Saggio
La riforma dell’art. 2086 c.c. nel contesto del codice della crisi e dell’insolvenza e i suoi riflessi sul sistema della responsabilità degli organi sociali*
Francesco Macario, Ordinario di diritto privato nell'Università Roma Tre
26 Maggio 2022
Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
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Sommario:
2 . L’obbligo di assicurare assetti organizzativi adeguati alle caratteristiche dell’impresa
3 . Il monitoraggio per la rilevazione tempestiva della crisi e il valore della continuità aziendale
4 . (Segue) Il ricorso tempestivo agli strumenti di gestione della crisi
5 . La ridefinizione del sistema della responsabilità degli organi sociali
L’innovazione normativa introdotta dall’art. 2086 c.c. rappresenta, invero piuttosto emblematicamente, il mutamento da ritenersi ormai irreversibile di prospettiva, con la tendenza che, per un verso, lega in modo pressoché indissolubile l’organizzazione e la gestione dell’impresa alla prospettiva della sua crisi, anche sul piano squisitamente giuridico – e non soltanto, dunque, in termini economico-aziendali, come è sempre accaduto -, per altro verso, attribuisce una sempre più marcata rilevanza alle vicende dell’attività organizzativa e gestionale dell’impresa sugli assetti societari, in relazione ai diritti e agli obblighi degli organi, con quanto ne consegue in punto di responsabilità a loro carico.
Un obiettivo, quest’ultimo, che non si pone in conflitto - almeno in linea di principio - con gli interessi degli stessi soci, dal momento che i tentativi - se posti in essere in modo corretto e tempestivo - di sostenere la continuità aziendale, ovvero di gestire il suo venir meno, non possono che attenuare un pregiudizio, che finisce per colpire, allo stesso tempo, creditori e società debitrice: in ultima analisi, gli stessi soci, interessati a preservare il valore dell’investimento.
Anche in questo caso, così come avviene per la posizione dei sindaci, il nuovo secondo comma dell’art. 2086 c.c. consente di ritenere obbligata alle condotte virtuose, rispetto alla stella polare costituita dalla tutela degli interessi dei creditori, la società ossia gli stessi soci, ai quali, per un verso, competono i poteri di controllo sull’operato degli amministratori, pur dotati della competenza esclusiva – s’è detto più volte – a decidere e scegliere le modalità più idonee a gestire la situazione critica, ma, per altro verso, sono obbligati a non ostacolare la realizzazione degli interessi dei creditori (secondo il principio che il legislatore ha voluto esprimere in modo non equivoco con l’art. 4 ccii[31], desumibile del resto anche dalle linee guida europee)[32].
Se tale obbligo può comportare la compressione del diritto del socio di esprimere liberamente la volontà in sede di delibera assembleare, si deve sempre ricordare che ciò avviene in un contesto giuridico, in cui s’impone come prioritaria la tutela degli interessi dei creditori – in linea di principio, s’è appena detto, da non considerare in conflitto con quelli dei soci -, al di là delle prerogative che l’ordinamento riconosce ai soci all’interno della compagine societaria, ossia nei rapporti tra gli organi.
Va ricordato, in premessa, che anche rispetto a tali decisioni, il fatto che gli obblighi gravino (senza alcun dubbio e primariamente, si direbbe) sugli amministratori, non implica che l’organo di controllo possa rimanere indifferente (come si è appena avuto modo di sottolineare, richiamando alcune delle norme a tal fine introdotte), mentre, da altro punto di vista, gli stessi soci dovranno, in linea di principio, assecondare tali decisioni, in ragione del generale arretramento delle loro prerogative, all’interno della compagine sociale, rispetto agli interessi dei creditori.
Se un tempo, che oggi potrebbe considerarsi una stagione definitivamente archiviata, la prospettiva dell’impresa in crisi era essenzialmente liquidatoria – secondo una dicotomia semplificata e semplificante: da un lato, l’esercizio dell’attività d’impresa da parte del soggetto (imprenditore individuale o collettivo) in bonis, dall’altro la liquidazione del patrimonio legata allo stato d’insolvenza -, tanto che anche il concordato preventivo costituiva, nella prassi prevalente, una procedura concorsuale di natura liquidatoria, oggi sappiamo che l’opzione di politica del diritto è chiarissima, essendosi del resto realizzata con la riforma, nella direzione esattamente opposta: l’impresa e la sua continuità aziendale rappresentano e comprendono valori da salvaguardare anche nella situazione di crisi e persino dopo l’accertamento dello stato d’insolvenza (con la conseguente dichiarazione di fallimento, grazie alle potenzialità dell’esercizio provvisorio, alla stregua delle norme riformate).
Di qui, la sistematica delle diverse alternative che, in ogni caso, vedono la liquidazione del patrimonio aziendale prevista dal legislatore come ultima ratio, una volta che le procedure di salvataggio dell’impresa in crisi non siano concretamente percorribili. Non può meravigliare che, nel nuovo assetto organico reso possibile dal codice della crisi, la costruzione del sistema, in linea con l’evoluzione della riforma all’insegna della priorità del salvataggio dell’impresa, procede disciplinando in primo luogo le soluzioni stragiudiziali, per poi regolare il concordato (sempre nell’ambito dei c.d. “quadri di ristrutturazione preventiva”, secondo il linguaggio prescelto dal legislatore del codice – qualche dubbio circa il fatto che il CP sia un QRP), quale strumento funzionale (non già a una liquidazione del patrimonio proposta e programmata dal debitore, bensì) al recupero delle potenzialità dell’impresa in crisi, mediante le forme diverse di continuità (essenzialmente: diretta o indiretta) dell’attività aziendale.
Alla sempre più elaborata disciplina degli accordi per la ristrutturazione dei debiti e del concordato preventivo, connotato dall’obiettivo della continuità aziendale, il legislatore ha poi voluto aggiungere, da ultimo, la “composizione negoziata per la soluzione della crisi”, con il d.l. 118/2021[33], ove si prevede un “percorso” di mediazione affidato ad un esperto indipendente e finalizzato alla composizione del debito, destinato a occupare una parte importante del codice della crisi (artt. 12-25-undecies).
Caratterizzata dalla combinazione di alcuni specifici elementi - (a) presenza di un “esperto”, incaricato di seguire (b) “trattative” regolate secondo (c) un “percorso” ben scandito nei suoi passaggi e nei principi regolatori delle condotte delle parti, cui si aggiunge (d) la possibilità di chiedere e ottenere le misure protettive del patrimonio e cautelari -, la nuova disciplina introdotta dal d.l. 118/2021 sembrerebbe rappresentare nel modo migliore, si direbbe davvero emblematico, il ‘primo passaggio’ attuativo degli obblighi in questione, fatta salva, al solito, la considerazione delle circostanze concrete in cui versa l’attività d’impresa.
Non a caso, la condizione oggettiva per accedere alla composizione negoziata è riferita allo squilibrio, patrimoniale o economico-finanziario - che rende probabile l’evoluzione nella crisi o nell’insolvenza -, a patto naturalmente che sia ragionevole presupporre la possibilità del risanamento dell’impresa. In tal senso, si può dire che il legislatore individui la soglia più avanzata, allo stato, per promuovere un intervento di ristrutturazione, in via preventiva dell’aggravamento della condizione di difficoltà, sicché l’area operativa, per gli amministratori - ma, s’è detto, anche per l’organo di controllo, come il collegio sindacale - è sempre quella della ricordata “insolvenza prospettica”, in termini economico-aziendali, ma nella sua fase iniziale, ossia una condizione di c.d. “pre-crisi” (sempre secondo i principi e i criteri della scienza economico-aziendale, più volte richiamati)[34].
Gli eventi degli ultimi anni hanno insegnato come lo scenario economico generale debba essere assunto quale presupposto fisiologicamente instabile, in quanto estremamente variabile nel tempo (con il rischio, già sperimentato, che le evoluzioni e le modifiche dei contesti possono essere assai repentine), con effetti di natura economica e finanziaria, sulle attività imprenditoriali, particolarmente pesanti (per cause diverse ed eterogenee: da quelle di natura sanitaria, come nel caso della pandemia da Covid, a quelle più marcatamente socio-politico). A fronte di questa situazione, la nuova disciplina impone a chi gestisce un’attività imprenditoriale di considerare rischi, difficoltà e squilibri, con le relative ricadute in termini di effetti economici e finanziari, come vicende tutt’altro che ‘straordinarie e imprevedibili’ – per mutuare la formulazione dell’art. 1467 c.c., in tema di eccessiva onerosità, quale causa ‘eccezionale’ di risoluzione del contratto -, rappresentando, al contrario, eventi e vicende da fronteggiare e gestire, mediante innanzitutto gli assetti organizzativi adeguati; per poi ricorrere, eventualmente, agli strumenti offerti dal legislatore per la soluzione delle stesse situazioni di difficoltà (se possibile in via preventiva e, in ogni caso, in modo tempestivo)[35].
Il mutamento, allo stesso tempo in senso giuridico (grazie alle nuove norme e alla cornice sistematica profondamente innovata) e in senso più latamente culturale (ossia la cultura del modo stesso di ‘fare impresa’), è profondo e irreversibile, imponendosi a chi gestisce, così come a chi svolge compiti di controllo, obblighi (e conseguenti responsabilità, per il mancato rispetto deli stessi) ben più stringenti rispetto a quelli che caratterizzavano in passato le attività e la stessa funzione degli organi sociali, tanto gestori quanto di controllo. Sembrerebbe trattarsi, peraltro, di obblighi probabilmente anche di indole diversa, avendo come obiettivo primario quello della tendenziale prevenzione delle situazioni di crisi, a fortiori dell’insolvenza, quale stato di dissesto irreversibile.
Posto che il sistema degli strumenti di gestione della crisi, secondo la logica della sua prevenzione, accentuata dalle più recenti modifiche e integrazioni al codice, consente di seguire una linea logico-giuridica che muove dalle soluzioni stragiudiziali, prima di approdare alle procedure giurisdizionali in senso stretto – rispettivamente, concordataria e liquidatoria -, si deve ritenere che il ricorso alla composizione negoziata, di cui al menzionato d.l. 118/21, sia la prima tappa dell’iter che l’organo gestorio deve seguire e, non a caso, il legislatore ha previsto che, nelle segnalazioni provenienti dai “creditori pubblici qualificati”, sia contenuto l’invito, ove ricorrano i presupposti, a richiedere l’apertura del ‘percorso’ negoziale (che, s’è detto, è destinato ad essere trasfuso negli artt. 12-25-undecies ccii)[36].
Le potenzialità di questo nuovo strumento sono notevoli, sol che si consideri la disciplina della rinegoziazione dei contratti (di cui all’art. 22 cccii), fondata sull’obbligo generale di correttezza e buona fede, particolarmente rilevante soprattutto nei rapporti in corso con il ceto bancario e finanziario che, quale interlocutore primario e spesso decisivo dell’imprenditore in difficoltà, non può rifiutare sic et simpliciter la partecipazione alla trattativa. In questo senso, la mancata richiesta di attivazione del percorso negoziale, assistito s’è detto e in un certo senso completato dalle eventuali misure cautelari disposte dal tribunale, potrebbe comportare la responsabilità di amministratori e sindaci, ai sensi in primo luogo dell’art. 2086, 2° comma c.c. (oltre che delle altre norme, come gli artt. 2407, 2° comma, 2392, 2476 c.c.).
Un primo rilievo attiene alla centralità della stessa attività d’impresa, la quale condiziona l’“assetto organizzativo, amministrativo e contabile” del soggetto societario (o collettivo), dal momento che costituisce un preciso ed esplicito obbligo (dell’imprenditore) garantire l’adeguatezza ‘specifica’, per così dire, di tale assetto “alla natura e alle dimensioni dell’impresa”. Poiché l’obbligo è disposto dal legislatore “anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa”, si potrebbe ritenere, in prima battuta, che la rilevanza dell’impresa, tale da indurre il legislatore a introdurre una nuova disposizione – il secondo comma dell’art. 2086 c.c. – nella disciplina codicistica “dell’impresa in generale”, sia soltanto l’effetto (o uno dei vari effetti) della riforma del diritto della crisi e delle procedure per la sua gestione. L’espressione utilizzata dal legislatore “anche in funzione etc.” dovrebbe indurre, tuttavia, a valorizzare gli obblighi relativi agli assetti adeguati nell’esercizio dell’attività d’impresa, nella prospettiva del migliore svolgimento della stessa, sicché l’adempimento dell’obbligo e la responsabilità derivante dall’inadempimento non dovrebbero essere ricollegabili soltanto – come una sorta di condicio sine qua non, in sostanza – alla situazione di crisi e ai suoi effetti (fermo restando che il pregiudizio economico, legittimante le azioni di responsabilità, verrà normalmente fatto valere a seguito degli effetti lesivi della crisi e/o della sua inefficiente gestione).
Da un diverso punto di vista, se il codice della crisi e dell’insolvenza ha costituito certamente l’occasione per riflettere sul riassetto generale, in termini genuinamente sistematici, della disciplina dell’impresa, muovendo dall’esigenza di disciplinare le vicende della crisi, non si può dimenticare che la riflessione sul rilievo assunto dall’impresa nel sistema del diritto privato è ben più risalente.
Oltre sessant’anni fa, infatti, nel delineare i tratti fondamentali del (nuovo, all’epoca) codice civile, Rosario Nicolò affermava che, a seguito dell’evoluzione complessiva del sistema economico, era “sorta la categoria giuridica dell’impresa che il codice civile nostro ha messo al centro del libro quinto” e che “per la prima volta l’istituto giuridico dell’impresa, come situazione giuridica oggettiva che fa capo all’imprenditore, si pone al centro del diritto privato”, costituendo tale consacrazione – sempre secondo l’illustre studioso, che da giovane giurista aveva partecipato ai lavori per la compilazione del codice unificato – non già un punto di arrivo, ma semmai di partenza, rappresentando “il motivo vero e fecondo della unificazione del diritto privato”[37].
All’ineccepibile constatazione del grande maestro del diritto privato, oggi possiamo aggiungere che quel percorso, iniziato con un codice civile caratterizzato, in primo luogo, dal coordinamento – al livello apicale della codificazione e dunque in termini generali - tra diritto civile e commerciale, all’insegna appunto della pur discussa e controversa unificazione codicistica, ha avuto un séguito tutt’altro che trascurabile.
Una storia, quest’ultima, con un esito particolarmente significativo, nel momento in cui la vicenda della crisi d’impresa - al centro dell’attenzione del legislatore nell’ultimo quindicennio o poco più, con una serie di interventi, che hanno permesso alla fine di elaborare un “codice”, capace di conferire organicità alla complessa e articolata materia della crisi e dell’insolvenza - ha determinato una profonda evoluzione nel sistema del diritto dell’economia e, in particolare, dell’impresa, ove il concetto di “continuità aziendale” (e, di conseguenza, gli strumenti giuridici funzionali alla tutela dei diversi interessi alla stessa connessi) è diventato il perno o comunque uno dei pilastri della disciplina giuridica della stessa impresa.
Una seconda notazione, che interessa più da vicino il sistema della responsabilità degli organi sociali, attiene alla centralità del concetto di “continuità aziendale”. In questo caso, la novità si manifesta come uno degli esiti più rilevanti dell’evoluzione del diritto della crisi e delle tecniche procedurali per la sua gestione, nel senso della ‘generalizzazione’, per così dire, di una filosofia dell’impresa, che un tempo avrebbe potuto manifestarsi, in qualche modo e per ragioni di ordine socio-politico ben precise, nelle procedure concorsuali amministrative. L’evoluzione del diritto comune della crisi e dell’insolvenza ha visto, da un certo momento in poi, affinarsi sempre più la normativa, con l’obiettivo di garantire all’imprenditore in difficoltà gli strumenti giuridici per salvaguardare il valore dell’azienda (in presenza dei presupposti economico-aziendali, s’intende), mantenendo in vita l’attività economica caratteristica e comunque potenzialmente produttiva (nonostante la difficoltà del momento), prima di esitare nella dimensione tradizionale, puramente patrimonialista, della liquidazione.
È evidente che, una volta approntato dal legislatore un sistema di norme e tecniche procedurali estremamente articolato, a tale normativa non potessero rimanere indifferenti gli organi sociali - quello gestorio, così come quello di controllo - sicché è inevitabile che il monitoraggio sulla sostenibilità della continuità aziendale costituisca, allo stesso tempo, un obbligo specifico e la fonte, in un certo senso, di ulteriori obblighi a carico di amministratori e sindaci, in considerazione degli esiti dello stesso monitoraggio. Va da sé, del resto, che la continuità non può rappresentare una sorta di valore assoluto, sicché non deve essere perseguita a qualsiasi costo, ben potendo rivelarsi, nella situazione specifica, più opportuna la scelta liquidatoria.
Un terzo rilievo, strettamente connesso alla notazione appena svolta sul valore della continuità, attiene al primo beneficiario della tutela che vorrebbero assicurare i nuovi obblighi - non tipizzabili in modo analitico evidentemente, ma individuabili con riferimento alla finalità generale di prevenire la crisi e la “perdita della continuità aziendale”, dovendosi attivare gli amministratori anche con gli strumenti per il superamento della crisi e il recupero della continuità-, costituito dal ceto creditorio, in primo luogo, cui devono aggiungersi tuttavia gli ulteriori soggetti, i cui diritti possono risultare compromessi dalla situazione di crisi.
Il sistema delle responsabilità degli organi sociali si rivela, in quest’ultimo senso, fortemente innovato, grazie alle molteplici forme di tutela dei creditori, il cui interesse deve prevalere s’è detto su quello dei soci e della stessa società, non appena rilevi, ancorché in modo embrionale e prospettico, la crisi aziendale, imponendo a tal fine il legislatore nuovi e specifici obblighi ai soggetti responsabili – si ribadisce, in termini tanto di gestione quanto di controllo - degli esiti economici dell’attività imprenditoriale.
Il criterio normativo fondamentale per valutare l’operato degli amministratori rimane quello della diligenza, professionalmente qualificata e incentrata, secondo la prospettiva tradizionale, sulla tutela degli interessi dei soci, ma è innegabile che il contenuto dell’obbligo di diligenza si trovi oggi arricchito i doveri relativi alla conservazione del patrimonio sociale e alla continuità dell’attività aziendale, in funzione della tutela degli interessi dei creditori[38].
L’innovazione sul piano sistematico è confermata dalle stesse norme generali introduttive, ove si fissano i principi, del codice della crisi, che esplicitano in modo inequivocabile il concetto - come avviene, esemplarmente, con il già ricordato art. 4 ccii -, rendendo possibile la nuova ricostruzione sistematica della disciplina societaria (in relazione ai tanti indici normativi in tal senso rilevanti: ad esempio, l’art. 2491, con la c.d. absolute priority rule, ma anche gli artt. 2448, 2482).
Ove si consideri il legame che unisce il diritto societario e il diritto della crisi d’impresa – una costatazione sin troppo scontata, ormai, come s’è detto nelle pagine iniziali - soprattutto nella prospettiva dei compiti, degli obblighi e delle responsabilità degli organi sociali, si può peraltro ragionevolmente ritenere, per un verso, che le innovazioni normative rendano soltanto più evidente un principio immanente nell’ordinamento[39], per altro verso che l’idea della c.d. “neutralità organizzativa” non abbia più cittadinanza[40], essendo stata soppiantata da quella che è stata definita in termini di “invasività” della crisi (e della sua disciplina) sulle vicende societarie, si diceva in relazione a organizzazione, compiti e responsabilità dei suoi organi[41].
In tal senso, oltre al ‘passaggio’, idealmente, dell’impresa (e del suo valore economico) nelle mani dei creditori, mediante le procedure collettive per la gestione della crisi[42], la vicenda della c.d. “emerging insolvency” determina il sorgere di un nuovo (e aggiuntivo) ‘dovere fiduciario’ del gestore dell’attività (ossia degli amministratori) rispetto ai creditori, ponendosi la questione – sulla quale, invero, gli studiosi hanno già da tempo iniziato a interrogarsi – del significato del principio che, nell’attuale contesto normativo, fa capo all’espressione business judgment rule[43].
Note: