdenziali vantati verso gli enti suddetti e non è applicabile alle prestazioni pensionistiche integrative dovute dal datore di lavoro”. 
[18] 
V. Cass., sez. un., 20 marzo 2018, n. 6928. 
[19] 
Così si esprime la sentenza in esame. 
[20] 
V. Cass., sez. un., 20 marzo 2018, n. 6928. 
[21] 
V. Cass. 14 settembre 2005, n. 18041. 
[22] 
V. Cass. 15 ottobre 2002, n. 14617. 
[23] 
V. Corte costituzionale 2 novembre 2000, n. 459. 
[24] 
Così si esprime la sentenza in esame. 
[25] 
Così si esprime la sentenza in esame. 
[26] 
V. Cass. 22 febbraio 2007, n. 4136. 
[27] 
V. già Cass. 14 settembre 2015, n. 18041. 
[28] 
V. Cass., sez. un., 20 marzo 2018, n. 6928. 
[29] 
V. anche l’art. 83, secondo comma, del decreto legislativo n. 385 del 1993. 
[30] 
Sul fatto che il maturare degli interessi e della rivalutazione monetaria in pendenza della procedura di liquidazione coatta amministrativa è possibile solo per i crediti assistiti da una causa di prelazione, v. Cass. 4 giugno 2014, n. 12551. 
[31] 
E’ superfluo osservare che gli artt. 54 e 55 del regio decreto n. 267 del 1942 impediscono il maturare degli interessi e della rivalutazione solo ai fini del concorso. 
[32] 
V. Cass., sez. un., 20 marzo 2018, n. 6928, in senso opposto. 
[33] 
V. Cass. 4 giugno 2014, n. 12551. 
[34] 
Così si esprime la sentenza in esame.
[35] 
V. Cass. 24 luglio 2014, n. 16927, per cui “sui crediti di lavoro dovuti al dipendente di imprenditore dichiarato fallito è dovuta la rivalutazione monetaria anche in riferimento al periodo successivo all'apertura del fallimento, ma soltanto fino al momento in cui lo stato passivo diviene definitivo, mentre gli interessi legali sui crediti privilegiati di lavoro nella procedura di fallimento, ai sensi degli artt. 54, terzo comma, e 55, primo comma, della legge fallimentare, sono dovuti, senza il limite predetto, dalla maturazione del titolo al saldo”. 
[36] 
Invece, v. Cass. 18 giugno 2010, n. 14758, peraltro con riguardo all’indennità sostitutiva del preavviso. 
[37] 
In senso opposto, v. Cass. 6 ottobre 2017, n. 23417, ord.
[38] 
V. Corte costituzionale 20 aprile 1989, n. 204. 
[39] 
V. Cass. 6 ottobre 2017, n. 23417, ord.
[40] 
V. Corte costituzionale 20 aprile 1989, n. 204. 
[41] 
Così si esprime la sentenza in esame. 
[42] 
V. Corte costituzionale 20 aprile 1989, n. 204. 
[43] 
V. Cass., sez. un., 5 luglio 2017, n. 10944. 
[44] 
V. Corte costituzionale 12 aprile 1991, n. 156. 
[45] 
V. Cass. 3 settembre 2014, n. 18558; Cass. 22 maggio 2008, n. 13213; Trib. Milano 9 aprile 2014, in Giur. it. rep., 2014. 
[46] 
V. Cass. 26 marzo 2010, n. 7395; Cass. 15 luglio 2009, n. 16484; Cass. 20 gennaio 2005, n. 1112. 
[47] 
V. Cass. 21 marzo 2013, n. 7161. 
[48] 
V. Cass. 22 febbraio 2007, n. 4136. 
[49] 
V. Cass. 22 febbraio 2007, n. 4136. 
[50] 
V. Cass., sez. un., 5 luglio 2017, n. 10944. 

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Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

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