Saggio
L’avvio del codice della crisi*
Massimo Fabiani, Ordinario di diritto commerciale nell'Università degli Studi del Molise
5 Maggio 2022
Il saggio è stato altresì sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
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Sommario:
Tuttavia, non si può escludere che successivamente alla sua entrata in vigore il codice subisca, sin dalle battute iniziali, qualche ulteriore aggiustamento, posto che il Ministero della Giustizia sta valutando un secondo decreto correttivo che, per quanto è dato sapere, dovrebbe toccare talune disposizioni senza alcun impatto di sistema, talché potrebbe reputarsi tollerabile che alcune disposizioni del codice della crisi abbiano una vita davvero breve. I tempi di gestazione del decreto di attuazione della Direttiva non hanno, infatti, consentito di far marciare in parallelo i due provvedimenti.
Da più parti ci si è chiesti per quale ragione non si sia confezionato un unico documento normativo e la risposta è di matrice costituzionale: il decreto di attuazione della Direttiva non può avere un oggetto che non sia coerente con la legge europea; il decreto correttivo non può non basarsi sulla legge delega 155/2017. Per comprendere come ciò si sia riflesso sulla tessitura normativa in itinere basti esporre un esempio: la legge delega 155/2017 all’art. 6, lett. i).1 stabilisce che “che tale disciplina si applichi anche alla proposta di concordato che preveda la continuità aziendale e nel contempo la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa, a condizione che possa ritenersi, a seguito di una valutazione in concreto del piano, che i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale”. L’art. 84 CCII recepisce il criterio della prevalenza delle risorse destinabili ai creditori, sebbene introducendo una spesso criticata contaminazione lavoristica, là dove presume la continuità prevalente quando viene conservato un certo livello occupazionale. Un decreto correttivo non avrebbe mai potuto negare il criterio della prevalenza perché si sarebbe posto in contrasto con la legge delega. Viceversa, il decreto di attuazione della Direttiva deve seguirne le tracce e poiché lì non vi è alcun riferimento al criterio della prevalenza, il decreto in itinere respinge quella soluzione.
Così brevemente spiegata la ragione delle sovrapposizioni di testi normativi è parimenti utile precisare che il codice della crisi ha inglobato una porzione del d.l. 118/2021 (convertito nella l. 147/2021) apportandovi ulteriori revisioni frutto di una attenta lettura delle prime interpretazioni e dei primi provvedimenti giudiziari, là dove ne erano state messe in luce talune criticità e questo vale a dimostrare che il legislatore non è stato affatto “sordo” dinanzi alle osservazioni critiche che avevano una portata costruttiva e non una obiezione pregiudiziale di natura ideologica.
Ed ancora, sempre come premessa, giova rammentare che l’entrata in vigore del codice della crisi, anche all’esito dell’eventuale ulteriore decreto correttivo, non sarà accompagnata da alcune previsioni contenute nella legge delega e ciò, ancora una volta, per ragioni di ordine costituzionale, perché un decreto correttivo può “correggere” ma non può aggiungere scelte che il legislatore delegato ha ritenuto di non percorrere. Mi riferisco, in particolare, a due temi di vertice: da un lato, la volontà del legislatore delegante di imprimere una accelerazione sulla specializzazione dei giudici della crisi d’impresa non ha trovato spazio e, dall’altro lato è rimasta altrettanto priva di attuazione la previsione della riformulazione delle categorie dei privilegi[2] e se si vuole, anche, la conservazione del trattamento diverso per l’impresa agricola[3], solo virtuosamente appiattito nella composizione negoziata.
Se questi obiettivi che rispondono a scelte di politica del diritto vorranno essere ripristinati occorrerà un nuovo iter legislativo, il che induce a ritenere che ci vorrà del tempo e che nel frattempo, il codice della crisi sarà gestito con l’attuale organizzazione giudiziaria e che le aspettative di soddisfacimento dei creditori chirografari resteranno decisamente marginali.
