L’analisi prima condotta dei precedenti dottrinali e normativi ha evidenziato come l’idea stessa di una RPR, quale paradigma alternativo idoneo a correggere le rigidità della APR, consentendo di soddisfare interessi da questa messi in ombra, trovi per lo più giustificazione nell’esigenza di coinvolgere nella distribuzione del valore dell’impresa in crisi oggetto di ristrutturazione, oltre che alcune categorie di creditori junior, e però strategici per il buon esito della reorganization, anche e, in effetti, soprattutto i soci.
Si sono in precedenza pure richiamate le previsioni in tema di soci contenute nella Direttiva Insolvency, insieme alle premesse svolte nei relativi considerando, dei quali particolarmente eloquente è il già citato cons. n. 56,
Ben si spiega perciò che, nell'introdurre nel CCII una espressa ed inedita disciplina della distribuzione secondo regole di “priorità relativa”, quantomeno con riferimento al concordato preventivo in continuità aziendale, nell’ultima fase di gestazione della riforma prima della sua entrata in vigore, con il decreto n. 83/2022, siano state con lo stesso strumento inserite all’art. 120 quater CCII apposite previsioni – all’interno della nuova disciplina “Degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società” (artt. da 120 bis a 120 quinquies), con la quale si è in parte colmato un singolare vuoto della previgente normativa quanto specificamente alla ristrutturazione delle società [53] – circa possibili attribuzioni ai soci del “valore risultante dalla ristrutturazione” nel concordato preventivo [54], e segnatamente, nel solo concordato preventivo in continuità aziendale (come per la RPR che solo per questo – si è detto prima – è ora prevista), come evidenzia il riferimento al valore appunto “risultante dalla ristrutturazione”, generato cioè dalle attività previste dal piano anziché preesistente nel patrimonio del debitore, come nel modello liquidatorio [55]; e come confermato dall’ultimo comma dell’art. 120 quater, che estende le disposizioni dello stesso articolo “in quanto compatibili, all'omologazione del concordato in continuità aziendale presentato dagli imprenditori individuali o collettivi diversi dalle società e dai professionisti”.
In particolare, il comma 1 dell’art. 120 quater del CCII contempla l’ipotesi in cui il piano preveda che il suddetto valore risultante dalla ristrutturazione “sia riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda”, per stabilire le condizioni alle quali in detta ipotesi il piano può essere omologato, “fermo quanto previsto dall’art. 112”, nel caso di dissenso di una o più classi di creditori.
Prima di ogni altra considerazione, serve ricordare che, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 120 quater, per “valore riservato ai soci” deve intendersi “il valore effettivo, conseguente all'omologazione della proposta, delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquisirle”.
Le “attribuzioni” di cui qui si parla [56], in tal senso, attengono alla possibilità per i soci di “mantenere interessi” [57] nella società quale risulterà all’esito della ristrutturazione (il valore “conseguente alla omologazione della proposta”) in base alla conservazione o al riacquisto di partecipazioni sociali o di strumenti per acquisirle (opzioni, warrant, etc.) anziché vedere ridotti o azzerati tali interessi in ragione delle perdite che tipicamente connotano la crisi e che normalmente conducono i soci ad essere wiped out dagli esiti della ristrutturazione, non soltanto per via, ad esempio, di riduzione fino all’azzeramento del capitale sociale e nuovo aumento con esclusione del diritto di opzione dei vecchi soci – nel caso di prosecuzione della stessa società pur profondamente ristrutturata –, bensì già semplicemente per il fatto che la società risulti normalmente priva di ogni valore attivo residuo, una volta destinate le risorse disponibili al soddisfacimento dei creditori sì da essere comunque avviata all’estinzione.
Non si tratta invece, parlando di tali “attribuzioni”, del soddisfacimento di possibili (veri e propri) crediti eventualmente spettanti ai soci al di là del rapporto partecipativo in sé – come quelli derivanti da finanziamenti o altri versamenti con obbligo di restituzione (siano o no postergati rispetto agli altri creditori) realizzati in precedenza dai soci medesimi senza alcun nesso con l’attuale processo di riorganizzazione, o dipendenti da altre ragioni di credito derivanti da dividendi in passato deliberati e non distribuiti o ancora da eventuali rapporti negoziali ulteriori fra soci e società – per i quali dovrà invece applicarsi l’ordinaria disciplina del trattamento dei diritti dei creditori [58].
