Ciò premesso, una delle caratteristiche essenziali (se non quella principale) del concordato semplificato rimane l’assenza del diritto di voto in capo ai creditori. Prima facie, tale carenza appare controbilanciata da due aspetti: da un lato, è prevista la facoltà, per i creditori, di proporre opposizione all’omologa (previa costituzione nel giudizio di omologa, nel termine perentorio di dieci giorni prima dell’udienza all’uopo convocata) e il diritto di proporre reclamo entro trenta giorni avanti alla corte d’appello (avverso la decisione di quest’ultima, il creditore può promuovere ricorso per Cassazione); dall’altro lato, è prevista (sia pur in via implicita) la generica facoltà del creditore di interloquire con l’esperto, con l’ausiliario e con il liquidatore, oltre che il diritto di prendere visione delle relazioni periodiche semestrali predisposte dal liquidatore e richiedere (ove ne ricorrano i presupposti, i.e., un inadempimento non di non scarsa importanza rispetto agli obblighi assunti con la proposta concordataria) la risoluzione del concordato[6]. In altre parole, alla soppressione del diritto di voto suppliscono rimedi di natura procedimentale, per lo più esercitabili in ottica ex post (cioè a ridosso dell’omologa).
Va ricordato, peraltro, come è stato messo in luce da alcuni commentatori[7], che il “concordato senza voto” è in linea con l’articolo 11, comma 1 lett. b (ii), capoverso finale[8] e con il comma 2, ultimo capoverso[9] della direttiva insolvency. Anche volgendo lo sguardo al panorama normativo italiano, l’eliminazione del voto non rappresenta una novità: si pensi, ad esempio, alla liquidazione controllata ed al piano del consumatore per le imprese c.d. “sotto soglia” nella procedura di sovraindebitamento. La presenza di concordati c.d. “coattivi”, cioè privi di una fase formale di votazione, si rinviene anche in altre precedenti esperienze, quali la liquidazione coatta amministrativa (art. 214 L. fall.), l’amministrazione straordinaria (art. 78 L. fall.) e la liquidazione coatta bancaria e assicurativa[10].
La mancanza del diritto di voto, in ogni caso, rende il concordato semplificato uno strumento per molti versi anomalo, appropriato in caso di strategie volte ad eludere, di fatto, i diritti e le tutele generalmente riconosciute ai creditori. Proprio perché esente dall’obbligo di raccogliere il consenso dei creditori, il concordato semplificato è soggetto al rischio di utilizzi strumentali e potenzialmente distorti da parte del debitore, oltre che di un potenziale squilibrio tra le esigenze del debitore e aspettative dei creditori.
Come messo in luce da autorevoli commentatori[11], la normativa sul concordato semplificato ammette, sia pur implicitamente, non solo la soddisfazione minimale, ma anche la soddisfazione a zero per i creditori (quand’anche prelatizi degradati), purché vengano rispettati i già citati requisiti procedurali.
Nulla esclude, peraltro, che il debitore chieda l’accesso alla composizione negoziata della crisi proprio con l’obiettivo (inespresso) di avvalersi, poi, del concordato semplificato (dunque, solo per perseguire l’interesse ad imporre, di fatto, ai creditori un piano puramente liquidatorio, in assenza dei vincoli derivanti dalla raccolta del consenso dei destinatari). Non è escluso, infatti, che la composizione negoziata si interrompa per iniziativa del debitore stesso (che potrebbe addurre l’impossibilità di perseguire le ipotesi di risanamento delineate ab initio), virando improvvisamente sul concordato semplificato e facendo emergere, così, la propria reale intenzione (quella di eludere l’obbligo di trovare un accordo negoziale con i propri creditori) e, dunque, l’assenza di un reale progetto imprenditoriale volto al ripristino della continuità e al riequilibrio della posizione finanziaria dell’azienda.
D’altra parte, le citate norme procedurali non sembrano escludere (né limitare) il rischio di tali approcci opportunistici (nel senso del ricorso strumentale alla composizione negoziata e poi al concordato semplificato). Né i requisiti che il debitore deve soddisfare, né le verifiche che il tribunale è chiamato a compiere (anche sulla base dei pareri resi dall’esperto e dall’ausiliario) sembrano in grado di “catturare” tali usi distorti della composizione negoziata: come si è detto, la proposta di concordato semplificato deve far emergere che «le soluzioni presentate [nel corso della composizione negoziata, ndr] non sono praticabili» e che le trattative si sono svolte con correttezza e buona fede. Il piano concordatario è soggetto ad omologa da parte del tribunale, valutata la «ritualità» della procedura, i pareri dell’esperto (sui «presumibili risultati della liquidazione» e sulle garanzie offerte) e dell’ausiliario, le risultanze istruttorie, la regolarità del contraddittorio, il rispetto dell’ordine dei privilegi, la fattibilità del piano di liquidazione, l’assenza di pregiudizi rispetto alla liquidazione giudizialee la presenza di un’utilità a favore di ciascun creditore (nonché, se del caso, l’assenza di soluzioni migliori sul mercato): nessuno di tali elementi sembra in grado di far emergere, di per sé solo, l’approccio opportunistico dell’imprenditore. La composizione negoziata, per ipotesi, potrebbe essere espletata nel pieno rispetto formale del principio di buona fede e correttezza, con il coinvolgimento dei creditori nelle trattative e l’illustrazione di un piano industriale e finanziario che, tuttavia, l’imprenditore non intende realmente attuare. Il parere dell’esperto, volto a certificare che le soluzioni presentate non sono percorribili, potrebbe essere (adeguatamente) argomentato e motivato da ragioni di carattere industriale apparentemente realistiche, verosimili e ragionevoli. Ai creditori, per converso, non resterebbero che i rimedi di cui si è detto: l’opposizione all’omologa, magari motivata dall’arbitrario accantonamento di soluzioni che avrebbero potuto essere coltivate (e che, quindi, erano “percorribili”), ma sono state, appunto, irragionevolmente e strumentalmente abbandonate[12] (si assume, infatti, che il debitore fosse animato, fin dall’avvio della composizione negoziata, da ben altri intendimenti, i.e., l’aggiramento dei diritti dei creditori, attraverso l’imposizione di un piano liquidatorio che non necessita di essere votato o accettato dai suoi destinatari). Si tratta, tuttavia, verosimilmente, di una probatio diabolica, in cui le chances di successo del creditore opponente appaiono scarse (non essendo agevole offrire la prova del carattere fraudolento, strumentale o distorto, nella sostanza, degli strumenti procedurali previsti dalla normativa, se non sotto il profilo dei princìpi generali di buona fede, correttezza e trasparenza e nella forma di un abuso processuale: aspetti che non sembrano poter ricadere nella delibazione del giudice in sede di omologa, se non incidentalmente, attraverso una interpretazione estensiva del principio di “buona fede e correttezza”, che, però, si riferisce solo alla trattativa in composizione negoziata e non necessariamente al “disegno” del debitore nel suo complesso).
Per inciso, alcuni Autori[13] hanno prefigurato, in via interpretativa, anche la possibilità di ricorrere allo strumento della tutela risarcitoria, nei termini prevista dall’articolo 16, ultimo capoverso della direttiva insolvency[14]. Il legislatore, infatti, offre a ciascun creditore la possibilità di opporsi all’omologa (con la conseguenza che anche il titolare di un credito di importo marginale può bloccare l’omologazione concordataria), il che, secondo i sostenitori della teoria indennitaria, dovrebbe giustificare uno strumento di tutela suppletiva, quale appunto quello di natura risarcitoria. La tesi, tuttavia, non sembra cogliere nel segno, se non altro perché la citata norma della direttiva insolvency presuppone, comunque, che si siano verificate perdite monetarie (aspetto che non si può dar per scontato) e che “l’impugnazione sia stata accolta”.
La potenziale sproporzione tra i vantaggi offerti al debitore dal concordato semplificato e le controindicazioni (per i creditori) ha indotto anche il tribunale di Como, nel decreto in commento, a soffermarsi sul punto, nel tentativo di individuare un correttivo o una ratio interpretativa, che permetta di edulcorare almeno le situazioni di eccessivo o più iniquo squilibrio. Il tribunale ha affermato, così, che gli “indubbi vantaggi comparativi con la disciplina del concordato preventivo appaiono tuttavia maggiormente comprensibili se (i) declinati guardando alla fase precedente della presentazione della domanda, ovvero alla fase della composizione negoziata, nella quale del resto la negoziazione è già proceduralmente avvenuta dinanzi all’esperto, rivelandosi improduttiva ed (ii) avendo riguardo alla prospettiva di cooperazione della negoziazione ed al più accentuato aspetto privatistico della disciplina proposta rispetto a quella del concordato preventivo, maggiormente volta a far emergere la crisi in uno stadio anticipato ed affrontarla e risolverla, ove possibile, in coerente applicazione dei princìpi propri della direttiva insolvency e, a cascata, del Codice della Crisi e dell’insolvenza”.
A parere di chi scrive, tali considerazioni non appaiono dirimenti, né sufficienti a fugare ogni dubbio sulle insidie del concordato semplificato, nei termini di una possibile elusione dei diritti dei creditori, in nome di una pretesa “anticipazione” della tutela dei terzi. Tale squilibrio appare tanto più evidente se si considera che il concordato semplificato è affrancato dalle garanzie di competitività previste nel concordato preventivo (come disciplinate sia dalla legge fallimentare, sia dal Codice della Crisi, in materia di vendita di azienda). La normativa (sia quella contenuta nel D.L. n. 118/2021, sia quella confluita nel Codice della Crisi) non prevede, infatti, alcun obbligo, a carico del debitore, di assicurare la liquidazione dei beni mediante procedura competitiva di vendita (l’art. 25 septies CCII si limita a dichiarare applicabili gli articoli 2919-2929 c.c., che, però, nulla prevedono sulle modalità di vendita dei beni). All’opposto, il concordato preventivo soggiace al principio generale della competitività, nell’ottica di assicurare ai creditori il massimo realizzo, pur tenendo conto di alcune possibili eccezioni (ci si riferisce all’articolo 94, comma 6 CCII, in base al quale “il tribunale, in caso di urgenza, sentito il commissario giudiziale, può autorizzare gli atti previsti al comma 5 senza far luogo a pubblicità e alle procedure competitive, quando può essere compromesso irreparabilmente l’interesse dei creditori al miglior soddisfacimento. Del provvedimento e del compimento dell’atto deve essere comunque data adeguata pubblicità e comunicazione ai creditori”). Fatte salve tali eccezioni (che restano, comunque, limitate, considerato il requisito della “irreparabile compromissione dell’interesse dei creditori al miglior soddisfacimento”), vige il generale principio della competitività delle procedure di vendita (a presidio dell’interesse del ceto creditorio nel suo complesso), aspetto, invece, del tutto assente nel concordato semplificato.
Ne consegue, inevitabilmente, che, nel concordato semplificato, il debitore rimane del tutto libero di disporre dei beni che compongono il proprio patrimonio, anche attraverso trattative individuali e bilaterali, sulla base di valori liberamente negoziati con la relativa controparte (con il limite della par condicio creditorum[15] e con l’unica controindicazione di possibili responsabilità personali, per atti distrattivi, qualora venisse avviata, in seguito, una procedura di liquidazione giudiziale).
Anche in un’operazione di investimento da parte di un soggetto terzo (ad esempio, l’acquirente dell’azienda o di un ramo d’azienda - ipotesi prevista nel caso sottoposto al tribunale di Como), il debitore resta libero di definire bilateralmente i termini e le condizioni con l’investitore (potendosi prevedere anche un contratto preliminare di acquisto d’azienda sospensivamente condizionato all’omologa del tribunale, o altre forme di prelazione potenzialmente in conflitto con il principio della competitività delle procedure di vendita).