Messa temporaneamente in disparte l’uso della tecnica delle definizioni e dei principi generali (sui quali, però, tornerò a breve), l’impianto del codice muove nella sua sequenza cronologica dalle situazioni di crisi dell’impresa meno intense per poi tracciare i contorni della “procedura madre”, la liquidazione giudiziale, che seppure posposta, ad esempio, al concordato (minore e preventivo), resta il paradigma di riferimento sol che si noti come vi sono disposizioni in tema di concordato preventivo che rinviano a quelle, successive, della liquidazione giudiziale: l’art. 96 CCII contiene, difatti, un rinvio agli artt. 150-162 CCII che costituiscono le norme in tema di effetti della liquidazione giudiziale sui creditori.
Fatta questa considerazione, l’impianto appare sicuramente coerente tanto alla legge delega quanto alla Direttiva Insolvency. È stata compiuta una scelta, prima dal legislatore europeo, sin dai tempi della Raccomandazione 2014/135/UE della Commissione europea poi dal legislatore nazionale, in ordine al fatto che in presenza di una situazione di crisi imminente o immanente sia utile cercare di risolverla in modo non traumatico, sia dando rilievo alla ristrutturazione dell’azienda o dell’impresa in modo da conservarne il valore, sia assegnando al debitore e ai suoi creditori una pluralità di variegati strumenti astrattamente idonei a regolare la crisi senza dover aprire una procedura liquidatoria, molto probabilmente disgregatrice dei valori imprenditoriali.
Questo spiega perché il codice si occupi, dapprima della composizione negoziata, poi di piani di risanamento, convenzioni di moratoria, piani di ristrutturazione soggetti ad omologazione, accordi di ristrutturazione e concordati, quello “minore” e quello preventivo. Una sorta di piano inclinato che vede alla base il percorso della composizione negoziata[4] e al vertice la liquidazione giudiziale.
Questa gradazione ascendente si reggeva, per vero, nell’impostazione originaria del codice sui meccanismi di allerta, meccanismi che non sono stati espunti ma ricollocati e funzionalizzati ad esigenze diverse.
Ci potremmo interrogare, dapprima, proprio sul fatto se, ancora, si possa discutere di un codice che ha, nelle sue fondamenta, la “cifra” qualificante dell’allerta. A me pare che se l’allerta deve essere intesa, esclusivamente, come un meccanismo di facilitazione di emersione rapida della crisi dell’impresa che conduce alla liquidazione giudiziale là dove le parti non dimostrino di essere in grado di regolarla senza l’intervento eteronomo ed in chiave liquidatoria del giudice, allora la risposta dovrebbe essere negativa: quell’allerta è sfumata. Se, invece, per allerta si può intendere la predisposizione (i) di strumenti compositi che impongono all’imprenditore di creare assetti organizzativi funzionalizzati, anche, alla rilevazione tempestiva della crisi[5], (ii) di percorsi che aiutano il debitore a dialogare con i creditori quando ancora l’insolvenza può essere lontana, pur se prevedibile, (iii) di soluzioni cangianti che consentono il transito da una iniziativa all’altra senza il timore di vedere il precipizio del dissesto, allora la risposta è, sicuramente, positiva.
A partire dal novellato art. 2086 c.c., per passare all’art. 3 CCII (come oggetto di modifica con il d.lgs. in itinere) che precisa quali fattori di rischio sono rappresentativi di crisi e come questi debbano essere intercettati per effetto di una adeguata organizzazione d’impresa, e poi agli artt. 12 ss. sulla composizione negoziata, si è creato un sistema che incentiva il debitore ad uscire dal guscio per portare all’esterno la sua difficoltà e chiedere aiuto; è inutile, o persino ipocrita, pensare che una crisi si risolva con le sole forze dell’impresa perché l’aiuto o la semplice tolleranza dei creditori e degli altri interlocutori (clienti, lavoratori) è fondamentale.