D’altra parte, dal valore come sopra in ipotesi “riservato ai soci”, ai sensi del medesimo art. 120 quater comma 2, deve essere “dedotto il valore da essi eventualmente apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto oppure, per le imprese minori, anche in altra forma”: a rilevare infatti, onde subordinarla alle condizioni di legge, è qui la distribuzione (il più delle volte, rectius, la conservazione) ai soci di un valore che, in alternativa, potrebbe/dovrebbe essere destinato ai creditori, in quanto attinente al patrimonio della società debitrice; dal che appunto l’esigenza di porre condizioni alla omologazione di un piano che preveda una simile diversa destinazione; mentre non rilevano invece gli apporti o versamenti a fondo perduto realizzati dagli stessi soci, in quanto “risorse esterne” al patrimonio del debitore che come tali – secondo il paradigma della new value exception – possono essere distribuite in deroga alle regole ordinarie di cui agli artt. 2740 e 2741 c.c. (cfr. art. 84, comma 3, CCII).
Di un valore siffatto, l’art 120 quater, comma 1, CCII, contempla la possibilità, non anche l’obbligo, che sia “riservato ai soci”, attingendo al “valore risultante della ristrutturazione”.
Del resto, un obbligo di consentire ai soci di “mantenere gli interessi” nella società potrebbe al più astrattamente configurarsi soltanto allorché le risorse disponibili, “risultanti” appunto “dalla ristrutturazione”, eccedessero quanto necessario all’integrale soddisfacimento dei creditori, in applicazione della APR, ai quali non potrebbe allora destinarsi anche l’eventuale residuo attivo, tenuto conto della condizione espressamente posta dall’art. 112, comma 2, lett. c), secondo cui “nessun creditore riceve più dell’importo del proprio credito”, oltre che della dovuta salvaguardia - anche qui in ossequio alla APR - della pretesa residuale spettante ai soci, la cui ingiustificata pretermissione si risolverebbe in una espropriazione contraria alla tutela costituzionale del diritto di proprietà ed ai principi fondamentali sanciti dalla CEDU [59].
D’altra parte, ove i soci ritenessero che il piano di ristrutturazione sia congegnato in modo da non preservare adeguatamente la loro aspettativa a “mantenere interessi” nella società post reoganization, essi potrebbero tutelarsi, secondo l’art. 120 bis, comma 5, CCII, presentando – purché rappresentanti almeno il dieci per cento del capitale – proposte concorrenti ai sensi dell’art. 90 CCII; e potrebbero altresì – così dispone l’art. 120 quater, comma 3 – “opporsi all’omologazione del concordato al fine di far valere il pregiudizio subito rispetto all’alternativa liquidatoria”, invocare cioè l’effettuazione nei loro confronti del best interest of creditors test.
L’ipotesi tipica considerata dalla disciplina in commento, in effetti, è quella invece in cui il reorganization value non sarebbe di per sé sufficiente all’integrale soddisfacimento dei creditori, in quanto tali sovraordinati nel rango delle loro pretese rispetto ai soci quali residual claimant, ove trovasse applicazione il regime ordinario della priorità assoluta: di qui dunque la prevista applicazione, onde consentire ugualmente una attribuzione di valore anche ai soci, ed al fine di soddisfare le esigenze in tal senso ricavabili dalla Direttiva e dai precedenti interpretativi e normativi prima ricostruiti, di un congegno riconducibile alla RPR, sia pure secondo una peculiare modalità applicativa, come subito si dirà.
Ciò conduce peraltro a precisare ulteriormente – tenuto conto dell’incipit dell’art. 120 quater (“fermo quanto disposto dall’art. 112”) e trattandosi di coinvolgere i soci nella distribuzione di un “valore risultante dalla ristrutturazione”, che altrimenti sarebbe loro precluso secondo l’APR, in quanto insufficiente al pagamento integrale delle classi poziori di interessi (quelle di tutti i creditori, anche del rango più basso comunque superiore a quello residuale dei soci), così da dover fare piuttosto richiamo, a tal fine, al paradigma alternativo della RPR – che l’eventuale “valore riservato ai soci” potrà attingersi dalla sola porzione del “valore risultante dalla ristrutturazione” che corrisponde al “valore eccedente quello di liquidazione”, in conformità al disposto degli artt. 84, comma 6, e 112, comma 2, lett. b), CCII [60].
A proposito di RPR, l’art. 120-quater, comma 1, nello stabilire le condizioni per l’omologazione del concordato preventivo che preveda la suddetta riserva di valore ai soci, in caso di dissenso di una o più classi di creditori, delinea peraltro una versione peculiare – e problematica – della “priorità relativa”, rispetto alla già vista regola sancita dagli arrt. 84 comma 6 e 112, comma 2, lett. b), CCII.
Il testo normativo è piuttosto intricato, sicché conviene scomporlo ed analizzarlo per gradi.
Fin d’ora, si segnala che non basta qui la verifica giudiziale – come in base all’art. 112, comma 2, lett. b) – che “i crediti inclusi nelle classi dissenzienti ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore”.
Nell’ipotesi ora in esame si richiede invero una verifica più complessa.
Qui infatti il concordato può essere omologato “se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti” (non soltanto è attualmente, secondo il piano proposto, ma per di più) “sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi”, cioè alle classi di pari rango o di rango inferiore “venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci” (corsivo ns.).
Si richiede così, onde concedere l’omologazione, una complessa attività di simulazione e valutazione, mediante verifica che in un ipotetico scenario alternativo, nel quale il valore ora riservato ai soci venisse invece – in ossequio alla già vista facoltatività dell’attribuzione agli equity holder – trattenuto ai creditori, “risalendo” [61] alle classi (consenzienti) dei creditori che hanno pari rango o rango inferiore rispetto alle classi di creditori dissenzienti, queste ultime (le classi dissenzienti) conserverebbero comunque un trattamento conforme alla RPR, in quanto “almeno altrettanto favorevole” delle classi di pari grado e “più favorevole” delle classi inferiori.
Per superare un simile test, l’ipotesi richiede allora che il valore riservato ai soci sia stato tendenzialmente tratto, o in altre parole messo a disposizione dalle classi (non solo) consenzienti (ma anche) di grado pari o inferiore rispetto ai dissenzienti, attingendo al valore che sarebbe stato loro altrimenti attribuito in caso di indisponibilità a concedere alcunché ai soci.
Un esempio potrà forse chiarire meglio il discorso.
Ipotizziamo – per maggiore semplicità – che vi siano solo classi di creditori di pari rango, alcune delle quali dissenzienti, e sia prevista una attribuzione di valore ai soci.
Per l’omologazione, applicando la verifica anzidetta, sarà sufficiente che, ristornando ipoteticamente e figurativamente il valore riservato ai soci alle classi consenzienti, il trattamento di ciascuna classe dissenziente resti “almeno altrettanto favorevole” rispetto alle altre classi.
Evidentemente, ciò sarà possibile solo se, nell’attuale proposta, le classi dissenzienti risultino invece trattate più favorevolmente delle altre pur se di pari rango, almeno per una differenza pari al valore – ripartito fra le classi – destinato ai soci; soltanto cosi, infatti, facendo per ipotesi risalire detto valore alle consenzienti, potrà ipotizzarsi un trattamento rispetto a queste pur sempre “altrettanto favorevole” delle dissenzienti.
Se, in altre parole, pur reimputando fittiziamente il valore, che il piano destina ai soci, alle classi di pari rango consenzienti, il trattamento delle classi dissenzienti resta almeno “altrettanto favorevole” delle altre, ciò vuol dire che nel piano, senza quella risalita di valore, il trattamento riservato ai dissenzienti è più favorevole rispetto alle classi consenzienti di uguale livello.
Del resto: per un verso, requisito di applicazione della RPR è che i crediti delle classi dissenzienti ricevano un trattamento “almeno pari” a quello delle classi dello stesso grado e “più favorevole rispetto alle classi di grado inferiore (art. 112, comma 2, lett. b), sicché anche rispetto alle classi di uguale rango il trattamento può essere legittimamente più favorevole (la soglia non è un soddisfacimento “pari”, bensì “almeno pari”); per altro verso, una parità di trattamento è imposta solo fra “creditori all’interno di ciascuna classe” (cfr. art. 112, comma ,1, lett. e), non fra classi diverse pur di pari livello, fra le quali è invece possibile – per diffusa opinione – prevedere trattamenti differenziati, ad esempio in ragione della diversità di interessi economici (fornitori, creditori commerciali, creditori non strategici, etc.) [62].
Il che induce ad almeno un duplice ordine di considerazioni
La prima è che si evidenzia nel descritto congegno come l’ipotesi di una attribuzione di valore risultante dalla ristrutturazione ai soci anteriori passi per lo più attraverso un “patto” fra classi di creditori (fin d’ora consenzienti) ed equity holders, capace di prefigurare l’esistenza al momento della votazione di eventuali classi di creditori dissenzienti, al fine di prevedere per queste un trattamento nel piano che le tenga il più possibile indenni dal sacrificio necessario ad includere i soci “in the picture”, onde superare l’omologazione ai sensi dell’art. 120-quater, comma 1, CCII, ed assicurare così il varo della progettata ristrutturazione.
Serve dunque una precisa e accorta strategia di organizzazione dei consensi e di redazione del piano nel senso suddetto.
V’è peraltro da chiedersi perché non possano darsi patti anche più ampi, che ad esempio prevedano che siano le classi senior consenzienti a “staccare” dichiaratamente nel piano, da quanto loro astrattamente potrebbe spettare, secondo le regole di RPR combinate con il BIT, il valore necessario da riservare ai soci; nel quale caso non vi sarebbe ragione della descritta simulazione mediante risalita fittizia del valore alle classi pari o sottordinate alla classe dissenziente, potendosi limitare la verifica al BIT in favore delle classi intermedie e classi junior e, salva questa soglia, alla corretta applicazione della RPR fra queste classi, atteso che quanto loro destinabile non verrebbe intaccato da quanto riservato ai soci.
La seconda considerazione induce a precisare che il criterio distributivo retto dalla RPR, che l’art. 84, comma 6, CCII – nel delineare le “finalità del concordato preventivo e tipologie di piano” – individua come ammissibile, per l’allocazione del “valore eccedente quello di liquidazione” nel concordato in continuità aziendale”, disponendo che “è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore”, non sembra possa essere inteso come un requisito rigido di ammissibilità della domanda, perché verificare ex ante che i crediti inseriti in ciascuna classe – anziché, ex post, che i crediti inseriti nella classe dissenziente, come invece prevede la Direttiva Insolvency, all’art. 11 comma 1 [63] – ricevano complessivamente “un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado”, significherebbe imporre che classi dello stesso rango ricevano tutte un identico trattamento (altrimenti la verifica non potrebbe avere esito positivo per ciascuna classe, ove per qualcuna si andasse al di là dell’almeno): il che non soltanto è contrario al pacifico assunto – prima ricordato – secondo cui è possibile differenziare il trattamento fra classi di pari livello, ma per di più renderebbe impraticabile l’ipotesi di una attribuzione del valore di ristrutturazione ai soci, applicando l’esaminato meccanismo di cui all’art. 120 quater comma 1, CCII, il quale proprio su tale possibilità di differenziazione poggia la propria realizzabilità, onde consentire il superamento di eventuali dissensi.
Non meno problematica appare la regola disposta dall’ultimo periodo dell’art. 120-quater comma 1, nell'ipotesi in cui “non vi sono classi di creditori di rango pari o inferiore a quella dissenziente”, quando cioè la classe dissenziente sia quella del rango più basso, vale a dire una immediately junior classes, e sia l’unica a trovarsi in tale posizione, in coda alle classi dei creditori e all’immediato ridosso della classe degli equity holders.
In tal caso, “il concordato può essere omologato solo quando il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente è superiore a quello complessivamente riservato ai soci.
Nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 83/2022 si spiega che il criterio generale di applicazione della RPR nella ristrutturazione trasversale, fissato dall’art. 112, comma 2, lett. b), e riedito con le suindicate variazioni dall’art. 120 quater, comma 1, CCII, sarebbe risultato “inapplicabile in caso di dissenso dell’unica classe di creditori collocata al rango immediatamente superiore a quello dei soci”; sicché, “per tale ragione, nell’ultimo periodo del primo comma si prevede che, in questo solo caso, al fine di verificare il rispetto delle suddette regole, il valore assoluto destinato a tale classe debba essere superiore a quello riservato ai soci”.
Qui il confronto non è in termini di “trattamento”, bensì di importo del “valore” attribuito, ed ha luogo fra l’unica ed infima classe di creditori dissenziente e i soci, per questi ultimi con riferimento al valore misurato nei termini del comma 2 (valore delle partecipazioni post ristrutturazione e degli strumenti che danno diritto ad acquisirle, al netto di apporti realizzati a servizio della reorganization, a mezzo di conferimenti e versamenti a fondo perduto).
In questo senso, l’entità del valore complessivamente attribuibile ai soci dipende dall’ammontare, che deve essere comunque “superiore”, riconosciuto all’ultima classe dissenziente in questione, a prescindere da ciò che tale “ammontare” significhi, in termini di “trattamento” della stessa classe.
Se detta classe rappresenta un importo complessivo molto ampio di crediti, vi sarà più margine per “staccare” un importo, purché minore come cifra assoluta, da destinare ai soci sotto forma di partecipazioni/strumenti per acquisirle, con il singolare risvolto per cui, parlandosi di valore assoluto e non di trattamento, purché vi sia la suddetta superiorità di importo complessivo per i creditori rispetto ai soci, i creditori della classe de qua riceveranno complessivamente un maggiore importo, che però rispetto ai loro crediti (in chiave percentuale) potrebbe rappresentare un trattamento di notevole sacrificio, mentre i soci potrebbero ricevere un minore valore assoluto, che però corrisponda ad esempio a riottenere la stessa percentuale di partecipazione nella società ristrutturata, già posseduta prima dell’avvio del concordato.
Se invece la classe in questione riunisce crediti di complessivo minore importo, corrispondentemente minore potrà essere il valore in termini di importo assoluto loro destinabile e ancora minore allora il valore assoluto attribuibile ai soci, dunque più ristretti saranno i margini di manovra, ma comunque senza che ciò rispecchi necessariamente, neppure qui, un “trattamento” migliore per i creditori dell’ultima classe dissenziente, rispetto al “trattamento” riservato ai soci, dal punto di vista della possibilità offerta a costoro di “mantenere interessi” – non per forza in termini di controvalore monetario, bensì anche e soprattutto di posizioni, di poteri e di equilibri reciproci – nella società ristrutturata.
Altri ha osservato che “si tratta di regola dalla razionalità sfuggente” [64], ed in effetti il meccanismo non è di agevole comprensione.
A rinvenirne la logica può però aiutare forse la considerazione, secondo cui la classe dissenziente di cui qui si parla che non ha altre classi di pari rango o inferiori, trovandosi alla base della waterfall, non è d’altra parte l’unica – e ciò per definizione, essendo le classi necessariamente più d’una, ed essendovi dunque qui una o più classi di rango superiore –; essa è bensì l’ultima nella gerarchia dei creditori ma, in una più ampia prospettiva degli stakeholder che includa i soci, si colloca a ben vedere in una posizione “intermedia”, fra classi superiori di creditori ed equity holder.
In tal senso, l’ipotesi tipica sottesa alla disciplina in questione sembra quella in cui i creditori delle classi di rango superiore si accordino con i soci al fine di consentire loro di “mantenere interessi” nella società ristrutturata, per i vantaggi che il loro coinvolgimento nella reorganization può comportare e di cui si è già detto.
I creditori dissenzienti del rango più basso – ma intermedi fra classi creditorie superiori da un lato e soci dall’altro – non dovrebbero potersi opporre ad una tale intesa, a condizione che sia loro comunque assicurato il valore realizzabile in caso di liquidazione giudiziale, dagli stessi peraltro invocabile attivando il best interest of creditor test, ai sensi dell’art. 112, comma 3, CCII (test attivabile mediante opposizione proposta da ciascun creditore dissenziente, anche se di classe consenziente, a differenza di quanto previsto, per il concordato liquidatorio, dal comma 5 dello stesso art. 112, che ammette a contestare la convenienza della proposta solo il “creditore dissenziente appartenente a una classe dissenziente”): un valore realizzabile in caso di liquidazione che, applicandosi in tale scenario la regola di priorità assoluta, potrebbe anche non spettare affatto – poiché pari a zero – ai creditori della classe dell’ultima fila in questione, sicché vana sarebbe la loro opposizione stante l’esito negativo del test del “miglior soddisfacimento dei creditori”.
Così ragionando, i creditori delle classi sovraordinate potrebbero dunque concordare ex ante con i gestori della società e con i soci anteriori di questa il varo di un piano di concordato in continuità, che: per un verso accordi ai creditori (né potrebbe essere altrimenti) dell’eventuale unica classe del rango più basso il solo trattamento loro riservato dal best interest of creditor test, eventualmente pari a zero nel caso in cui tali creditori siano out of the money in ragione dell’incapienza, in base all’APR applicabile sul valore di liquidazione; e per altro verso riservi delle attribuzioni ai soci anteriori, recuperandoli in the picture, pur allorquando costoro siano – rispetto all’ultima classe dei creditori – a maggior ragione out of the money, stante la residualità delle loro pretese con perdita di ogni valore nell’alternativa liquidatoria.
Sennonché un simile piano, pur conforme al binomio APR/BIT – rispetto al quale parrebbe che i creditori di infima classe non avrebbero nulla di cui legittimamente dolersi, purché resti salvaguardato l’eventuale valore loro spettante in ipotesi liquidatoria – non sarebbe – questo è del resto l’insegnamento che proviene dall’esperienza statunitense della reorganization, a partire dalla decisione della Corte Suprema Northern Pacific Railway Co. v. Boyd del 1913 – né fair né equitable.
Vi è qui cioè un problema di correttezza (fairness), in base al quale non sarebbe fair da un lato trattare i creditori di ultimo rango in base allo stretto minimo dagli stessi esigibile, al limite pari a zero con conseguente (solo formalmente legittima) esclusione da ogni distribuzione e dall’altro lato concedere ai soci un valore, in termini di mantenimento dei loro interessi, che agli stessi non spetterebbe affatto – quali residual claimant – ove fossero loro applicati gli stessi criteri usati per gli ultimi dei creditori.
Ecco allora che può forse spiegarsi quale regola di correttezza – nel senso della fairness - della distribuzione la disposizione in esame per cui, affinché il piano possa legittimamente riservare una porzione del reorganization value ai soci anteriori, esso debba al contempo “staccare” un valore/importo anche in favore dei creditori dell’ultima fila il quale, fermo il quantum loro eventualmente spettante nell’alternativa liquidatoria, sia di ammontare complessivo comunque superiore (pur se di poco) al valore attribuito ai soci, onde almeno in questa forma rispecchiare la priorità (ancorché solo relativa, invece che assoluta) comunque da riconoscere ai creditori rispetto ai soci, ed impedire che i creditori in posizione “intermedia” fra classi superiori e soci, poiché all’ultima fila delle classi creditorie, possano essere semplicemente “scavalcati” da accordi fra le une e gli altri, che riservino ai soli creditori dell’infima classe un trattamento strettamente limitato a quanto loro spetta alla stregua del BIT e disattenda invece tale criterio per i soci, trattandoli più generosamente.
E, nella stessa ottica, trova ragione allora anche un confronto fra valori assoluti, anziché fra trattamenti riservati, onde rendere omogeneo il confronto rispetto ai soci per i quali il valore riservato è unicamente misurabile in termini di controvalore degli interessi mantenuti o riassegnati nella società esito della ristrutturazione.