Iniziando il percorso dall’istituto in cui l’intervento giudiziale è solo eventuale, almeno come connotazione di sistema, può essere interessante prendere le mosse dalla considerazione preliminare, che dà una coloritura generale all’atteggiamento del legislatore in materia di crisi di impresa, secondo cui pare potersi individuare una propensione a favore dell’intervento del giudice anche laddove non sarebbe strettamente necessario, quantomeno in relazione ai vincoli posti dalla legislazione sovranazionale e, in particolare e per quanto qui interessa, dalla citata Direttiva.
Una delle maggiori novità della disciplina codicistica è la fine delle misure protettive automatiche, dovendo un giudice obbligatoriamente disporle o almeno tempestivamente confermarle. Gli artt. 54 e 55 del Codice (testo cui si farà riferimento citando gli articoli quando non diversamente indicato) disciplinano i presupposti e le modalità per la concessione delle misure, per la loro conferma in caso di automatica applicazione, per la modifica o la revoca delle stesse, mentre l’art. 8 ne definisce la complessiva durata.
Lo schema viene replicato anche nella composizione negoziata con l’art. 18 (già art. 6 del D.L. n. 118/2021) laddove si prevede che la richiesta per la concessione di misure protettive possa essere contenuta nella stessa istanza di nomina dell’esperto o in un atto successivo e che, dal momento delle pubblicazione nel registro delle imprese dell’istanza stessa e dell’accettazione dell’esperto, si applichi automaticamente il divieto per i creditori di acquisire diritti di prelazione se non concordati con l'imprenditore e di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul suo patrimonio o sui beni e sui diritti con i quali viene esercitata l'attività d'impresa; entro il giorno successivo, tuttavia, deve essere richiesta la tribunale la conferma delle misure, pena l’inefficacia delle stesse.
Se ci si domanda se questa fosse una soluzione obbligata la risposta dovrebbe essere negativa.
Dal considerando 32 della Direttiva Insolvency[2] emerge che è possibile che la sospensione temporanea delle azioni esecutive individuali sia concessa non solo da un’autorità giudiziaria o amministrativa ma possa verificarsi anche solo per legge e quindi in modo automatico e senza necessità di conferma. Per contro il D.L. n. 118/2021 prima e il decreto legislativo di recepimento della Direttiva che lo trasfonde nel Codice poi prevedono indefettibilmente l’immediato controllo del tribunale a conferma del provvisorio stay still. Pienamente conforme alla direttiva (cons. 35[3] e 36[4]) è invece il necessario intervento giudiziario per consentire la proroga, le modifiche e la cessazione del regime protetto.
Considerazioni analoghe mi pare possano essere fatte per quanto attiene al necessario collegamento previsto sia nel D.L n. 118/21 che in quello di recepimento tra concessione e durata delle misure e sospensione della possibilità di aprire la liquidazione dei beni in quanto mentre la Direttiva (cons. 38[5]) prevede la necessità che alla concessione delle misure consegua anche la sospensione della possibilità di aprire la liquidazione nulla fa ritenere che detta sospensione non potesse, in alternativa, essere disposta o conseguire per legge alla sola apertura della negoziazione prescindendo, dunque, dalla richiesta di misure protettive, come avviene per la sospensione degli obblighi di intervento sul capitale e di scioglimento (art. 20); detta previsione alternativa, d’altra parte, potrebbe essere considerata come logica in quanto se pure è possibile che una negoziazione prosegua utilmente anche in presenza di un’azione esecutiva, magari limitata a beni non funzionali all’esercizio dell’impresa, è invece assolutamente ostativa l’apertura della prima; in altri termini: se si ritiene che ci siano le condizioni per iniziare e proseguire la negoziazione (e per questo non è necessario un intervento giudiziale) dovrebbe essere conseguente l’automatica sospensione della possibilità di aprire la liquidazione giudiziale e controllata.
Sempre in tema di intervento giudiziale e a completamento del discorso si può segnalare una minore propensione della Direttiva per l’iniziativa d’ufficio, posto che si ritiene che la valutazione della rispondenza del piano al miglior interesse dei creditori dovrebbe essere effettuata solo se vi è contestazione sul punto, così come si ritiene che il giudice debba poter rifiutare di omologare piani di ristrutturazione che risultino privi di prospettive ragionevoli di impedire l'insolvenza del debitore o di garantire la sostenibilità economica dell'impresa ma che, tuttavia, gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti a garantire che tale valutazione sia effettuata d'ufficio (cons. 50[6]).
Concludendo su questa sintetica carrellata di principi, è opportuno precisare che non si vuole ovviamente contestare né la legittimità né il merito delle scelte del legislatore ma solo evidenziare che tra più opzioni è stata scelta quella maggiormente volta all’eterotutela dei soggetti interessati e quindi all’intervento del tribunale e una tale scelta di fondo non può non avere ricadute laddove possano sorgere dubbi interpretativi sul perimetro di valutazione del giudice.
Per l’intervento giudiziale nella fase della composizione negoziata non si possono tentare utili raffronti tra la procedura di allerta, imposta e sostanzialmente dettata dalla legge delega 19 ottobre 2017, n. 155, e il D.L n. 118/2021, in quanto l’intervento giudiziale nella prima era sostanzialmente relegato alle misure protettive.
Facendo un raffronto tra l’impostazione del Codice, come integrato dal decreto di recepimento, e quella del D.L. n. 118/2021 emerge come, almeno per quanto concerne il perimetro di valutazione del giudice nei casi in cui è chiamato ad intervenire, [7] non vi siano differenze, mentre sono diminuite le occasioni in quanto non è più prevista la possibilità di adire il tribunale per ottenere per via giudiziale la modifica delle condizioni contrattuali quando l’invito dell’esperto a rinegoziarle in buona fede non viene accolto, ad eccezione dell’ipotesi in cui l’eccessiva onerosità sopravvenuta sia conseguenza della pandemia da COVID[8].
Per la verità questo perimetro è indicato solo in modo parziale nel comma 4 dell’art. 19 dedicato al decreto del tribunale ove si prevede, ma solo in via indiretta desumibile dal tenore del parere da richiedersi all’esperto, che il giudice confermi le misure previo accertamento della loro funzionalità ad assicurare il buon esito delle trattative. Detto perimetro viene meglio delineato nel comma 6 dello stesso articolo quando si disciplina l’eventuale proroga, modifica o revoca cui il tribunale può addivenire previa verifica che le misure già adottate soddisfano o no l'obiettivo di assicurare il buon esito delle trattative e appaiono o no sproporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori istanti.
Questa richiamata è la valutazione che il tribunale è espressamente tenuto a fare circa il merito della domanda ma la giurisprudenza ha già chiarito che il giudice non rinuncia a indagare preliminarmente la sussistenza dei presupposti per l’apertura stessa o la continuazione della composizione negoziata attraverso un giudizio, sempre più rigoroso man mano che il percorso negoziale si dipana, circa la prospettiva della risoluzione della crisi[9]. E’ presto per dire se la giurisprudenza farà un percorso analogo a quello in tema di fattibilità economica e quindi il blocco del percorso negoziale possa avvenire solo se l’irrealizzabilità della risoluzione appaia manifesta (che dovrebbe però essere una situazione limite) oppure se il tribunale si arrogherà il potere di affrontare situazioni caratterizzate da margini di opinabilità, anche entrando così in conflitto con l’esperto che non avesse ritenuto di richiedere l’archiviazione e i creditori che, manifestando il consenso alla prosecuzione delle trattative, hanno dato credito alla prospettiva illustrata dal debitore.
L’art. 23 tratta delle autorizzazioni che possono essere richieste al tribunale in fase di trattative e che attengono o ai finanziamenti necessari per la prosecuzione dell’attività che possono essere concessi da terzi o dai soci, e che non necessariamente devono sopperire alle necessità strettamente connesse alla fase della negoziazione ma possono anche essere finalizzati a supportare l’attività prevista dopo la conclusione delle stessa[10], oppure alla cessione dell’azienda.
Tali atti non sono soggetti ad autorizzazione in quanto atti di straordinaria amministrazione poichè la circostanza che l’imprenditore mantenga l’amministrazione e la gestione dell’impresa esclude la necessità di un controllo preventivo sulla sua attività di gestione. La categoria rileva tuttavia ad altri fini in quanto se un atto così qualificabile, di cui l’imprenditore deve preventivamente rendere edotto l’esperto, si scontra con la valutazione di quest’ultimo che lo ritiene pregiudizievole per i creditori, viene ugualmente posto in essere è prevista l’iscrizione del dissenso nel registro delle imprese e ciò può comportare una richiesta al tribunale di revoca di eventuali misure protettive che siano state concesse (art. 19, c. 6).
Riprendendo il discorso sui finanziamenti e la cessione dell’azienda, è opportuno evidenziare che l’autorizzazione non rileva ai fini della validità dei contratti ma è necessaria per la prededucibilità del credito dei finanziatori, nel primo caso, e per la validità della clausola che esclude la responsabilità solidale dell’acquirente ex art. 2560, comma 2, nel secondo, fermi restando i diritti dei lavoratori.
Il criterio di valutazione per entrami i casi è la funzionalità degli atti rispetto alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori da intendersi non solo rispetto all’alternativa liquidatoria ma anche ad un piano che in difetto di finanziamenti preveda risultati, in termini di soddisfacimento dei creditori, meno brillanti.
Maggiormente articolati sono i criteri cui deve attenersi il giudice allorché viene richiesto di autorizzare la cessione dell’azienda con l’esenzione dal dettato dell’art. 2560 c.c. dal momento che gli si chiede di tenere conto delle istanze delle parti interessate al fine di tutelare gli interessi coinvolti.
Un primo aspetto da valutarsi da parte del tribunale è naturalmente rappresentato dalla congruità del prezzo proposto, in relazione al quale gli interessi del debitore e dei creditori potrebbero non coincidere; il debitore, da un lato, potrebbe infatti avere interesse a favorire un determinato possibile acquirente e, d’altra parte, alcuni creditori interessati a proseguire i rapporti commerciali potrebbero vedere di buon occhio la cessione ad altro imprenditore che fornisce solide garanzie di continuazione dell’attività anche al prezzo di ricevere un pagamento parziale dei crediti pregressi, mentre altri creditori potrebbero avere il solo fine di ottenere il maggior soddisfacimento possibile. Pare comunque potersi ritenere che, nell’impossibilità di conciliare le diverse aspettative, il tribunale non possa che privilegiare il miglior risultato possibile sotto il profilo strettamente economico, posto che l’interesse al soddisfacimento dei creditori è sempre quello primario nel sistema del Codice, come lo è, d’altra parte, nella legge fallimentare[11], in quanto se è vero che l’attuale disciplina pone formalmente sullo stesso piano l’interesse dei creditori e la continuità aziendale[12], è anche vero che laddove è previsto il voto o comunque una maggioranza una gerarchia è chiara.
Più difficile è individuare quali possono essere le valutazioni e gli interventi del tribunale al fine di garantire corrette modalità di pagamento dei creditori. E’ da chiedersi, infatti, come possa il tribunale contemperare con le esigenze dei creditori il venir meno della garanzia che per loro costituiva l’azienda ceduta. Nulla questio, o quasi, se il valore della cessione copre l’indebitamento, in quanto si tratta solo di vincolare la disponibilità della somma ricavata dalla cessione al pagamento dei creditori in base ad un piano di riparto predisposto dal debitore, posto che se insorgono contestazioni, e queste non mettono in discussione il pagamento dei crediti non contestati, è solo necessario attendere la decisione del giudice ordinario prima di svincolare le somme accantonate. Ma se l’importo ricavato dalla cessione è inferiore ai debiti e ferma restando la possibilità che il tribunale apponga un vincolo sul corrispettivo della cessione, tipo deposito vincolato all’ordine del giudice, è tutto da accertare come il giudice, chiamato a stabilire le cautele, possa interloquire sull’ordine di distribuzione del ricavato tra i creditori, dal momento che appare ovvio che eventuali contestazioni debbano essere decise dal giudice ordinario, mentre l’esperto esce di scena avendo la negoziazione raggiunto lo scopo. Mutuando dalla disciplina del concordato liquidatorio semplificato la possibilità di un ampliamento dei presupposti per la nomina di un ausiliario anche per attività proprie di tipici organi delle procedure di crisi (art. 25 septies, c. 3), può ritenersi possibile la nomina di un ausiliario-custode con l’incarico di custodire e amministrare il ricavato della cessione in relazione all’esito dell’eventuale contenzioso che potrebbe scaturire dalle proposte di riparto che il debitore deve necessariamente rivolgere ai creditori, sempreché il primo non opti per l’accesso ad uno degli esiti previsti dall’art. 23 o un creditore richieda l’apertura della liquidazione giudiziale.