È indiscutibile che la c.d. allerta esterna e la devoluzione del risultato negativo della composizione assistita all’attenzione del pubblico ministero siano venute meno, ma se si guarda con un minimo di attenzione al contesto degli ordinamenti della maggior parte degli altri Paesi europei, il sistema come ridisegnato sia più armonico con quello degli altri sistemi e questa circostanza non è secondaria quando si pensa al tema, ormai divenuto un classico, della competizione normativa tra ordinamenti.
Nessuno può o deve negare che nel nostro Paese esistano, forse più che altrove, fenomeni di criminalità economica che rendono necessaria una particolare attenzione, ma la scelta politica è stata quella, ovviamente opinabile, di adottare regole per la fisiologia affidando, appunto, alla magistratura penale il compito di reprimere le frodi.
Questa è la ragione che ha condotto il Governo ad impiantare all’interno del codice la composizione negoziata, con la precisa volontà di creare le condizioni per un superamento della crisi secondo schemi volutamente di impronta negoziale, ma con la precisa attenzione a non disperdere per nulla le garanzie, come si ricava da tutte quelle disposizioni che prevedono il coinvolgimento del giudice nelle fasi nevralgiche del percorso.
Secondo la sequenza razionale della progressione degli strumenti di regolazione della crisi, dopo la composizione negoziata dovremmo trovare o la convenzione di moratoria o il piano attestato di risanamento. Così, però, non è perché nell’impianto del codice, confermato dal decreto di attuazione della Direttiva, dopo la composizione negoziata si incontrano molte disposizioni di natura processuale, alcune delle quali si muovono in sintonia con le norme della legge fallimentare (a proposito di competenza[6] o di cessazione dell’impresa) mentre altre sono del tutto innovative.
Questa composizione del codice germina dalla legge delega nella parte in cui si era voluto prevedere un procedimento unitario per l’accesso ai procedimenti di crisi e di insolvenza. Su questo punto giova mettere a fuoco che nella struttura originaria si assumeva la presenza di un procedimento unitario in verità assai poco organizzato secondo quelle che erano le ambizioni della legge delega[7], mentre per effetto delle più recenti novità è assai più concreta l’ipotesi di una effettiva unitarietà del procedimento, scandito, anche, dalla previsione di quale debba essere il modello processuale di riferimento.
Resta il fatto che l’opzione del disegno unitario del procedimento ha determinato una conseguenza non proprio auspicabile perché ha spezzato le regole in tema di accordi di ristrutturazione e di concordato preventivo, posto che alcune norme si trovano collocate negli artt. 40, 44, 48, 49 e riguardano l’accesso ma anche l’omologazione, con la conseguenza che prima si incontrano le disposizioni sulla omologazione e solo dopo quelle in tema di votazione (artt. 107-110 CCII) quando è evidente che per logica e coerenza le regole di omologazione dovrebbero seguire le regole di approvazione.
Tutto ciò crea un poco di disarmonia perché nelle regole su procedimento unitario vengono menzionati istituti che si “scopriranno” solo nei successivi comparti del codice.
In ogni caso, dopo il passaggio del procedimento unitario, completato da fasi di impugnazione e tutele cautelari, il percorso prosegue con in rapida sequenza gli strumenti c.d. negoziali di risoluzione della crisi d’impresa, includenti il piano attestato di risanamento (nominalisticamente riformulato), le quattro versioni degli accordi di ristrutturazione, la convenzione di moratoria, il novello piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, il concordato minore e da ultimo il concordato preventivo.
Solo a valle di questi strumenti troviamo la liquidazione giudiziale che pur collocata dopo, resta la procedura di riferimento sia perché è quella contrassegnata da una più articolata sequenza di norme, sia perché resta il punto di riferimento delle altre.
Di poi, troviamo la liquidazione controllata e la disciplina dei gruppi di imprese, raggruppata per materia indipendentemente dal fatto che si applichi a procedimenti di ristrutturazione o liquidatori.
Chiude il codice della crisi la disciplina della liquidazione coatta amministrativa perché come è ben noto è rimasta fuori dal codice, per precisa (ed assai opinabile)[8] scelta politica, l’amministrazione straordinaria.
La Parte I del d.lgs. 14/2019 è, però, completata da ulteriori disposizioni che attengono sia agli albi dei professionisti che possono assumere gli incarichi, sia a regole tecniche informatiche e altre regole di dettaglio “operativo”, oltre che tutte le norme di coordinamento con le (altre) leggi speciali.
Questa rappresentazione topografica mi è parso utile riproporla perché occorrerà abituarsi ad un plesso normativo di non sempre agevole reperimento, basti pensare al fatto che la norma cardine dell’art. 1 l.fall. è quasi “nascosta” nell’art. 121 CCII.
Il concetto, inespresso, di procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza è stato sostituito dal decreto di attuazione della Direttiva europea con quello di “quadri di ristrutturazione preventiva e procedure di insolvenza” e tuttavia l’espressione “procedure concorsuali” non è stata espunta dall’art. 6 CCII.
Nell’ambito di una illustrazione generale degli orizzonti applicativi del codice della crisi a me pare che non si possa omettere qualche succinta considerazione sul tema della concorsualità, declinata come “procedure concorsuali”.
Se l’art. 2 CCII contiene definizioni, parimenti possiamo essere certi che non esplicita alcun principio generale della materia ed i principi generali vanno, ancora una volta, prelevati dal contesto normativo di riferimento[10]. Taluno reputa che ci si debba allontanare dalla dogmatica e dalle astrazioni ma, diversamente, ritengo che senza principi generali, una sequenza di norme non potrà mai essere completa per poter disciplinare ogni fattispecie, sì che senza la selezione di principi le lacune non possono essere colmate in modo razionale.
Ed allora proviamo a verificare quali significati possa assumere la definizione di quadri di ristrutturazione preventiva e come questa si combini con la non cancellata locuzione di “procedure concorsuali”.[11]
Vi sono stati molti commenti ironici sul fatto che vi sia stata l’importazione “piatta” della parola framework che compare nell’intitolazione della Direttiva, con la conseguenza che il legislatore italiano ha adottato il lemma “quadri”. Questa ironia da un lato la si può comprendere se si considera l’eterodossia del lemma rispetto alla normativa domestica, ma dall’altro lato occorre considerare che questa parola consente di coniare una neutralità qualificatoria che rivela molte “comodità”. Quando per quadri si intendono “le misure e le procedure volte al risanamento dell’impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale”, ci si avvede che sono stati emarginati altri termini – come ad esempio “procedimento” – che avrebbero ben potuto risultare decettivi, se pensiamo al fatto che il piano di risanamento attestato nulla ha del procedimento.
Ai quadri vanno ricondotte le procedure – quindi il concordato minore, quello preventivo e quello semplificato – ma anche ciò che procedura non è, come il piano attestato o la convenzione di moratoria. L’ampiezza della definizione, poi, consente di non cimentarsi sull’interrogativo se sia una procedura concorsuale l’accordo di ristrutturazione o il nuovo piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione.
La soluzione tecnica può essere così sintetizzata: ai fini dell’applicazione di una composita sequenza di norme procedimentali ci si può disinteressare della natura del mezzo adoperato per risolvere la crisi, perché talune norme si applicano comunque. Fuori dal contesto delle norme di diretta applicazione per ciascun istituto varranno regole diverse (come si ricava dalla nuova intitolazione delle partizioni che iniziano dall’art. 56 CCII), quelle di disciplina (ad esempio, nel concordato varrà sempre la regola di maggioranza, negli accordi di ristrutturazione varrà sempre la regola della soglia di accesso tra i creditori aderenti).
Sennonché nella lett. m-bis dell’art. 2 CCII troviamo anche una precisazione espressa in forma negativa, là dove si stabilisce che tra i quadri di ristrutturazione non è compresa la composizione negoziata. Dal punto di vista puramente estetico si potrebbe discutere di una norma definitoria enunciata al contrario, così come a me pare che la composizione negoziata – in quanto percorso volto a favorire una soluzione di exit (oggi 23 CCII) – non potrebbe mai essere qualificata al pari dei quadri di ristrutturazione che sono essi stessi un modo di risolvere la crisi e non solo un mezzo per giungere ad un determinato risultato. Tuttavia, la scelta del legislatore la si può comprendere per il suo significato chiarificatore.
Superate le critiche ironiche, non sono però superate tutte le criticità perché, come sopra si è ricordato, il codice della crisi contiene ancora il termine “procedura concorsuale” e lo contiene in una disposizione di centrale importanza, quella che segna il discrimine tra creditori concorrenti e creditori prededucibili.
Così, se nelle singole disposizioni (come accade per i finanziamenti, v., artt. 99 e 101 CCII) non vi è un preciso riferimento al fatto che la prededuzione assiste i crediti maturati nell’uno o nell’altro “quadro”, si torna alla casella di partenza perché la prededuzione è qualità di un credito solo nell’ambito di una procedura concorsuale.
Forse con un sano pragmatismo il legislatore, anche nell’art. 6 CCII, avrebbe potuto precisare a quali quadri la prededuzione si applica, ma se non lo ha fatto e ha lasciato “procedure concorsuali” faccio fatica a comprendere come un interprete possa rinunciare a dare di questo sintagma una definizione. E, se si vuole, l’anelito per una interpretazione sistematizzante, mi induce a preferire che vi sia stata questa scelta, consapevole o no che sia.
È noto a tutti quale sia stato negli ultimi anni il percorso intrapreso dalla giurisprudenza di legittimità a proposito della natura degli accordi di ristrutturazione[12] e non è, dunque, il caso di rievocarlo. A mio modo di vedere la scelta interpretativa compiuta non è stata ben meditata, anche se da un certo punto di vista la si può comprendere, perché è stata una scelta semplificatoria, purtroppo, però, affidata a criteri selettivi assai opinabili e declinata con esempi di certo errati, quando è stata inclusa nelle procedure concorsuali la convenzione di moratoria che è solo uno strumento-ponte per perseguire con altri mezzi la risoluzione della crisi.
Se condividiamo questa scelta di semplificazione[13] e mettiamo in disparte tutti quei connotati qualificanti che mi erano parsi, invece, decisivi, credo che il cuore pulsante della procedura concorsuale, al fondo, sia uno: la presenza, o la mancanza, di una regola di distribuzione del valore.
Potremo, forse, discutere di istituti concorsuali ed estremizzando, di concorsualità, anche altrove, per il fatto che siano previste misure di protezione del patrimonio o per la semplice ragione che di fronte ad una collettività di creditori si stabiliscano regole di comportamento per il debitore che può scegliere con chi trattare, che può destinare certi proventi a taluni creditori e non ad altri.
Modernizziamo pure la nozione di concorsualità[14], ampliamone la portata e rendiamola più flessibile[15], ma temiamo ben saldo il discrimine tra ciò che si può fare e ciò che si deve fare in relazione ad una determinata scelta del debitore.
Non riuscirò mai a convincermi che là dove manca una regola di distribuzione del valore si sia in presenza di una procedura di concorso[16]; non importa quale regola sia, ma regola legale dev’essere e non regola puramente convenzionale. Questa impostazione, se si vuole, eccessivamente dogmatica, in verità trova un suggello che potrei definire decisivo nell’art. 112 CCII in tema di omologazione del concordato, là dove si precisano in modo dettagliato proprio le regole di distribuzione del valore, intersecandole con quelle del codice civile in tema di graduazione dei privilegi. Quando è la legge che stabilisce come le risorse del debitore debbono essere distribuite tra i creditori, lì troviamo la procedura concorsuale.
Il nostro sistema di diritto della crisi è decisamente complicato, anche se non l’unico perché vi sono altri Paesi dell’Unione europea che contemplano una pluralità di procedimenti; tuttavia, è innegabile che l’ideale della semplificazione immaginato nella Direttiva Insolvency non siamo stati capaci di attuarlo; questa, però, non mi pare una vera e propria colpa perché i principi della Direttiva spesso sono assai sfuggenti ed era necessario adattarli al contesto domestico, anche tenendo conto del rispetto della nostra tradizione e della necessità di conservare, là dove possibili, i paradigmi della concorsualità.
Possiamo, dunque, seriamente dubitare dell’efficienza del sistema nella parte in cui accumula strumenti su strumenti[17] per cercare di risolvere la crisi, ma occorre anche considerare l’importanza delle regole in chiave di sistema, con la conseguenza che se deve essere innestato nell’ordinamento un certo strumento per attuare la Direttiva, è necessario un processo di adattamento al nostro impianto generale che, in questa materia, non può mai ritenersi avulso dal tema della garanzia patrimoniale.
Sarebbe “ingeneroso” assegnare ai procedimenti concorsuali una vocazione esclusivamente “esecutiva”, come modelli organizzati dell’espropriazione forzata, perché la prospettiva liquidatoria del 1942 è ormai lontana (v., infra § successivo). Tuttavia, la spinta verso il risanamento e la conservazione dei valori attivi di una impresa[18] non può obliterare il fatto che i quadri di ristrutturazione gemmano pur sempre da una crisi dell’impresa e la crisi dell’impresa è, ai fini che qui interessano, sempre una crisi esterna perché può essere risolta solo con la partecipazione collaborativa dei creditori, pur quando sia una partecipazione quasi passiva allorché si tratta di “prendere tempo”.
In tale contesto, il soddisfacimento dei creditori resta, sempre, un obiettivo primario (anche prioritario?, v., infra § successivo) ed allora le regole in tema di garanzia patrimoniale e di conseguente distribuzione del valore del patrimonio responsabile non possono essere accantonate o sminuite, quasi fossero un orpello di altri tempi.
Occorre, allora, porsi un quesito di vertice: le parti possono stabilire convenzionalmente come distribuire il valore dell’impresa? La risposta è certamente positiva una volta riconosciuta, ma risaliamo già all’inizio degli Anni ’90, la meritevolezza di accordi volti al superamento della crisi sulla falsariga dei principi generali in materia di contratti (art. 1322 c.c.). Una buona parte del concordato nelle sue mutazioni successive al 2005 non può prescindere, infatti, da un patto di concordato rispetto al quale vengono esaltati valori del contratto[19], cui segue un processo nel quale si valuta e poi si decide se il contratto è adeguato a regolare la crisi in modo da soddisfare i creditori e tutelare gli interessi coinvolti.Sennonché, una determinazione contrattuale delle regole di distribuzione del valore presuppone che tutti siano d’accordo (ipotesi, per vero, di rara frequenza) oppure che l’accordo con i molti liberi risorse per il soddisfacimento dei pochi riottosi ad accettare un accordo.
Questo meccanismo è rappresentato in modo esemplare dagli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis l.fall., ora art. 57 CCII), là dove quando una certa porzione dei creditori è d’accordo, le risorse possono essere ripartite in base alla sola volontà delle parti e possono esserlo senza nessuna regola di omogeneità (salvo che nel caso degli accordi ad efficacia estesa) o simmetria, dal momento che coloro che non partecipano debbono essere soddisfatti per l’intero.
Così riassunto il quadro di riferimento, al momento di operare il recepimento della Direttiva europea si è reso necessario stabilire se adattare alle disposizioni sovranazionali il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione o creare un nuovo strumento/procedimento. La scelta principale è stata quella di adattare il tessuto del concordato preventivo il che ha condotto, è utile ribadirlo, ad un parziale sovvertimento dei principi della legge delega 155/2017[20].
L’impianto della legge fallimentare poi replicato nel codice della crisi ha da sempre elevato a cardine del concordato il principio di maggioranza[21], un principio che non è mai stato scalfito né dal quorum (modificato nel corso del tempo), né dal fatto che sia prevalso il c.d. “silenzio-assenso” o il “silenzio-dissenso”; al fondo, quello che la legge pretendeva era il fatto che la maggior parte dei creditori approvasse la proposta concordataria[22]. La proposta concordataria, però, per quanto flessibile per effetto dell’introduzione delle classi di creditori, non poteva allontanarsi dai paradigmi del rispetto della graduazione tra crediti e della assolutezza della garanzia patrimoniale, solo attenuata secondo alcune letture con riguardo alle c.d. “risorse esterne”, queste a loro volta variamente qualificate.[23]
Diversamente, dagli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, la previsione del Considerando n. 64 a tenore del quale “Gli effetti vincolanti del piano di ristrutturazione dovrebbero essere limitati alle parti interessate che sono state coinvolte nell'adozione del piano” ove fosse stata applicata al concordato, avrebbe portato alla demolizione del pilastro della sua obbligatorietà per tutti i creditori (art. 184 l.fall.) e non credo sarebbe stata una soluzione virtuosa. Il concordato deve rimanere, a tutti gli effetti, una procedura concorsuale universale e, come tale, ben distinta dagli accordi ad efficacia estesa. Certo, al debitore deve essere garantito, come vuole la Direttiva, un transito – ascendente e discendente – tra accordi e concordato, ma al momento della omologazione la scelta tra autonomia negoziale degli accordi e processo deliberativo del concordato deve essere ben netta.
Nel momento in cui si conserva questa distinzione, allora, si apprezza la circostanza per cui il coinvolgimento di tutti i creditori rende necessario un innalzamento del livello del controllo esterno. Mentre per gli accordi, il tribunale deve verificare, ai fini dell’omologazione, che vi sia stato il consenso nella misura necessaria e che i diritti dei terzi non coinvolti siano adeguatamente protetti (nella misura del soddisfacimento omogeneo per gli accordi ad efficacia estesa e il soddisfacimento integrale per i non aderenti), nel concordato preventivo, poiché si realizza un consenso su base deliberativa, il tribunale deve ampliare il proprio raggio di azione ed effettuare una assai più articolata valutazione, in particolare, in ordine al rispetto di alcune regole classiche delle procedure concorsuali (in primo luogo, la verifica dei criteri di distribuzione del valore).
Se queste erano le coordinate di partenza, si trattava di comprendere il significato degli artt. 10 e 11 della Direttiva Insolvency, ma soprattutto della regola unionale della c.d. “ristrutturazione trasversale” che allocata nell’art. 11, prevede condizioni di omologabilità che prescindono dall’essersi formata l’unanimità delle classi e persino la maggioranza. Più precisamente, l’art. 11 lett. b) ii)) rende omologabile un concordato pur se approvato da una sola classe purché (Α) si tratti di classe che in un procedimento liquidatorio sarebbe pregiudicata e (B) e le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori[24].
Questa disposizione contiene una regola di distribuzione del valore, forse non proprio cristallina, ma una regola deve essere considerata. Ecco, allora, che rovesciando la prospettiva, ci si avvede che una proposta di concordato approvata dalla unanimità delle classi non deve osservare alcun criterio distributivo.
Questa disposizione delle Direttiva ha frantumato la nostra tradizione perché ha svalutato il principio di maggioranza (può essere sufficiente l’approvazione di una sola classe) ed ha riconosciuto che, invece, con l’unanimità dell’approvazione delle classi, la distribuzione del valore è libera, ferma restando l’omogeneità all’interno della singola classe.
Applicando alla lettera gli artt. 10 e 11 della Direttiva ne sarebbe conseguito un modello di concordato privo di regole di distribuzione del valore: a molti è parso che questo non fosse tollerabile se si ha cura di rammentare che il concordato preventivo è, di sicuro, una procedura concorsuale e la regola di distribuzione è il cuore pulsante della procedura concorsuale.
Una volta assunta questa incompatibilità a me è parso che non fosse da espellere dal sistema una ipotesi, forse non così frequente, ma neppure troppo rada, che desse rilievo alla unanimità del voto delle classi. In fondo se gli accordi di ristrutturazione vincolano solo gli aderenti, ma gli estranei sono soddisfatti per l’intero, non mi pare eretico pensare che un voto favorevole di tutte le classi sia una condizione importante che legittima l’operazione di ristrutturazione, talché se tutte le classi sono d’accordo si può anche tollerare che le regole di distribuzione non corrispondano alle regole di graduazione del codice civile (artt. 2778 e 2780 c.c.). Il “PRO” va, dunque, a collocarsi in una posizione intermedia tra il concordato preventivo – da cui si distanza per l’assenza di una regola distributiva – e l’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa – da cui si distanza perché non impone che i creditori estranei siano soddisfatti per l’intero.
La valvola di tutela dei creditori dissenzienti è ben salda perché ciascun creditore può chiedere al tribunale, opponendosi alla omologazione, una verifica sull’assenza di pregiudizio e cioè può lamentare la circostanza che una procedura di liquidazione gli assicurerebbe un trattamento migliore (art. 64-bis CCII). Si tratta di una forma di tutela molto seria, perché vale la pena rammentarlo, oggi il singolo creditore dissenziente non è titolato a dolersi del difetto di convenienza se non quando ricorrono le stringenti ipotesi di cui all’art. 180 l.fall.
Le osservazioni appena svolte consentono di esaminare, per coerenza, il tema del controllo del giudice, ai fini dell’omologazione, sulla proposta di concordato in continuità: la Direttiva lasciava al legislatore nazionale l’opzione se seguire l’absolute priority rule (APR)[25] o la relative priorirty rule (RPR)[26]. L’opzione adottata nel decreto in itinere a me pare assai equilibrata perché conferma la APR sul valore di liquidazione e cioè il creditore di rango poziore ha diritto ad essere integralmente soddisfatto, prima di passare al soddisfacimento del creditore di rango inferiore, su quanto si ricaverebbe nell’ipotesi della liquidazione giudiziale; al contrario, il valore crescente, costituito dagli incrementi patrimoniali generati dalla continuità possono essere ripartiti in misura più flessibile perché è sufficiente che il creditore di rango pozione non sia trattato peggio di quello di rango immediatamente successivo; infine, le risorse esterne al patrimonio del debitore possono essere liberamente distribuite. Questa scala degradante ha il pregio di rispettare la tradizione e, al contempo, di dare risalto alla creazione di valore generato dalla prosecuzione dell’impresa.
Tutto ciò vale, non è inutile ribadirlo, per i concordati preventivi che assicurano la continuità dell’impresa perché per quelli liquidatori restano i limiti, penalizzanti, dell’art. 84 CCII nella parte in cui si stabilisce che il debitore deve mettere a disposizione dei creditori una quantità di risorse esterne che sia almeno pari al dieci per cento dell’attivo disponibile al momento della presentazione della domanda[27].
Il codice della crisi, sia nel testo originario sia in quello in progress (si usa questo termine perché nel possibile prossimo decreto correttivo sarà innestata qualche altra norma in materia), supera l’anomia della legge fallimentare, e offre una disciplina del ruolo dei soci sia nelle ristrutturazioni conservative, sia nella liquidazione giudiziale, come pure prende in esame la crisi e l’insolvenza di gruppo.
Note: